Moto & Scooter
Sedotti e abbandonate: le moto che ci hanno fatto sognare ma poi non abbiamo voluto
Dalla Derbi Mulhacén alla Suzuki B-King, tutte le concept che hanno tolto il sonno agli appassionati ma che una volta realizzate si sono rivelate clamorosi insuccessi
Oggi prima di lanciare sul mercato un nuovo modello le Case fanno sondaggi, panel group e ricerche varie; ma una volta la cartina al tornasole erano i Saloni con le concept, fatte un po’ per far vedere la propria bravura visionaria e un po’ per studiare le reazioni della gente davanti a qualcosa di radicalmente nuovo.
Il problema con le reazioni della gente è – oggi coi social è diventato più evidente – che l’entusiasmo è effimero, mentre il disprezzo è duraturo. Per cui poteva capitare, e infatti è capitato più volte, che una moto osannata come concept sia stata poi snobbata, causando non solo uno smacco all’onore della Casa, ma soprattutto danni economici.
A volte è successo perché la moto di serie aveva perso la freschezza della concept, rischio sempre in agguato quando si mettono targa, specchietti e fari omologati. A volte è successo perché la versione in vendita aveva un prezzo più alto di quel che la gente si aspettasse. E a volte è successo per ragioni misteriose: perché nel frattempo erano cambiati i gusti, perché il primo giudizio era stato affrettato, per mille ragioni di cui non resta traccia, mentre traccia resta delle moto protagoniste di questa rassegna relativa ai soli modelli apparsi in questo millennio.
Le moto che ci hanno sedotto da concept, ma che una volta arrivate dai concessionari abbiamo abbandonate al loro destino.
A fine Anni 90 Ducati è ormai una realtà solida, ma che riposa su due sole linee di prodotto: la naked Monster e le Superbike della serie 916/996/998. A Borgo Panigale sanno di dover diversificare, offrire nuovi prodotti per ampliare il proprio pubblico, e guardano al passato. Il primo esperimento è la MH evoluzione (MHe), omaggio firmato da Pierre Terblanche – allora a capo del Centro Stile – alla leggenda di Mike Hailwood che aveva vinto al TT del 1978 con il motore ad aria che non a caso era stato ripreso (nella sua ultima incarnazione) sulla MHe.
Presentato al Salone di Monaco, il concept aveva fatto girare le teste con la sua linea neo-rétro, all’epoca decisamente inusuale, e gli specchietti sostituiti con videocamere. Ducati decise saggiamente di produrla, ma in serie limitata a 2.000 esemplari, vendendola solo su internet. Diciamo saggiamente perché i primissimi esemplari andarono in effetti a ruba, ma la richiesta poi calò molto, senza contare la produzione travagliata: Bimota, che doveva occuparsene, andò in crisi e Ducati fu costretta ad attrezzare al suo interno una linea per l’assemblaggio a mano; poi la vedova di Mike Hailwood fece causa per lo sfruttamento indebito del nome del marito, e alla fine non è ben chiaro quanti esemplari siano stati effettivamente venduti.
Chiacchieratissima al suo apparire, la MT-01 sperimentava una formula nuova: motore raffreddato ad aria, ad aste e bilancieri e di grandissima cubatura, di derivazione custom ma declinato in senso sportivo e inserito in una ciclistica altrettanto sportiva. Una sportiva all'americana, lunga e piena di coppia: una Cobra Shelby su due ruote, praticamente, e il primo germe del concetto “Monster Torque” che poi Yamaha declinò nella famiglia MT di grandissimo successo, ma che in quel primo caso non piacque.
Acclamatissima come concept nel 1999, richiese parecchio tempo per essere industrializzata: arrivò nel 2005, sempre gradevole alla vista, dotata di una fortissima personalità e un motore che faceva godere, anche bella da guidare ma troppo pesante (circa 300 kg) e troppo lontana dallo strettissimo canone della sportività del tempo. Per di più costava caro, specie in versione SP con colori più accesi e sospensioni più raffinate, e rimase una moto di ultra-nicchia.
Altra bomba disinnescata dalla Casa e dal mercato: nel 2001, in piena esplosione delle hyper-naked, Suzuki presentò la B-King, probabilmente non estranea all’interesse suscitato dalla Yamaha MT-01 e ancora più estrema: una naked col motore 4 cilindri 1340 della Hayabusa di seconda generazione, e se non bastasse sovralimentato per la bellezza - nel 2001 e senza elettronica - di 240 CV. Apriti cielo.
Suzuki mostrava di non avere paura di stupire presentando la versione ufficiale della (all’epoca) celeberrima e illegalissima moto di “Ghost Rider”, divenuto celebre ben prima di YouTube per i suoi spericolati video nel traffico, e il sangue degli appassionati andò in ebollizione. Poi però Hamamatsu ci mise un po’ troppo a decidersi (6 anni!), e quando la moto arrivò, la mano che aveva tirato il sasso si era un po' nascosta: niente turbo (i cavalli erano comunque 184…) e un’estetica più goffa e sgraziata che spense gli entusiasmi anche dei tifosi più sfegatati del brand Suzuki.
Dopo la mancata produzione della Supersport 600 4 cilindri con motore Suzuki, la Ferro avrebbe dovuto rilanciare Gilera con un prodotto più centrato nella motorizzazione. Disegnata da Rodolfo Frascoli, era una naked originale nella linea – la mascherina riprendeva l’aspetto delle maschere medievali in ferro e della MX1 Endurcance 125 degli Anni 80, il serbatoio era muscoloso, il doppio scarico alto sul monobraccio bellissimo – e nella tecnica, con un bicilindrico a V di 850 cc abbinato a una trasmissione automatica CVT a controllo elettronico che permetteva di simulare le marce.
Al Salone di Milano del 2003 fu accolta con entusiasmo, e come Gilera dal sapore sportivo avrebbe forse potuto funzionare; ma dopo l’acquisizione di Aprilia nel 2004, Piaggio decise di disinvestire definitivamente dal marchio Gilera e dirottò il progetto Ferro su una tranquilla roadster a marchio Aprilia, la Mana. Che, un po’ arrivata in un momento di sofferenza identitaria del brand di Noale e un po’ oggettivamente mesta nella linea e nella guida, non riscosse il successo sperato.
Come la Ferro avrebbe dovuto rilanciare Gilera, così la Mulhacén avrebbe dovuto essere la prima Derbi stradale, iniziando un percorso analogo a quello che KTM aveva già iniziato con successo. Per questo il suo insuccesso fece particolarmente male, e fu abbastanza imprevedibile perché la concept era molto piaciuta, e la versione di serie confermava sostanzialmente tutto.
Era una scrambler in anticipo di 10 anni su Ducati, con le ruote da 18”, una linea moderna e personale caratterizzata dal grande scarico alto e una bella leggerezza (162 kg) che permetteva una bella guida, limitata soltanto dalle prestazioni molto tranquille del monocilindrico Yamaha-Minarelli. Ad ogni modo, la concept piace subito un po’ a tutti, in anni in cui la gente è propensa a sperimentare formule nuove (sono appena nate le naked, le motard e le adventure) e le Case quindi ci provano volentieri, anche con modelli non particolarmente versatili come questo. Che nonostante un prezzo giusto, non ci fu verso di vendere a nessuno – complice forse anche una rete non preparata ad avere a che fare con moto.
Dopo che Aprilia ha investito sul V4, Honda teme di perdere la priorità su una motorizzazione che ha sviluppato con successo per decenni, sia in gara che in produzione con la serie VFR. Per ribadire che il vero V4 è Honda e che Honda è la madre del V4, a Tokyo prendono la ormai obsoleta VFR e la portano nel nuovo millennio con una versione 1200 piena zeppa di tecnologia, dal Ride By Wire alla distribuzione Unicam e dal carter in depressione al cambio a doppia frizione DCT che fa qui il suo debutto.
La moto viene anticipata da un bizzarro prototipo non marciante, una specie di statua che vuole rappresentare il V4 al cuore della moto. Comunque fotografatissima e attesissima, la maquette prelude alla VFR1200F, che arriva al Salone di Tokyo 2009. Effettivamente ricorda molto la concept, effettivamente è piena zeppa di tecnologia, ma è comunque molto diversa da quel che ci si aspettava: non una erede della RC30, ma piuttosto della VFR750F, e per di più lievitata a 270 kg di peso. Il motore non è più un V 90° ma un V 76°, ma non è certo questo a scoraggiare gli acquirenti: sono piuttosto l’estetica futuristica, il peso, l’appeal sempre più scarso delle sport-tourer, la scelta di avere una finale a cardano, il prezzo elevato.
Siamo nel 2015 e Husqvarna, passata in pochi anni dall’agonizzante gruppo Cagiva a BMW e quindi a KTM, sembra aver finalmente trovato la sua strada nel recupero della gloriosa tradizione del marchio. Decisi a riportarlo anche su asfalto, gli uomini di Kiska che guidano lo sviluppo prodotto per KTM si immagino una roadster senza tempo, basata sull’unico motore di media cilindrata in quel momento disponibile: il potentissimo monocilindrico LC4 690. Un anno prima si sono viste le Vitpilen e Svartpilen 401, sempre monocilindriche ma accolte dal pubblico un po' come delle grosse 125, mentre con la Vitpilen 701 si fa sul serio: la base è quella della KTM Duke, ci sono oltre 70 CV e quindi le prestazioni sono assicurate, la linea lascia tutti a bocca aperta.
Ridotta all’essenza della moto, la Vitpilen lascia tutto in vista e vive del contrasto tra il plastico serbatoio e il piccolo codino, separati dallo “split”, una linea gialla che sembra tagliare diagonalmente la moto in due. La versione di serie arriverà un anno dopo e sarà fedele alla concept, altrettanto ben dotata di ciclistica, leggerissima e bella da guidare ma costosa e decisamente limitata nel campo di utilizzo. Venderà pochissimo e verrà abbandonata dopo poche stagioni.
Sempre a Eicma 2015 Honda presenta il prototipo CB4, disegnato in Italia da Valerio Aiello, e finalmente la Casa dell’Ala sembra aver ritrovato… il colpo d’ala. Dopo le un po’ barocche streetfighter CB1000R, il 4 in linea di Tokyo trova finalmente casa in una moto essenziale e di grande fascino, che dà il via al filone che Honda soprannomina “Neo Sports Café”.
Inutile dire che il pubblico di Eicma chiede a gran voce la messa in produzione della CB4, che puntualmente avviene – salvo scoprire che quando arriva, pur piuttosto differente dalla concept, è pur sempre elegantissima e ben rifinita, quasi del tutto priva di plastica nelle sovrastrutture. Eppure la CB1000R Café Sports vende costantemente e decisamente di meno della vecchia CB1000R, nonostante sia più leggera, meglio dotata e nel complesso anche più gratificante alla guida. Il che conferma che l’eleganza ha sempre un pubblico più ristretto della sfacciataggine.
Nel giro di un paio d’anni a Eicma si sono viste non una, ma ben tre pronipoti della Cagiva Elefant 900, tutte in forma di concept. La più fedele ed affascinante era a firma Ducati: col motore ad aria della famiglia Scrambler che era il diretto discendente del “pompone” della Elefant, il doppio faro tondo, i serbatoi posteriori e le grafiche che riprendevano nei colori quelli della Lucky Explorer che aveva corso e vinto alla Dakar. Semplice nella tecnologia e affascinante nelle forme, sembra una soluzione che accontentava tutti: rilancia il marchio Scrambler un po’ a corto di idee e fa sognare gli appassionati.
A Borgo Panigale, però, si fanno prendere la mano e decidono di far uscire la DesertX dalla famiglia Scrambler per farle aprire una nuova linea di prodotto a marchio Ducati: ci infilano sotto il twin Testastretta 11° da 937 cc aumentandone prestazioni e dotazioni, ma inevitabilmente anche il prezzo. Il risultato è una moto dinamicamente strepitosa sia su strada che in fuoristrada, che mantiene persino la possibilità (in opzione) di avere il serbatoio posteriore supplementare ma che scalda meno del previsto i cuori tanto dei contemporanei che dei nostalgici, vendendo sotto le aspettative.
Chiudiamo con un ultimo esempio assolutamente contemporaneo: un modello CFMOTO, forse la prima volta che un marchio cinese è capace di stupire in occidente. Accade nel 2021 con la SR C21 Vision, misteriosa supersportiva disegnata dallo studio Modena 40 di Carles Solsona. Di lei si vedono le appendici aerodinamiche, il monobraccio e il doppio scarico alto, ma il motore è top secret e partono le elucubrazioni: si dice che monti il KTM LC8, poi un 1000 4 cilindri destinato alla Superbike, o addirittura un 1250 V-twin.
Il chiacchiericcio si spegne quando viene presentata la 450SR, declinazione di serie della concept: è una razionale ed equilibrata bicilindrica media per patenti A2, ben costruita e sufficientemente leggera, che conserva in gran parte il fascino della concept (specialmente nella versione SR-S con monobraccio arrivata nel 2024) ma che naturalmente non riesce a eccitare lo zoccolo duro dei motociclisti sportivi né a vendere in grandi numeri sul nostro mercato. CFMOTO, però, è senz’altro più contenta di vendere bene questo modello nei mercati dell’Asia, piuttosto che fare qualche decina di pezzi di una improbabile Superbike 1000 in Italia. Il mondo, anche per le concept, è decisamente cambiato.
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