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Yamaha V-Max 1200: e arrivò il dragster
Nata per il mercato Usa, diventò subito un cult anche in Europa per la forte personalità estetica e il motore così esagerato da far impallidire le maxi sportive dell'epoca. Erano quegli Anni 80 in cui tutto doveva essere di più...e lei lo è stata per parecchio tempo
"Devi vedere come va forte, oltre i 6.000 strappa le braccia. In curva non sta ferma, dondola un po', però che adrenalina. In verità non frena nemmeno tanto, ma alla mia signora mica lo dico... è la volta buona che mi lascia". Mi bastava sentire qualche sgasata per capire che quel V4 era una bella bestia!
La Yamaha V-Max nasce nei primi Anni 80 nella testa di Mr. Araki, direttore generale di Yamaha Giappone di allora, affascinato dal seguito che avevano le gare di hot rod in America. Auto con motori V8 esplosivi si sfidavano in accelerazioni assurde sui 0-400 metri. Va da sé che il propulsore della V-Max sarebbe stato un V4, architettura che stava prendendo piede proprio in quegli anni. L'aveva lanciata Honda. E Yamaha, con questa mostruosa interpretazione, non si lasciò sfuggire l'occasione per rispondere alla rivale. Semplici gli elementi chiave del progetto: fisico da dragster (avantreno snello, posteriore con gommone da 150, il più largo del tempo), satinature, cromature a contrasto del nero e, su tutto, le prestazioni.
Oltre ad aumentare il rapporto di compressione, utilizzare carburatori più larghi, valvole maggiorate, alberi a camme spinti e irrobustire i componenti della trasmissione (cambio e albero cardanico), il pool di ingegneri si inventa il V-Boost, sistema di alimentazione alternativo al turbo (tanto di moda a quei tempi), scartato per una mera questione di spazio. Il dispositivo ha una funzione simile al concetto dei carburatori a doppio corpo: qui singoli carburatori sono collegati tra loro a coppie tramite una valvola elettrica, che inizia ad aprirsi ai 6.000 giri, per spalancarsi del tutto agli 8.000. La quantità di carburante per ogni singolo cilindro cresce di conseguenza, così da ottenere un effetto "boost". Un cambio di carattere simile al "calcio nel didietro" tipico del 2T, ma non uguale: il V-Boost della Yamaha è possente ma meno violento e scorbutico, risultando più progressivo e gestibile a tutti i regimi. Ma se il motore risulta esaltante ancora oggi che 145 CV sono all'ordine del giorno su qualsiasi maxi cattivona, a riportarci agli Anni 80 ci pensa la ciclistica, nata per i rettilinei a stelle e strisce e non per le nostre amate curve.
Una mancanza su cui in Europa si punta subito il dito, nonostante la versione destinata al Vecchio Continente abbia "solo" 100 CV e sia priva del V-Boost, differenza tecnica che ha sviluppato un'importazioni parallela di V-Max dagli USA, le cosiddette America. Qualsiasi sia la versione, telaio e sospensioni sono sottodimensionati rispetto alla cavalleria e, soprattutto, alle secchiate di coppia presenti già ai medi regimi. Se il primo tende a torcere sotto la spinta del V4, forcella e ammortizzatori non fanno di meglio: la prima è tarata morbida e va in crisi in ogni curvone e nelle frenate decise; i molloni, invece, sono fin troppo duri, così sul pavé ci si rompe la schiena, mentre sugli avvallamenti presi veloci scalciano perché poco frenati d'idraulica. Disomogeneità che Yamaha ha cercato di correggere nel 1993, introducendo una forcella più rigida e con steli da 43 mm invece di 40, senza ottenere i miglioramenti attesi. Sempre lo stesso anno la V-Max riceve nuove pinze freno a 4 pistoncini al posto di quelle a due, per accrescere forza frenante e modulabilità, di cui la maxi cruiser giapponese non ha mai goduto nonostante le prestazioni e il peso lo richiedano.
Nonostante gli sforzi, le versioni che si sono susseguite negli anni non sono mai cambiate molto nel feeling di guida, dando linfa a un ricco mercato after- market, in primis per potenziare il V4. Perché sulla Yamaha V-Max 1200 le prestazioni devono essere esagerate, anzi, stupefacenti. Come il suo look, che non a caso è rimasto invariato se non per dettagli quasi impercettibili agli occhi dei più, ma non a quelli dei fans più sfegatati, gli unici ad accettarla per quella che è, una moto con qualche difetto, ma fascinosa e con tanto carattere: infatti, è il pilota che si adegua a lei. Non il contrario.
Cronologia di un cult
- 1985 Iniziano le vendite in America con la versione da 145 CV.
- 1986 Sbarca in Europa, ha "solo" 100 CV a 7.500 giri, ma la coppia è di ben 11,48 kgm (a 6.000); i dischi freno anteriore da 282 mm sono autoventilanti.
- 1987 Le cover in alluminio diventano nere; le ruote, non più a razze, prendono e mantengono il design "finestrato".
- 1990 Iniezione elettronica, prese d'aria in alluminio satinato; introduzione della V-Max nel mercato giapponese.
- 1991 Le emissioni acustiche scendono da 83 a 81 dB; modifiche allo scarico, la potenza scende a 95 CV a 8.000 giri; nuovi alberi motore, la coppia max passa a 10,3kgm a 3.000 giri.
- 1993 Adotta una nuova forcella da 43 mm, dischi freno forati e da 298 mm, pinze a 4 pistoni, pneumatici Metzeler (non
più Dunlop) e un generatore più potente.
- 1996 Scarico, foderi forcella, ruote e prese d'aria neri e non più cromati.
- 1998 L'impianto di scarico ritorna all'origine, tutto cromato.
- 1999 I parafanghi sono in carbon look.
- 2001 Introduzione dei paracolpi per gli steli della forcella e la cover serbatoio in carbon look.
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