Attualità
Claudio Domenicali: "Amo tutto ciò che va veloce"
Ha modi affabili ma fermi. Si definisce "Curioso e presuntuoso", parla di "impresa" e "responsabilità sociale" e nella sua vita se non fosse stato assunto a Borgo Panigale avrebbe voluto fare il giornalista. E invece è diventato amministratore delegato dell'azienda dove lavora da 26 anni. Presente, passato e futuro di Ducati raccontati da Claudio Domenicali
L'intervista completa è stata pubblicata su Dueruote di Novembre 2017.
Il 2017 è stato un'anno bollente per Ducati. Voci concrete di una cessione voluta dalla Casa madre (il gruppo Volkswagen, che attraverso Audi controlla Borgo Panigale) mai smentite ufficialmente, una sfilza di pretendenti prestigiosi lunga fino a laggiù. E poi la conclusione di questo valzer di rumors finanziari e preoccupazioni per il futuro, con l'ad di Audi Rupert Stadler che ha detto "no" alla cessione del gioiellino emiliano delle due ruote.
Ma la sensazione è stata che Ducati resta sempre Ducati, chiunque sieda nel suo consiglio di amministrazione. Merito anche di un signore che ha varcato questi cancelli nel 1991 da neolaureato in ingegneria e che dal 2013 è amministratore delegato: Claudio Domenicali. Ha modi affabili ma fermi. Si definisce "curioso e presuntuoso", parla di "impresa" e "responsabilità sociale" come un uomo politico, più che come il capo di un'azienda da 1.594 dipendenti, presente in 90 Paesi e capace di vendere nel 2016 (anno dei record) oltre 55mila moto.
Domenicali, cosa ricorda del suo primo giorno in Ducati?
"Nel 1991 Ducati era un'azienda incredibilmente diversa da quella di oggi. Era una piccolissima realtà reduce dai fasti degli Anni 70 e dalle partecipazioni statali. Poi a metà Anni 80 la proprietà passò dall'IRI al gruppo Cagiva: Claudio Castiglioni investì per creare il bicilindrico quattro valvole ad acqua, base dei nostri successi in Superbike, e gettò le basi per due icone del motociclismo come la 916 e il Monster. In quegli anni lì nasce la Ducati moderna. Io ero uno dei quattro laureati in ingegneria di tutta la Ducati, oggi di ingegneri ne abbiamo oltre 350".
Cosa significa lavorare in Ducati?
"Ducati è un'azienda molto informale e coinvolgente. Qui tutti ci diamo del tu e la porta del mio ufficio è sempre aperta. I dipendenti nascono ducatisti, e se non lo sono lo diventano ben presto, restandolo per la vita. Abbiamo un basso tasso di uscita. E negli anni ho visto colleghi andarsene da qui per poi ritornare alla casa madre".
Se non fosse entrato in Ducati, cosa avrebbe voluto fare nella vita?
"Ho sempre amato tutto ciò che va veloce, dalle moto alle barche. Arrivo da una famiglia normale, e con i soldi che avevo all'epoca, il mezzo più veloce che potevo permettermi era una moto: avevo una Yamaha 1000 Genesis. Dopo l'istituto tecnico mi sono iscritto a ingegneria. Ai tempi dell'università facevo il tester per MotoTecnica, ma non mi bastava. Invece di giudicare il lavoro fatto da altri, ho deciso che volevo essere colui che progettava i mezzi. Per questo ho lasciato l'editoria, rifiutando una proposta di assunzione da parte di uno storico mensile di settore, e mi sono concentrato sugli studi. Per rispondere alla domanda, credo che oggi avrei potuto essere un giornalista".
Nell'aprile 2013, dopo aver rivestito ruoli crescenti in Ducati, è diventato amministratore delegato. Com'è stato passare dal lavoro sul campo a quello di manager?
"A me piace moltissimo lavorare con le persone, gestire la squadra, tirare fuori il meglio dai diversi talenti a disposizione. Per uno che fa il mio lavoro, questo è il massimo".
È un capo molto severo?
"Credo che ci si possa divertire lavorando, pur essendo seri e precisi, senza prendersi troppo sul serio. Io non urlo mai coi miei ragazzi. Ho alzato la voce due volte in 10 anni. Certo, sono esigente. Ma per essere autorevoli non c'è bisogno di urlare".
Qual è la cosa di cui va più fiero?
"Essere riuscito a mantenere una linea di condotta che ha fatto crescere la marca senza cambiarla, nonostante tutti i cambi di proprietà. Io stesso, prima di diventare amministratore delegato, ne ho avuti quattro, tutti con una visione strategica diversa. Mantenere la barra dritta in molti momenti è stato particolarmente difficile. E oggi Ducati, al di là dei numeri di vendita, è nel momento migliore della sua storia: facciamo moto sportive, affascinanti, di qualità, i conti positivi ci permettono di essere indipendenti, fare investimenti e progettare un grande futuro. Per chi fa il mio mestiere, il più grande risultato è lasciare in eredità a chi verrà dopo un'azienda più sana, più resistente alla difficoltà di come l'ho trovata".
E cosa non rifarebbe, invece?
"Nel 2009 Casey Stoner tornò in Australia: stava male, non si capiva che cosa avesse. Alla ripresa del campionato ci avvisò che non sarebbe più tornato, chiudendo poi le comunicazioni. Per diverse settimane non riuscimmo a parlare con lui. Ma il nuovo campionato era alle porte e abbiamo contattammo altri piloti, perché non sapevamo se potevamo ancora contare su Casey. Quello è stato il momento in cui i rapporti tra noi si sono rotti. Né io né Filippo Preziosi né Livio Suppo ci siamo resi conto cosa stava succedendo. Ecco, se potessi tornare indietro, prenderei un aereo e partirei per l'Australia".
A proposito di piloti, come valuta la stagione di Dovizioso in MotoGP?
"A inizio stagione non avrei mai pensato che Dovi sarebbe stato dov'è oggi (l’intervista è stata fatta a ottobre). E nemmeno lui se lo sognava".
Su chi riponeva più speranze?
"Su Lorenzo".
Allora, cos'è successo?
"Il Dovi è stato bravissimo a lavorare su se stesso, e poi insieme alla squadra per migliorare la moto, enfatizzando i punti forti della Desmosedici e minimizzandone quelli negativi".
E Lorenzo?
"Veniva da nove anni in Yamaha e si è trovato a guidare una moto diversissima. La Yamaha è molto fluida e curva velocemente, mentre la nostra moto è più grezza, basa la sua prestazione sulla capacità di frenare molto e di accelerare rapidamente. All'inizio lui è stato molto disturbato da queste caratteristiche e si è dovuto adattare: basti pensare che in Yamaha non usava mai il freno posteriore, qui ha imparato a usarlo. Però abbiamo lavorato sulla sua moto e sta crescendo molto. Ma è un percorso più lungo di quello che noi e lui ci immaginavamo".
Si tratta di una bocciatura?
"Per niente, anzi. Jorge è molto determinato. Mi ha detto: 'Guarda che sto arrivando, e quando sono là davanti, non mi schioda più nessuno'. Io penso che bisogna credergli, ma i fatti ci risponderanno presto".
Continuerete a partecipare in veste ufficiale sia alla MotoGP sia alla Superbike?
"In Superbike stiamo facendo benissimo, basta vedere il confronto con la stagione deludente dei team ufficiali che non siano Ducati o Kawasaki. Siamo sempre in lizza in un campionato dove è difficilissimo lottare per le posizioni di vertice. I futuri regolamenti della SBK inoltre vanno nella direzione di moto sempre più simili ai prodotti di serie, con un investimento meno estremo a carico dei costruttori. Una scelta che a noi fa piacere".
Lei ha seguito per anni la parte sportiva di Ducati. A quale pilota è rimasto più affezionato?
"Sono il primo tifoso di Jorge e Dovi. Ma con Troy Bayliss c'è proprio un rapporto speciale. Lui adesso vive in Australia e sta seguendo suo figlio Oliver, che ha 13 anni ed è un potenziale campione. Magari lo mettiamo sotto contratto noi…".
Dallo sport torniamo alla strada. Ducati è un marchio premium, che però è stato baciato dal successo di una moto facile e per il grande pubblico come la Scrambler. Non è una contraddizione?
"Ducati ha una caratteristica, sia quando produce le Scrambler sia le Panigale: fa moto belle, di qualità, ben rifinite. Chiamale premium o di qualità superiore, ma il Dna è sempre lo stesso. E poi la Scrambler non è una moto da due soldi: il prezzo medio di vendita è superiore ai 10mila euro, il mercato di massa ha altri riferimenti ben più bassi".
Il futuro di Ducati è fatto di una gamma in crescita.
"Negli ultimi anni, oltre a Scrambler, siamo usciti dalla nostra area di comfort con prodotti poco in linea con l'identità del marchio, come la Multistrada Enduro e la XDiavel, che allargano il bacino dei clienti, sia dal punto di vista numerico, sia geografico. Il nostro principale mercato sono gli Stati Uniti, ma i posti dove le vendite di moto crescono a doppia cifra sono a Oriente".
In Cina quali Ducati si vendono?
"La Cina era un mercato di moto di bassa qualità, soprattutto dedicate ai piccoli spostamenti urbani, che sta esplodendo. I cinesi sono grandi appassionati, adorano Monster, Multistrada e Scrambler. E le comprano per mostrare la loro ricchezza".
Ha ancora senso nel 2017 produrre moto sportive, in un segmento di mercato che va a picco?
"Il mercato è in calo, non c'è dubbio. Ma per un costruttore come Ducati, che è in grado di sviluppare prodotti con investimenti ragionevolmente contenuti, resta un segmento interessante. Altri costruttori meno specialisti, che richiedono grandi investimenti perché abituati a fare grossi volumi, magari possono trovarlo meno profittevole".
L'intervista completa è stata pubblicata su Dueruote di Novembre 2017.
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