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Moto & Scooter

Ducati 750 F1, la moto che trasformò la Pantah in 851

Lorenzo Cascioli
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Ducati 750 F1
Ducati Pantah 500
Ducati 600 TT2
Ducati 750 F1, in gara con Virginio Ferrari - foto dal sito ducati.com
Ducati 851, in gara con Marco Lucchinelli nel 1988

La moto che ha traghettato Ducati dalla Pantah alla 851. La produzione in serie dal 1985 al 1987, le versioni speciali 750 F1 Montjuich, 750 F1 Laguna Seca e 750 F1 Santamonica

Sgraziata. Bellissima. Cattiva. Alla Ducati 750 F1 presentata nel 1985 potremmo appioppare decine di aggettivi. Anche parole dai sapori contrastanti, perché fu la classica moto da amare o da odiare. La snobbavano i motociclisti filogiapponesi, che ritenevano inaccettabili le finiture spartane o l’assetto da asse da stiro. La amarono i Ducatisti e, in generale, gli intenditori della “sportiva all’italiana”, come si diceva al tempo. Al di là dei giudizi personali, di certo c’è che la Ducati 750 F1 è stata l’anello di congiunzione tra l’epoca più buia di Borgo Panigale e il momento della rinascita, sancito dai successi in Superbike delle 851 e discendenti.
La 750 F1 si fece con quel che c’era in casa. E all’inizio degli Anni 80 – uno dei momenti più difficili per Ducati – c’era poco. Ma quel poco era buono. Come il motore Pantah, arrivato nel 1979. Ebbene, il Pantah era riuscito nell’intento di mantenere l’architettura “a elle” e il richiamo delle valvole desmodromico - scelte allora sacre a Borgo Panigale - proiettandole in un progetto tutto nuovo, abbandonando gli alberelli e le coppie coniche per l’azionamento degli alberi a camme, a favore di un sistema con pulegge e cinghie dentate in gomma. Le valvole rimanevano due per ogni testa, come del resto la soluzione del monoalbero.
 

LA DUCATI 600 TT2 E LA 750 TT1

Le Ducati Pantah (prima la 500 SL e poi la 600 SL) si rivelarono delle buone sportive. E in pista, debitamente preparate per le competizioni per derivate di serie, fecero vedere i sorci verdi alle jap: la 600 TT2 e la 750 TT1 conquistarono titoli a ripetizione. Ovviamente rimaneva la parentela tecnica con le moto stradali ma, proprio come succede con le SBK di oggi, le moto erano oggetti speciali sfornati dal reparto corse. Il telaio restava un traliccio in tubi di acciaio, ma non era certo lo stesso… ed era così compatto che non c’era più posto per i coperchi delle cinghie di distribuzione. Che rimanevano all’aria aperta, nascoste sotto la carenatura. Addirittura cambiava il sistema della sospensione posteriore: addio ai due ammortizzatori delle Pantah, ecco un bel cantilever con monoammortizzatore. Freni, sospensioni e cerchi erano il non plus ultra. Oltre alle moto ufficiali, Ducati realizzò anche delle piccole serie per i piloti privati.
E allora, perché non ricavarne un modello stradale?
 

DUCATI 750 F1, FIGLIA DELLE CORSE

Sulla base ciclistica delle TT1 e TT2 nacque così nel 1985 la Ducati 750 F1. Il telaio al cromo molibdeno veniva leggermente modificato e irrobustito in vista dell’uso stradale, sia nella zona del reggisella, sia nella zona inferiore, dove comparivano gli attacchi per il cavalletto centrale. Venne allargato, quanto bastava per riuscire a infilare i coperchi delle cinghie. Anche la componentistica, all’insegna del made in Italy, non era la stessa della moto da corsa. I cerchi (da 16” davanti e 18” dietro) erano degli Oscam in lega leggera e nei primi esemplari della 750 F1 erano di color oro, a ricordare il magnesio dei Campagnolo utilizzati sulle TT1. L’impianto frenante vedeva dischi Brembo da 280 mm all’anteriore, mentre per le sospensioni c’era un pacchetto Marzocchi con forcella da 40 mm non regolabile e un mono con la regolazione del precarico molla.
Per il motore bisogna fare una bella spiegazione. In pratica, per omologare la 750 TT1 da competizione partendo dalla Pantah 600 SL era stato necessario produrre una piccola serie stradale con motore maggiorato a 650 cc (dove la corsa cresceva a 61,5 mm). Da questo si sarebbe estrapolato il motore racing della TT1, che presentava inoltre un alesaggio maggiorato a 88 mm. Ecco, si può brutalmente dire che il twin della 750 F1 fosse una via di mezzo tra il 748 racing, da cui riprendeva alesaggio e corsa (per l’appunto 88 x 61,5 mm), e quello della Pantah 650 SL. Rispetto a questa la 750 F1 evidenziava però diversi alberi a camme, modifiche alla trasmissione e altri interventi che facevano salire la potenza a 70 CV a 9.000 giri, per una velocità max dichiarata di 220 km/h.
 

DUCATI 750 F1, LA SPORTIVA ALL'ITALIANA

Il peso a secco restava sotto i 170 kg, il che rendeva la F1 molto più leggera delle potenti 4 cilindri jap con cui doveva confrontarsi. E poi c’era la coppia a dare una mano, elargita in modo generoso dai medio/bassi fino agli alti, dove il pompone sapeva allungare bel oltre il regime di potenza massima, in modo anche sorprendente. Il twin urlava dal singolo tromboncino nero, in un concerto ben accordato con l’aspirazione, visto che i due carburatori Dellorto PHF 36 con pompa di ripresa, posizionati ognuno posteriormente al proprio cilindro, respiravano direttamente nell’atmosfera. Non c’era una scatola filtro. Non ci stava. E questo era un peccaminoso ed esaltante retaggio del telaio TT1.
A differenza delle jap, che ancora evidenziavano qualche incertezza nella ciclistica (niente di drammatico, comunque, erano passati gli Anni 70 delle nipponiche da brivido) la 750 F1 era tutto tranne che incerta: quando la mettevi in curva, lei rimaneva lì. Certo, ci voleva una guida decisa. Non era una moto per tutti. Soprattutto se l’asfalto non era quello bello liscio delle piste: sullo sconnesso soffriva l’assetto davvero troppo rigido, perdendo precisione in modo preoccupante. E il comfort? Non parliamone. Una moto così doveva essere scomoda per contratto e la Ducatona rispettava i patti.

LA DUCATI 750 F1 MONTJUICH

Anche l’estetica rude doveva piacere. Il gigantesco codone (che conteneva anche la batteria) non era un esempio di stile, ma faceva parte – insieme a certi elementi secondari della componentistica – di quella filosofia di moto racing messa in strada. E vogliamo parlare del serbatoio, dalla forma così particolare, che si appoggiava e allo stesso tempo infilava dentro al telaio a traliccio? Al tempo qualcuno criticò le forme della F1, che - viste con gli occhi di oggi - esercitano invece un grande fascino.
Lanciata nel corso del 1985, la 750 F1 iniziò subito un percorso evolutivo che sapeva tanto di Italia artigianale o di reparto corse, se preferite, con modifiche non precisamente scandite dai “model year”, come succede oggi. A seconda del lotto di produzione, poteva cambiare qualche componente. E così, alle moto di fine 1985 che rispetto alle primissime avevano guadagnato la frizione a secco, il radiatore dell’olio posizionato sotto al faro e il caratteristico plexi rialzato e dritto, gli esemplari del 1986 aggiunsero una più moderna strumentazione con strumenti a fondo bianco, la forcella regolabile di Forcelle Italia e altro ancora. Le fonti del tempo non ci permettono di datare con certezza l’arrivo di nuovi carter rinforzati, interventi al cambio (che rimaneva a cinque marce) e teste riviste. Ma arrivarono, presumibilmente a inizio 1986.
Intanto, già a dicembre 1985 – al Motor Show di Bologna – era stata presentata la 750 F1 Montjuich, prodotta in serie limitata e caratterizzata tra l’altro da una componentistica spettacolare. L’arrivo era previsto a marzo 1986. Costava cara. Non i 25 milioni di lire necessari per la moto da gara in vendita ai piloti privati… ma la Montjuich sfiorava comunque i 15. Teniamo conto che la 750 F1 standard era a quasi 11 milioni, uno in più rispetto a una Suzuki GSXR 750 R, per dare un’idea.
 

IL DESMOQUATTRO DELLA DUCATI 851

Dalla Montjuich venne derivata la 750 F1 Laguna Seca del 1987, anche lei in serie limitata, che però si lasciò andare a qualche compromesso per contenere i costi: i cerchi, per esempio, erano quelli della Paso 750. Seguì sempre nel 1987 la 750 F1 Santamonica, con la quale si interruppe bruscamente la produzione e la storia di questa famiglia. Venne infatti sostituita dalla 750 Sport che, per quanto mantenesse viva la tradizione della sportiva all’italiana, virava su parecchi fronti. Non era la stessa cosa.
Le ultime 750 F1 Santamonica e le prime 750 Sport convissero fianco a fianco nei listini 1988.
Ma, alla fine, cosa rimase di quella moto schietta di cui abbiamo raccontato la breve ma intensa storia? Rimase molto, perché alla 750 F1 va un grande merito: le cugine racing, che negli stessi anni di produzione della moto di serie continuavano a mietere successi in gara, furono infatti la base per primi esperimenti con il motore raffreddato a liquido, con iniezione elettronica e teste bialbero quattro valvole. All’inizio vennero mantenute le misure di alesaggio e corsa della F1, che portavano a una cubatura di 748 cc (la moto da gara si chiamava infatti 748 IE). Ma per correre negli USA, dove era concessa una cilindrata superiore, si maggiorò il motore a 851 cc. Quel motore era il Desmoquattro. Stava nascendo la 851. Stava iniziando la storia moderna di Ducati.
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