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Dakar, the DAY AFTER

Lorenzo Cascioli
di Lorenzo Cascioli foto Foto HRC, Marcin Kin/Husqvarna Press, Marcin Kin/KTM Press, RallyZone Edoardo Bauer/HRC, Yamaha Press© il 18/01/2019 in Altri sport
Dakar, the DAY AFTER
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Il commento del giorno dopo: dopo la rottura di Brabec con la Honda c’è chi ha sperato fino alla fine in una rimonta Yamaha o in un ribaltone Husqvarna. Ma alla fine ha vinto ancora KTM, continuando l’incredibile serie di successi iniziata nel 2001 con il grande Meoni…

Una Dakar piccola piccola. Senza nulla togliere a chi ci ha corso rischiando la vita e tantomeno a chi l’ha organizzata, la gara di quest’anno ha dato l’impressione di essere meno faraonica rispetto agli anni scorsi. Si è conclusa di giovedì, un giorno un po’ così. Come se il Tour de France o il Giro d’Italia si chiudessero a metà settimana, mentre la gente lavora e non può stare sul divano a farsi la sua scorpacciata di diretta tivù. Si è corsa tutta in Perù, dal primo all’ultimo chilometro. Gli organizzatori della ASO avranno avuto tutte le loro buone ragioni per una scelta del genere (in primis la possibilità di concentrare in 5.500 km una eclatante abbuffata di dune), ma la Dakar da sempre, oltre che per la gara in sé, affascina un certo pubblico per la componente “viaggio”. Una volta si partiva da Parigi, si attraversava mezza Francia al freddo come motociclisti in strada per l’Elefantentreffen, ci si imbarcava su un traghetto e prima di arrivare in Senegal si attraversavano Algeria, Mali, Mauritania e Niger.

Il Perù sarà pure grande più di Francia e Italia messe insieme, ma circoscrivere in un solo Paese il concetto di viaggio è la negazione di quell’avventura “senza confini” che da 40 anni è questa gara. Quando nel 2009 la Dakar sbarcò in Sud America, costretta a lasciare l’Africa per problemi di sicurezza legati a possibili attentati terroristici e comunque all’instabilità di alcuni dei Paesi attraversati, rimanemmo tutti stregati dai nuovi straordinari scenari di Argentina e Cile. Cinquecento anni dopo Cristoforo Colombo, anche noi appassionati di Rally scoprivamo un nuovo mondo. E pian piano che il percorso si ampliava, sconfinando in Perù e in Bolivia, tutti noi dakariani da divano (gli spettatori, insomma) iniziammo a sognare che la grande gara potesse attraversare tutta l’America del Sud, dalla Terra del Fuoco al Canale di Panama. E invece no. Ormai da qualche anno le voci del bivacco danno la grande maratona pronta a emigrare di nuovo, in Asia. Magari in Cina. Vedremo se e cosa succederà.

Imbattibile KTM

Sfogate le turbe mentali in tema di geografia del sottoscritto, eccoci qua a festeggiare il 18.mo successo di fila per KTM. Monopolio, monomarca, monoteismo chiamatelo come volete, fatto sta che la Casa di Mattighofen non ne sbaglia una dal 2001. Oggi sembra tutto facile per gli austriaci, c’è qualcuno che si dice anche annoiato da questo strapotere arancione, ci sono altri che mettono in ballo la fortuna. Ma se le Honda (in questa edizione prima quella di Barreda e poi quella di Brabec) si fermano per guai meccanici, cosa c’entra la buona sorte? Una KTM che non spacca più i motori (a suo tempo, quando prese le batoste da BMW nel 1999 e 2000, anche le arancioni rompevano) è fortunata o è brava perché ha progettato una buona moto?
Se KTM mette giù un’armata di piloti così maestosa da riuscire a vincere contro le statistiche ineluttabili di quella che è una gara a eliminazione (Uno cade? C’è quell’altro di rimpiazzo. Uno si perde? Ce ne è un altro ancora…) è fortunata o è brava a metterli sotto contratto?
E così è andata anche quest’anno, come tutte le recenti edizioni. C’è sempre un pilota Honda o uno Yamaha capace di guidare la gara fino al giorno di riposo, poi quel pilota blu o rosso cade. Oppure rompe la moto. Oppure ancora sbaglia strada. Sembra matematico. Tutti ci provano, tutti si scannano, poi a due-tre giorni dalla fine emerge lo schieramento KTM e piazza tutti davanti.
Quest’anno è stato l’americano Ricky Brabec a illudere… poi dopo la rottura del motore della sua Honda CRF 450 Rally le speranze si sono spostate sul francese Adrien Van Beveren con la Yamaha WR450 Rally che era lì a soli due minuti dal vertice… ma anche lui, alla penultima tappa, è finito out per un problema tecnico. Rimaneva Pablo Quintanilla su Husqvarna (marca nell’orbita KTM) a giocarsi il tutto per tutto quel famoso giovedì 17 gennaio. E invece anche lui è saltato. Fuori il rosso, fuori il blu e fuori il bianco, sul podio della Dakar sono arrivati tre arancioni. Triplete KTM. Filotto reale. Il vincitore è Toby Price, australiano che sembra un cantante grunge, classe 1987, già vincitore nel 2016. Secondo Matthias Walkner, austriaco con la faccia da bravo bambino, classe 1986, primo classificato nel 2018. Terzo Sam Sunderland, inglese con la faccia da inglese, classe 1989, al trionfo nel 2017. Sono loro le punte di diamante di una generazione di giovani dakariani che non è ex di nulla. Non sono ex crossisti o ex enduristi che a fine carriera hanno deciso di passare ai Rally. Sono ragazzi che già dopo i 20 anni diventano velocissimi specialisti di questo tipo di gare.

Hanno raccolto l’eredità di Cyril Despres e Marc Coma, gli acerrimi rivali capaci di spartirsi tutte le vittorie dal 2005 al 2015. Due piloti che diedero vita a un dualismo modello Coppi-Bartali, senza mai lasciare spazio al terzo uomo. Despres e Coma che ancora sul suolo africano maneggiarono le grosse e fascinose 690 e 660 Rally, le moto che avevano dominato la Dakar prima che il regolamento limitasse la cilindrata agli attuali 450 cc.

E visto che le dopo le turbe geografiche al sottoscritto sono venute quelle di storia, ripercorriamola fino in fondo la carrellata dei piloti vincenti KTM. Come non ricordare quel Nani Roma infreddolito e in crisi di nervi che nel 2002 si accasciò piangente in un roccioso fuoripista tra le montagne della Mauritania? Si sarebbe poi riscattato, conquistando l’edizione 2004. Nel 2003 era stato invece l’indimenticato Richard Sainct, abile stratega e pilota riflessivo, a portare al successo la 660. E in questo ripercorrere alla rovescia i 18 successi di KTM, ecco che salta fuori il nome di Fabrizio Meoni, l’unico capace di dominare e portare al successo la maestosa Adventure 950 bicilindrica, nel 2002. Bissando il successo dell’anno precedente, conquistato sulla mono 660. Una vittoria che oggi agli occhi del mondo fa l’effetto di un paletto ancora irremovibile: 2001, l’anno in cui KTM iniziò a vincere la Dakar.

Tre italiani al traguardo

Meoni manca al mondo intero perché era un campione generoso e un grande uomo. E manca doppiamente a noi italiani. Dopo di lui non c’è più stato un azzurro in grado di vincere la grande maratona. Ci aveva fatto sperare Alessandro Botturi che al debutto nel 2012 colse un eclatante ottavo posto. La “pressa di Lumezzane” si era poi rivelato molto veloce, accarezzando posizioni da podio, ma per una ragione o per l’altra (cadute o rotture) non è più riuscito a finire la maratona. Quest’anno non ha partecipato, andando a vincere in compenso l’Africa Eco Race che si è corsa in concomitanza.
Ma torniamo alla Dakar. Jacopo Cerutti e Maurizio Gerini, entrambi sulle Husqvarna FR 450 Rally del team Solarys Racing, sono buoni piloti e attualmente possono anche ambire alla top ten, ma non alla vittoria. Cerutti, classe 1989, anche quest’anno stava andando bene, ma è stato costretto al ritiro dopo aver centrato un sasso: un pilota che gli passa troppo vicino, una nuvola di polvere che si alza, cinque secondi a visibilità zero, il masso che non si vede. Volo lunghissimo, moto in mille pezzi, per fortuna niente di grave al fisico. Gerini, classe 1985, ha invece concluso con un ottimo 14° posto finale, portando così al termine la sua seconda Dakar su due disputate.
Bravo Mirko Pavan, classe 1985, 54.mo. Segni particolari, è uno di quegli eroi che corrono senza assistenza. Che alla sera, al bivacco, si aggiustano la moto da soli. La loro Dakar è tutta in una cassa trasportata dall’organizzazione. Al traguardo anche Gabriele Minnelli, classe 1972, che corona il sogno dei tanti signor nessuno che come lui ogni anno ci provano. Che vorrebbero concludere una Dakar a tutti i costi. Lui ce l’ha fatta, 73° su 75 all’arrivo.

Ci stavamo esaltando anche per Nicola Dutto, uno che da sempre ama la polvere dei deserti. Da quando camminava con le sue gambe e andava a correre le famose Baja in Messico. Continuando anche poi da paraplegico, dopo un incidente in gara, risalendo la china e sfidando l’impossibile: tornare a gareggiare in moto, senza l’uso degli arti inferiori. Sottoponendosi ad allenamenti tremendi per rafforzare la parte superiore del corpo, imparando a sopportare gli atroci colpi che l’off-road impone a chi non si può alzare in piedi sulle pedane, circondandosi di una squadra di piloti in gara capaci di rialzarlo e sorreggerlo nei momenti di sosta sulla sua KTM 450 dotata di una speciale gabbia di protezione laterale. Dopo tre tappe concluse con onore, Nicola stava dimostrando che l’impossibile era diventato possibile. Poi l’estromissione dalla gara per una ferrea decisione degli organizzatori, nonostante - come dichiara a caldo Nicola in un accorato video che ha fatto il giro del mondo - avesse avuto l’ok dai commissari di percorso per saltare un waypoint come concesso dal regolamento. L'ipotesi è che ci sia stato un malinteso tra i componenti stessi dell’organizzazione. Anche se fosse arrivato ultimo, saremmo stati lì a tifarlo come uno che si gioca la vittoria.

Dakar 2019: le foto più belle
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