Attualità
...e alla fine della globalizzazione avremo le moto tutte uguali
Una volta le Harley erano le Harley, le Yamaha erano le Yamaha e le Guzzi erano le Guzzi: impossibile confonderle. Ma questo era possibile perché il mondo era "locale" e preservava le differenze. Che moto ci aspettano in un mondo globale?
C’era una volta il mondo in cui le moto italiane erano italiane, quelle americane erano americane e quelle giapponesi erano giapponesi. La proprietà, l’ingegneria, i materiali, il design erano tutti espressione della cultura, della tecnologia e dell’industria locale, e questo rendeva i modelli di un Paese radicalmente diversi da quelli di un altro.
Le moto americane erano imponenti, sfacciate e piene del famoso “Detroit steel”, l’acciaio abbondante e a buon mercato sviluppato per l’industria automobilistica a stelle e strisce. Le giapponesi erano aggressive nelle linee, piene di alluminio, costruite con incredibile meticolosità attorno a motori sempre all’avanguardia. Le italiane, realizzate da un numero sterminato di piccoli costruttori, erano di piccola cilindrata, ben guidabili, ricche di inventiva e di soluzioni estrose quanto, spesso, di difetti e problemi.
Alla radice delle differenze
Andiamo però alla radice di queste differenze. Le moto americane esprimevano tutta la potenza degli USA del Dopoguerra, la facilità nel reperire materiali, l’indifferenza al consumo di benzina, la postura in sella rilassata dei cowboy, le highway grandi e dritte. Le giapponesi esprimevano l’ansia di rivalsa di un popolo sconfitto e umiliato in guerra, che aveva costruito un diverso tipo di supremazia nel mito dell’eccellenza e dell’infallibilità attraverso test su strada, in laboratorio e in circuito estesi come nessuno aveva mai fatto. Per questo i loro motori, tra gli Anni 70 e 80, avevano prestazioni migliori degli altri, non perdevano olio, non si rompevano mai (come voleva la leggenda) o comunque molto poco (come era in realtà).
Quanto alle italiane, erano figlie dell’Italia: un Paese in cui tutti hanno la loro idea e non ci si mette mai d’accordo, sempre frammentato, pieno d’estro ma povero di risorse. Moto prodotte da piccole aziende per le quali era impossibile fare campagne di prova alla giapponese e che sopperivano, almeno in parte, con qualche trovata estetica e tecnica del genio di turno.
Se le barriere non ci sono più
Americane, giapponesi, italiane: moto che riconoscevi a colpo d’occhio, figlie di storie diverse che avevano potuto svilupparsi per effetto delle barriere agli spostamenti e alle comunicazioni. Quasi nessuno parlava inglese e quasi nessuno viaggiava all’estero, tanto meno nei lontanissimi USA o nell’impenetrabile Giappone. Il massimo che potevi fare era guardare qualche loro film o cartone animato, ascoltare le loro canzoni; ma il tuo mondo di riferimento restava il mondo della porta accanto. La geografia era corta, la storia era lunga: sapevi tutto di quello che altri, dalle tue parti, avevano fatto prima di te: e così automaticamente succedeva che una moto americana fosse diversa da una moto giapponese, e un vestito italiano da uno francese.
I primi venti anni di questo secolo hanno demolito le barriere e il primo effetto della globalizzazione, più ancora della facilità di spostare merci e persone, è l’unificazione dell’orizzonte culturale, per la prima volta nella storia. I designer attingono allo stesso immaginario collettivo trasversale, che ascolta indifferentemente il cantante americano o quello coreano, e guarda allo stilista di Hong Kong tanto quanto all’italiano. Risultato? Le moto europee, giapponesi, americane e cinesi sono sempre più simili fra loro.
E intanto i progettisti di tutto il mondo studiano le stesse cose e vanno alle stesse conferenze. Devono rispettare normative ormai simili eusano tutti gli stessi programmi di simulazione e calcolo, che hanno reso quasi inutili le completissime prove su strada dei giapponesi e la tradizione di eccellenza dei tester italiani. Risultato? Le prestazioni e l’affidabilità delle moto europee, giapponesi, americane e cinesi si sono allineate. Il motore Revolution Max di Harley-Davidson potrebbe essere stato progettato in Europa o in Giappone: non c’è nulla che lo renda inequivocabilmente “americano”, a differenza dei suoi predecessori.
È una malattia? No, è il presente
C’è un rimedio all’orizzonte? Ci sarebbe magari se questa fosse una malattia, ma non è una malattia: è una condizione. È la condizione del nostro presente globale, più o meno uguale dappertutto nell'architettura, nella musica, nelle mode; e senza una storia a cui rifarsi, diventa difficile distinguere una moto cinese da una giapponese o americana. Ci riusciamo ancora perché sono fatte da persone cresciute in un mondo non del tutto globalizzato, al quale possono fare riferimento: e non è un caso se ultimamente siamo inondati di scrambler, classic e in generale moto che affondano le radici, perlomeno estetiche, in quel mondo pieno di barriere e di differenze.
Viceversa possiamo attenderci che il processo si concluda, come dimostra il mondo dell’auto, con l’arrivo della mobilità elettrica, che essendo nata nel presente non farà riferimenti al passato: come non li fa ad esempio il mondo degli smartphone. Se vent’anni fa al passaggio di un’auto non avevi dubbi se fosse una Volkswagen o una Chrysler, oggi la differenza tra una ID.3, una Tesla e una BYD è molto più sfumata.
Oggi ancora ci scandalizziamo quando dalla Cina arriva l’ennesimo clone di una moto occidentale, ma fra vent’anni riconosceremo ancora a colpo d’occhio una moto italiana da una cinese? Non ne sono troppo sicuro. Riconosceremo in compenso una moto da ricchi da una moto da poveri: quella è una differenza che non andrà a sfumare, anzi.
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