Moto & Scooter
Addio, calabrone
La presentazione del motore della prossima Honda Hornet ci lascia con un misto di attesa e sconcerto: come sarà il calabrone amputato di due cilindri?
Nomina nuda tenemus, ci restano soltanto dei nomi. Come nel bestseller “Il nome della rosa” di Umberto Eco, della Hornet che fu resterà solo il nome: aggiornate le forme, più attuale il telaio, completamente diverso il motore, che di cilindri non ne avrà più quattro ma due.
Ora, finché l’Africa Twin passa da un V2 a un più compatto e leggero bicilindrico in linea, si può dire che l’idea della moto non si snatura. Ma è difficile dimenticare che la Hornet è sempre stata una nuda sportiva con il motore di una CBR. Nata a metà Anni 90, era la classica reazione Honda al successo di un concorrente, nello specifico la Ducati Monster. A Tokyo vollero dimostrare di saper fare meglio: una moto più performante, più leggera, meno costosa e con un motore a quattro cilindri, che per i giapponesi era allora una bandiera visto che nessun altro li faceva. E Honda ci riuscì, perché la Hornet sopravanzò la Monster sul mercato divenendo il fenomeno che tutti ricordiamo tra record di vendite, affollatissimi trofei monomarca e special su special; anche se poi la ciclistica almeno della prima serie, quella con la ruota anteriore da 16”, lasciava molto a desiderare.
Lasciava anche a desiderare, vista con gli occhi di oggi, la sua spinta ai medi: un problema congenito dei quattro in linea di bassa cilindrata, tanto è vero che quelli sotto i 1000 cc sono ormai scomparsi. Era però fuori discussione il fortissimo fascino della loro grinta agli alti regimi, dove il caratteristico urlo ha meritato a questi motori il nomignolo inglese di “screamer”, e alla Hornet il suo nome: calabrone.
La Hornet è insomma sempre stata una anti-Monster a quattro cilindri. E ora che ti fa Honda? La rilancia con un twin parallelo fasato a 270”: praticamente un V 90° con i cilindri riallineati, e dunque con una sonorità inevitabilmente più vicina a un Monster che a una Hornet prima serie. Quanto alla rabbia agli alti, la potenza massima è raggiunta a 9.500 giri, più o meno come una odierna Monster (9.250) e ben sotto un'altra bicilindrica come la Aprilia Tuono 660 (10.500).
Poi per carità, su strada il nuovo twin andrà sicuramente meglio: più compatto, più leggero e con più coppia in basso, rischia anzi di affossare anche l’ultimo rappresentante della categoria, che sopravvive (non a caso) su un’altra Honda, la CB650R. Ma questo 750 con la compattissima distribuzione Unicam sembra più una copia in piccolo del 1100 Africa Twin nato per la futura Transalp, e riutilizzato su una naked che solo per sfruttare il traino del nome si chiama Hornet. Una volta erano gli italiani che, per penuria di motori, usavano lo stesso propulsore su modelli molto diversi (Ducati e Cagiva sono stati maestri in questo), mentre i giapponesi seguivano la politica “una moto, un motore”. Oggi siamo nel tempo delle piattaforme e quel che ci resta sono appunto soltanto i nomi: difatti anche la Monster con l’ultima generazione è ormai diventata tutta un’altra cosa.
Forse si pensa che la gente vada in concessionaria e si senta rassicurata dal vedersi circondata da nomi familiari, anche se poi le facce e le corporature sono radicalmente cambiate. Ma è un po’ come se le Case si rivolgessero, in mancanza di nuovi, sempre agli stessi clienti. I listini sono così tornati a riempirsi di Africa Twin, Katana, Tuareg, Ténéré, R7: e almeno in qualche caso sembra mancare il coraggio di cambiare nome. Si invoca sempre la Porsche con la sempiterna 911, ma dopotutto la Ferrari cambia nome ai suoi modelli a ogni generazione e non sembra che le sue vendite o il suo prestigio ne risentano negativamente.
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