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Top & Flop: i modelli di maggior successo e i passi falsi Kawasaki

Carlo Pettinato il 06/09/2024 in Moto & Scooter
Top & Flop: i modelli di maggior successo e i passi falsi Kawasaki
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Dalla prolifica famiglia Z nelle sue numerose declinazioni alla crossover Versys 1000 prima serie e alla super-tourer GTR 1400. Un ripasso della storia recente di Akashi analizzandone le moto migliori e peggiori: ecco le nostre scelte!

In oltre 70 anni di storia motociclistica, Kawasaki ha prodotto moto di ogni tipo, affermandosi come uno dei marchi più iconici nel panorama delle due ruote. Fondata nel 1896, Kawasaki si è dedicata alle motociclette dal 1953 e ha costruito la propria reputazione attorno alle motorizzazioni a 4 cilindri, una meccanica affidabile e performante e un design molto personale.

Modelli come la Z1000 del 2003 e la Z900 hanno segnato una svolta nel mercato delle naked, con un look aggressivo e prestazioni che le hanno rese immediatamente riconoscibili e amate dagli appassionati. La Z900 RS, con il suo design retrò ispirato alla leggendaria Z1 degli Anni 70, rappresenta perfettamente cheil connubio tra tradizione e innovazione  Kawasaki sa offrire.

Tuttavia non tutte le scelte del marchio giapponese sono state fortunate. Come ogni produttore, Kawasaki ha avuto i suoi alti e bassi: moto che non hanno convinto per concetto, realizzazione o tempismo. Qualche esempio: l’ultima serie di Z1000, schiacciata tra la fascinosa e meno costosa sorella 900 e le ancora più potenti hypernaked, la Versys 1000 del 2012, una crossover intelligente ma dallo stile troppo anticonformista, o la GTR 1400, una tourer penalizzata dal confronto con la regina BMW K GT e da un mercato in declino per questo tipo di moto.

Nonostante alcuni passi falsi, la capacità di Kawasaki di innovare e rimanere fedele alla propria identità ha permesso al marchio di emergere come uno dei più rispettati e longevi nel mondo delle moto. Ecco, dunque, la nostra selezione dei modelli Top & Flop concepiti dagli stabilimenti di Akashi.

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I MODELLI TOP DI CASA KAWASAKI

Le naked della serie Z imperversano e si prendono tutti i posti disponibili tra i modelli di maggior successo degli ultim anni. La 1000 del 2003, madre di tutta l’ultima generazione di nude sportive Kawasaki, la 900 arrivata nel 2016 e la sua variante RS, stupendo tributo alla Z1 del 1973.

<div class='descrGalleryTitle'>Z 1000 2003</div><div class='descrGalleryText'><p>Arrivò nel 2003 dopo circa quindici anni di latenza della stirpe, inaugurando la <b>nuova generazione di naked Z</b> che vive ancora oggi. Dopo che la Ducati Monster aveva inaugurato il filone delle naked moderne, la Kawasaki Z 1000 fu forse <b>la migliore risposta dal Giappone:</b> una maxi naked sportiva che ereditava il motore della carenata Ninja ZX-9R, maggiorato sino a 953 cc quando la Ninja si fermava a 899. L’alimentazione era a iniezione e le prestazioni erano di <b>127 cavalli e 95 Nm</b>: valori di tutto rispetto in un periodo storico in cui le hyper naked non esistevano ancora. La Z 1000 si trovava a fare i conti sì con la Aprilia Tuono, 1.000 bicilindrica, ma anche con moto meno agguerrite, tipo Honda Hornet 900 e Yamaha Fazer 1000. Al di là del propulsore esuberante, la Z 1000 presentava <b>componentistica di buon livello</b>: la ciclistica si basava su un telaio in alluminio, abbinato a forcella rovesciata da 41 regolabile in precarico e ritorno e a mono ammortizzatore con link anch’esso regolabile in precarico e ritorno; l’impianto frenante prevedeva due dischi anteriori da 300 mm con pinze assiali. Ma è stata soprattutto <b>l’estetica della Z 1000 a fare storia</b>, con le sovrastrutture essenziali e la mascherina che ricordava due occhi accigliati, family feeling in parte mantenuto ancora oggi. Da segnalare anche <b>i quattro terminali cromati, </b>citazione della mitica Z1 del 1973.</p>
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Z 1000 2003

Arrivò nel 2003 dopo circa quindici anni di latenza della stirpe, inaugurando la nuova generazione di naked Z che vive ancora oggi. Dopo che la Ducati Monster aveva inaugurato il filone delle naked moderne, la Kawasaki Z 1000 fu forse la migliore risposta dal Giappone: una maxi naked sportiva che ereditava il motore della carenata Ninja ZX-9R, maggiorato sino a 953 cc quando la Ninja si fermava a 899. L’alimentazione era a iniezione e le prestazioni erano di 127 cavalli e 95 Nm: valori di tutto rispetto in un periodo storico in cui le hyper naked non esistevano ancora. La Z 1000 si trovava a fare i conti sì con la Aprilia Tuono, 1.000 bicilindrica, ma anche con moto meno agguerrite, tipo Honda Hornet 900 e Yamaha Fazer 1000. Al di là del propulsore esuberante, la Z 1000 presentava componentistica di buon livello: la ciclistica si basava su un telaio in alluminio, abbinato a forcella rovesciata da 41 regolabile in precarico e ritorno e a mono ammortizzatore con link anch’esso regolabile in precarico e ritorno; l’impianto frenante prevedeva due dischi anteriori da 300 mm con pinze assiali. Ma è stata soprattutto l’estetica della Z 1000 a fare storia, con le sovrastrutture essenziali e la mascherina che ricordava due occhi accigliati, family feeling in parte mantenuto ancora oggi. Da segnalare anche i quattro terminali cromati, citazione della mitica Z1 del 1973.

<div class='descrGalleryTitle'>Z 900 RS</div><div class='descrGalleryText'><p>A EICMA 2017, da una costola della Z 900 nacque la Z 900 RS, tributo alla storica Z1 900 del ’73. La RS è tecnicamente parente della Z 900 standard, ma l<b>e differenze sono sostanziali</b> sia a livello di motore che di ciclistica, con telaio e quote dedicati. Se la Z 900 presenta un design aggressivo in puro stile Sugomi, la RS sembra davvero una moto di fine Anni 60/primi Anni 70 traslata ai giorni nostri: <b>uno dei più begli esempi di ner-rétro che si siano visti. </b>Il fanale anteriore è tondo, il serbatoio a goccia è allungato così come la sella. Da brava giapponese, la Z 900 RS è poi&nbsp;<b>curata fin nel minimo dettaglio</b>: le pelli esterne del quattro cilindri in linea, che in questa versione eroga 111 cavalli al posto dei 125 della controparte (ma il valore di coppia è sempre di 98 Nm e arriva pure oltre 1.000 giri prima), sono state ridisegnate <b>con un’alettatura che richiama </b>i vecchi motori raffreddati ad aria. La componentistica è, naturalmente, modernissima, con forcella rovesciata da 41 mm regolabile in estensione e precarico e mono anch’esso regolabile in estensione e precarico; i freni si affidano a due dischi anteriori da 300 mm e a pinze ad attacco radiale a quattro pistoncini. La Z 900 RS è una moto azzeccata, unisce un aspetto classico davvero gradevole ad una dinamica di livello in cui il propulsore la fa da padrone: morbidissimo e lineare, è davvero <b>una gioia per i sensi</b>.</p>
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Z 900 RS

A EICMA 2017, da una costola della Z 900 nacque la Z 900 RS, tributo alla storica Z1 900 del ’73. La RS è tecnicamente parente della Z 900 standard, ma le differenze sono sostanziali sia a livello di motore che di ciclistica, con telaio e quote dedicati. Se la Z 900 presenta un design aggressivo in puro stile Sugomi, la RS sembra davvero una moto di fine Anni 60/primi Anni 70 traslata ai giorni nostri: uno dei più begli esempi di ner-rétro che si siano visti. Il fanale anteriore è tondo, il serbatoio a goccia è allungato così come la sella. Da brava giapponese, la Z 900 RS è poi curata fin nel minimo dettaglio: le pelli esterne del quattro cilindri in linea, che in questa versione eroga 111 cavalli al posto dei 125 della controparte (ma il valore di coppia è sempre di 98 Nm e arriva pure oltre 1.000 giri prima), sono state ridisegnate con un’alettatura che richiama i vecchi motori raffreddati ad aria. La componentistica è, naturalmente, modernissima, con forcella rovesciata da 41 mm regolabile in estensione e precarico e mono anch’esso regolabile in estensione e precarico; i freni si affidano a due dischi anteriori da 300 mm e a pinze ad attacco radiale a quattro pistoncini. La Z 900 RS è una moto azzeccata, unisce un aspetto classico davvero gradevole ad una dinamica di livello in cui il propulsore la fa da padrone: morbidissimo e lineare, è davvero una gioia per i sensi.

<div class='descrGalleryTitle'>Z 900</div><div class='descrGalleryText'><p>Basandosi solo sui nomi, la Z 900 potrebbe sembrare la sorella minore della Z 1000, ma gli avvicendamenti in gamma Z non sono così semplici. La 1000 fu da subito affiancata dalla 750, cresciuta nel 2013 a 800 cc; nel 2016 questa <b>crebbe ancora e divenne Z 900</b>, ma il motore era derivato da quello della 1000, nel frattempo arrivato a 1.043 cc, e non da quello della 800. 1000 e 900 hanno convissuto sino al 2020, ma oggi a sopravvivere è solo la 900, e il ruolo di “naked media” è rivestito dalla bicilindrica 650. 900 e 1000 sono poi diversissime in fatto di estetica e telaio: la 1000 è uno dei vertici del Sugomi che la avvicina a un robottone da cartone animato giapponese, mentre <b>la Z 900, col suo semplice ma sezy telaio in tubi e l'estetica meno strillata, è la vera erede della prima Z 1000, </b>e come lei è una long seller: vende tantissimo da tanti anni. Successo spiegabile col fatto che&nbsp;è meccanicamente una moto particolarmente valida soprattutto grazie al <b style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;">magnifico carattere del suo quattro cilindri</b>. I dati di potenza e coppia, 125 cavalli a 9.000 giri e 98 Nm a 7.700, non bastano a descriverne la pastosità, che nella guida in collina e montagna rende quasi superfluo l’uso del cambio. Sin dai bassissimi regimi la linearità è da riferimento: non strappa e non è scorbutico, impossibile non apprezzarlo. La prima versione voleva essere &quot;no frills&quot;, non aveva nemmeno il controllo di trazione; oggi è disponibile in vari allestimenti, tra cui la ricca Special Edition con mono Öhlins, ma il prezzo di partenza della base, <b style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;">appena sopra i 10.000 euro</b>, la rende un bell’affare.</p>
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Z 900

Basandosi solo sui nomi, la Z 900 potrebbe sembrare la sorella minore della Z 1000, ma gli avvicendamenti in gamma Z non sono così semplici. La 1000 fu da subito affiancata dalla 750, cresciuta nel 2013 a 800 cc; nel 2016 questa crebbe ancora e divenne Z 900, ma il motore era derivato da quello della 1000, nel frattempo arrivato a 1.043 cc, e non da quello della 800. 1000 e 900 hanno convissuto sino al 2020, ma oggi a sopravvivere è solo la 900, e il ruolo di “naked media” è rivestito dalla bicilindrica 650. 900 e 1000 sono poi diversissime in fatto di estetica e telaio: la 1000 è uno dei vertici del Sugomi che la avvicina a un robottone da cartone animato giapponese, mentre la Z 900, col suo semplice ma sezy telaio in tubi e l'estetica meno strillata, è la vera erede della prima Z 1000, e come lei è una long seller: vende tantissimo da tanti anni. Successo spiegabile col fatto che è meccanicamente una moto particolarmente valida soprattutto grazie al magnifico carattere del suo quattro cilindri. I dati di potenza e coppia, 125 cavalli a 9.000 giri e 98 Nm a 7.700, non bastano a descriverne la pastosità, che nella guida in collina e montagna rende quasi superfluo l’uso del cambio. Sin dai bassissimi regimi la linearità è da riferimento: non strappa e non è scorbutico, impossibile non apprezzarlo. La prima versione voleva essere "no frills", non aveva nemmeno il controllo di trazione; oggi è disponibile in vari allestimenti, tra cui la ricca Special Edition con mono Öhlins, ma il prezzo di partenza della base, appena sopra i 10.000 euro, la rende un bell’affare.

E LE MOTO FLOP, POCO APPREZZATE PER DIFFERENTI MOTIVI

Le Z hanno in linea generale riscosso successo, ma una di loro, l’ultima 1000, ricade tra i flop. Con lei, la prima Versys 1000, poco azzeccata nell’estetica e afflitta da alcuni difetti, e la GTR 1400, un tentativo mal riuscito di far concorrenza alla serie K di BMW.

<div class='descrGalleryTitle'>Versys 1000 2012</div><div class='descrGalleryText'><p>Non che le Versys abbiano mai brillato sotto questo punto di vista, ma la prima 1000, quella del 2012, aveva un <b>aspetto decisamente goffo</b> e poco elegante, in particolare nella vista frontale. Quel gruppo ottico voluto da Shunji Tanaka,&nbsp;che aveva disegnato così anche la Versys 650, anche a distanza di oltre dieci anni fatica a convincere. Allora come oggi, la Versys 1000 rientrava a pieno titolo nel segmento crossover, moto turistiche stradali con posizione di guida da maxi enduro, ma quando arrivò sul mercato era <b>l’unica nel suo genere ad essere spinta da un motore a quattro cilindri, </b>considerato da alcuni troppo pesante e ingombrante. Arrivò più tardi la BMW S 1000 XR, ma con bilanciamento tra prezzo e prestazioni completamente diverso. La linea stravagante impedì a molti di scoprire le qualità della Versys 1000, a partire dal propulsore derivato da quello della Z1000, con 1.043 cc e 118 cavalli. Un motore di grande linearità anche se afflitto nella prima serie da&nbsp;&nbsp;<b>vibrazioni, molto presenti a regimi intermedi</b>, grossomodo tra i 4 e i 6.000, che interessavano tutti i punti di contatto con il pilota ad andature autostradali. Capite anche voi che una tourer che sia scomoda in autostrada non è propriamente una ciambella riuscita col buco. Ai difetti della Versys 1000 model year 2012 si aggiungevano una frizione a cavo piuttosto dura, un freno anteriore poco potente e finiture delle sovrastrutture poco curate.</p>
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Versys 1000 2012

Non che le Versys abbiano mai brillato sotto questo punto di vista, ma la prima 1000, quella del 2012, aveva un aspetto decisamente goffo e poco elegante, in particolare nella vista frontale. Quel gruppo ottico voluto da Shunji Tanaka, che aveva disegnato così anche la Versys 650, anche a distanza di oltre dieci anni fatica a convincere. Allora come oggi, la Versys 1000 rientrava a pieno titolo nel segmento crossover, moto turistiche stradali con posizione di guida da maxi enduro, ma quando arrivò sul mercato era l’unica nel suo genere ad essere spinta da un motore a quattro cilindri, considerato da alcuni troppo pesante e ingombrante. Arrivò più tardi la BMW S 1000 XR, ma con bilanciamento tra prezzo e prestazioni completamente diverso. La linea stravagante impedì a molti di scoprire le qualità della Versys 1000, a partire dal propulsore derivato da quello della Z1000, con 1.043 cc e 118 cavalli. Un motore di grande linearità anche se afflitto nella prima serie da  vibrazioni, molto presenti a regimi intermedi, grossomodo tra i 4 e i 6.000, che interessavano tutti i punti di contatto con il pilota ad andature autostradali. Capite anche voi che una tourer che sia scomoda in autostrada non è propriamente una ciambella riuscita col buco. Ai difetti della Versys 1000 model year 2012 si aggiungevano una frizione a cavo piuttosto dura, un freno anteriore poco potente e finiture delle sovrastrutture poco curate.

<div class='descrGalleryTitle'>GTR 1400</div><div class='descrGalleryText'><p>Arrivò sul mercato nel 2007 tentando di <b>contrastare la regina assoluta</b>, la BMW K GT, all’epoca 1.200 e poi cresciuta sino a 1.600 a 6 cilindri. Ma, rispetto alla tedesca, la Kawasaki <b>non convinse mai a fondo,</b> a causa anche di un mercato in contrazione che ha lasciato posto solamente alle colonne portanti del segmento. Nella nostra prova comparativa del 2015, la GTR 1400 esce come moto <b>troppo sportiveggiante per essere una vera tourer</b> mangia chilometri, sia a livello di posizione di guida che di qualità dinamiche. Il propulsore da 1.400 cc derivava da quello della missilistica ZZR, ma parzialmente addomesticato, tanto che sino a 4.000 era così mansueto da nascondere l’importante cavalleria (160 CV). Oltre questa soglia<b> usciva però il carattere selvaggio della ZZR, </b>e con esso delle vibrazioni che mal si sposavano con l’intento della GTR. La giapponese perdeva il confronto con BMW anche dal punto di vista della dotazione: era provvista di ben meno impostazioni con cui cucirsi la moto su misura e orpelli elettronici, che in un mezzo di questo tipo risultano, piaccia o meno, immancabili. Su tutti, il cruise control, <b>non disponibile nemmeno come optional</b>, accessorio obiettivamente essenziale se si vuole fare tanta strada. Ancora in tema di elettronica, il traction control della Kawasaki risultava poco a punto, brusco nell’inserimento, e così il sistema di frenata combinata. Kawasaki voleva proporre una GT potente ma comoda, tentativo&nbsp;<b>interessante ma riuscito soltanto a metà</b>.</p>
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GTR 1400

Arrivò sul mercato nel 2007 tentando di contrastare la regina assoluta, la BMW K GT, all’epoca 1.200 e poi cresciuta sino a 1.600 a 6 cilindri. Ma, rispetto alla tedesca, la Kawasaki non convinse mai a fondo, a causa anche di un mercato in contrazione che ha lasciato posto solamente alle colonne portanti del segmento. Nella nostra prova comparativa del 2015, la GTR 1400 esce come moto troppo sportiveggiante per essere una vera tourer mangia chilometri, sia a livello di posizione di guida che di qualità dinamiche. Il propulsore da 1.400 cc derivava da quello della missilistica ZZR, ma parzialmente addomesticato, tanto che sino a 4.000 era così mansueto da nascondere l’importante cavalleria (160 CV). Oltre questa soglia usciva però il carattere selvaggio della ZZR, e con esso delle vibrazioni che mal si sposavano con l’intento della GTR. La giapponese perdeva il confronto con BMW anche dal punto di vista della dotazione: era provvista di ben meno impostazioni con cui cucirsi la moto su misura e orpelli elettronici, che in un mezzo di questo tipo risultano, piaccia o meno, immancabili. Su tutti, il cruise control, non disponibile nemmeno come optional, accessorio obiettivamente essenziale se si vuole fare tanta strada. Ancora in tema di elettronica, il traction control della Kawasaki risultava poco a punto, brusco nell’inserimento, e così il sistema di frenata combinata. Kawasaki voleva proporre una GT potente ma comoda, tentativo interessante ma riuscito soltanto a metà.

<div class='descrGalleryTitle'>Z 1000 2017</div><div class='descrGalleryText'><p>Risale al 2017 l’ultimo lifting della Z 1000, come anticipato uscita di scena nel 2020 per far posto definitivamente alla Z900. Una moto concreta, affidabile e performante, ma frenata da una linea che <b>non temeva di alzare l'asticella dell'eccesso.&nbsp;</b>Anche dal punto di vista del confronto con le rivali europee, la Z 1000 era rimasta indietro: su una naked sportiva da 142 cavalli non c'erano <b>né il controllo di trazione né un sistema anti impennata,</b>&nbsp;e nemmeno una mappatura più morbida da sfruttare in caso di asfalto viscido. Peraltro anche gli oltre 140 cavalli in questo segmento non erano più sufficienti: la Z 1000 si trovava a fare i conti, ad esempio, con la BMW S 1000 R da 165 cavalli, con la Aprilia Tuono V4 da oltre 170 CV e via dicendo. Il bel carattere, pastoso e lineare, non bastava a tenere il passo delle più agguerrite rivali. E non ci riusciva nemmeno la ciclistica, <b style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;">poco svelta tra le curve</b>. L’ultima delle Z1000 non era azzeccata nemmeno in quanto a comfort di marcia: l’imbottitura della sella era quasi inesistente e l’assetto standard era decisamente rigido: ok nella guida coltello tra i denti ma scomodo sulle asperità in tutte le altre situazioni. Tutto sommato, <b style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;">un invecchiamento comprensibile</b>: il progetto è del 2014 e in casa Kawasaki già si progettava di lasciare campo libero alla 900, quasi altrettanto prestazionale ma sensibilmente più economica.</p>
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Z 1000 2017

Risale al 2017 l’ultimo lifting della Z 1000, come anticipato uscita di scena nel 2020 per far posto definitivamente alla Z900. Una moto concreta, affidabile e performante, ma frenata da una linea che non temeva di alzare l'asticella dell'eccesso. Anche dal punto di vista del confronto con le rivali europee, la Z 1000 era rimasta indietro: su una naked sportiva da 142 cavalli non c'erano né il controllo di trazione né un sistema anti impennata, e nemmeno una mappatura più morbida da sfruttare in caso di asfalto viscido. Peraltro anche gli oltre 140 cavalli in questo segmento non erano più sufficienti: la Z 1000 si trovava a fare i conti, ad esempio, con la BMW S 1000 R da 165 cavalli, con la Aprilia Tuono V4 da oltre 170 CV e via dicendo. Il bel carattere, pastoso e lineare, non bastava a tenere il passo delle più agguerrite rivali. E non ci riusciva nemmeno la ciclistica, poco svelta tra le curve. L’ultima delle Z1000 non era azzeccata nemmeno in quanto a comfort di marcia: l’imbottitura della sella era quasi inesistente e l’assetto standard era decisamente rigido: ok nella guida coltello tra i denti ma scomodo sulle asperità in tutte le altre situazioni. Tutto sommato, un invecchiamento comprensibile: il progetto è del 2014 e in casa Kawasaki già si progettava di lasciare campo libero alla 900, quasi altrettanto prestazionale ma sensibilmente più economica.

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