Moto & Scooter
Yamaha V-Max 1200: e arrivò il dragster
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Nata per il mercato Usa, diventò subito un cult anche in Europa per la forte personalità estetica e il motore così esagerato da far impallidire le maxi sportive dell'epoca. Erano quegli Anni 80 in cui tutto doveva essere di più...e lei lo è stata per parecchio tempo
Me la ricordo ancora la prima volta che ho visto una Yamaha V-Max 1200. Era il 1987, usciva dal box del mio vicino per la gita domenicale con la moglie. Gli sbavavo dietro, alla moto. Il termine "scooterino" non era stato ancora coniato, ma i motorini non mancavano di certo: automatici, a pedale e a marce, erano tutti buoni per farsi le ossa (e la pelle, quando si cadeva) e trovarsi pronti una volta passati alle moto dei propri sogni.
Ognuno aveva il suo genere, dalle sportive (Aprilia AF1 e Gilera KK), alle nude (Honda NSR125 e la Zündapp per i più vintage), fino alle enduro (Aprilia Tuareg, Gilera RC). Per non parlare delle maxi sportive: anagraficamente ancora lontane ma superbelle, superpotenti, superimpegnative. Insomma, esagerate, come la Yamaha RD 500 del mio vicino di casa, sempre lui! Era uno dei randa della zona, faceva i tempi sulle vie del quartiere. Segni particolari, lo scotch con cui copriva fino ai 7.000 il contagiri: "Tanto sotto non va: è oltre che c'è la libidine vera". Quando tirava fuori la Yamaha V-Max 1200, però, gli occhi brillavano. Se la lucidava, accarezzava, a volte le parlava, forse per rassicurarla sul fatto che le voleva bene tanto quanto la RD. La usava tutti i giorni, era l'utilitaria buona nel casa-ufficio o quando c'era da fare parecchia strada, magari in coppia.
"Devi vedere come va forte, oltre i 6.000 strappa le braccia. In curva non sta ferma, dondola un po', però che adrenalina. In verità non frena nemmeno tanto, ma alla mia signora mica lo dico... è la volta buona che mi lascia". Mi bastava sentire qualche sgasata per capire che quel V4 era una bella bestia!
La Yamaha V-Max nasce nei primi Anni 80 nella testa di Mr. Araki, direttore generale di Yamaha Giappone di allora, affascinato dal seguito che avevano le gare di hot rod in America. Auto con motori V8 esplosivi si sfidavano in accelerazioni assurde sui 0-400 metri. Va da sé che il propulsore della V-Max sarebbe stato un V4, architettura che stava prendendo piede proprio in quegli anni. L'aveva lanciata Honda. E Yamaha, con questa mostruosa interpretazione, non si lasciò sfuggire l'occasione per rispondere alla rivale. Semplici gli elementi chiave del progetto: fisico da dragster (avantreno snello, posteriore con gommone da 150, il più largo del tempo), satinature, cromature a contrasto del nero e, su tutto, le prestazioni.
"Devi vedere come va forte, oltre i 6.000 strappa le braccia. In curva non sta ferma, dondola un po', però che adrenalina. In verità non frena nemmeno tanto, ma alla mia signora mica lo dico... è la volta buona che mi lascia". Mi bastava sentire qualche sgasata per capire che quel V4 era una bella bestia!
La Yamaha V-Max nasce nei primi Anni 80 nella testa di Mr. Araki, direttore generale di Yamaha Giappone di allora, affascinato dal seguito che avevano le gare di hot rod in America. Auto con motori V8 esplosivi si sfidavano in accelerazioni assurde sui 0-400 metri. Va da sé che il propulsore della V-Max sarebbe stato un V4, architettura che stava prendendo piede proprio in quegli anni. L'aveva lanciata Honda. E Yamaha, con questa mostruosa interpretazione, non si lasciò sfuggire l'occasione per rispondere alla rivale. Semplici gli elementi chiave del progetto: fisico da dragster (avantreno snello, posteriore con gommone da 150, il più largo del tempo), satinature, cromature a contrasto del nero e, su tutto, le prestazioni.
La V-Max 1200 arriva sul mercato a stelle e strisce nel 1985 ed è subito un successone, confermato l'anno dopo con lo sbarco in Europa. Come base tecnica gli ingegneri prendono la Yamaha Venture Royale 1200, una viaggiatrice stile Goldwing (con grosse selle, borse e semicarenatura di serie) che andava forte negli states, spinta da un V4 di 70° perfetto per il progetto. Il problema per i tecnici è come portare i 97 CV della Venture ai 145 CV della VMax.
Oltre ad aumentare il rapporto di compressione, utilizzare carburatori più larghi, valvole maggiorate, alberi a camme spinti e irrobustire i componenti della trasmissione (cambio e albero cardanico), il pool di ingegneri si inventa il V-Boost, sistema di alimentazione alternativo al turbo (tanto di moda a quei tempi), scartato per una mera questione di spazio. Il dispositivo ha una funzione simile al concetto dei carburatori a doppio corpo: qui singoli carburatori sono collegati tra loro a coppie tramite una valvola elettrica, che inizia ad aprirsi ai 6.000 giri, per spalancarsi del tutto agli 8.000. La quantità di carburante per ogni singolo cilindro cresce di conseguenza, così da ottenere un effetto "boost". Un cambio di carattere simile al "calcio nel didietro" tipico del 2T, ma non uguale: il V-Boost della Yamaha è possente ma meno violento e scorbutico, risultando più progressivo e gestibile a tutti i regimi. Ma se il motore risulta esaltante ancora oggi che 145 CV sono all'ordine del giorno su qualsiasi maxi cattivona, a riportarci agli Anni 80 ci pensa la ciclistica, nata per i rettilinei a stelle e strisce e non per le nostre amate curve.
Una mancanza su cui in Europa si punta subito il dito, nonostante la versione destinata al Vecchio Continente abbia "solo" 100 CV e sia priva del V-Boost, differenza tecnica che ha sviluppato un'importazioni parallela di V-Max dagli USA, le cosiddette America. Qualsiasi sia la versione, telaio e sospensioni sono sottodimensionati rispetto alla cavalleria e, soprattutto, alle secchiate di coppia presenti già ai medi regimi. Se il primo tende a torcere sotto la spinta del V4, forcella e ammortizzatori non fanno di meglio: la prima è tarata morbida e va in crisi in ogni curvone e nelle frenate decise; i molloni, invece, sono fin troppo duri, così sul pavé ci si rompe la schiena, mentre sugli avvallamenti presi veloci scalciano perché poco frenati d'idraulica. Disomogeneità che Yamaha ha cercato di correggere nel 1993, introducendo una forcella più rigida e con steli da 43 mm invece di 40, senza ottenere i miglioramenti attesi. Sempre lo stesso anno la V-Max riceve nuove pinze freno a 4 pistoncini al posto di quelle a due, per accrescere forza frenante e modulabilità, di cui la maxi cruiser giapponese non ha mai goduto nonostante le prestazioni e il peso lo richiedano.
Nonostante gli sforzi, le versioni che si sono susseguite negli anni non sono mai cambiate molto nel feeling di guida, dando linfa a un ricco mercato after- market, in primis per potenziare il V4. Perché sulla Yamaha V-Max 1200 le prestazioni devono essere esagerate, anzi, stupefacenti. Come il suo look, che non a caso è rimasto invariato se non per dettagli quasi impercettibili agli occhi dei più, ma non a quelli dei fans più sfegatati, gli unici ad accettarla per quella che è, una moto con qualche difetto, ma fascinosa e con tanto carattere: infatti, è il pilota che si adegua a lei. Non il contrario. Cronologia di un cult
- 1985 Iniziano le vendite in America con la versione da 145 CV.
- 1986 Sbarca in Europa, ha "solo" 100 CV a 7.500 giri, ma la coppia è di ben 11,48 kgm (a 6.000); i dischi freno anteriore da 282 mm sono autoventilanti.
- 1987 Le cover in alluminio diventano nere; le ruote, non più a razze, prendono e mantengono il design "finestrato".
- 1990 Iniezione elettronica, prese d'aria in alluminio satinato; introduzione della V-Max nel mercato giapponese.
- 1991 Le emissioni acustiche scendono da 83 a 81 dB; modifiche allo scarico, la potenza scende a 95 CV a 8.000 giri; nuovi alberi motore, la coppia max passa a 10,3kgm a 3.000 giri.
- 1993 Adotta una nuova forcella da 43 mm, dischi freno forati e da 298 mm, pinze a 4 pistoni, pneumatici Metzeler (non
più Dunlop) e un generatore più potente.
- 1996 Scarico, foderi forcella, ruote e prese d'aria neri e non più cromati.
- 1998 L'impianto di scarico ritorna all'origine, tutto cromato.
- 1999 I parafanghi sono in carbon look.
- 2001 Introduzione dei paracolpi per gli steli della forcella e la cover serbatoio in carbon look.
Oltre ad aumentare il rapporto di compressione, utilizzare carburatori più larghi, valvole maggiorate, alberi a camme spinti e irrobustire i componenti della trasmissione (cambio e albero cardanico), il pool di ingegneri si inventa il V-Boost, sistema di alimentazione alternativo al turbo (tanto di moda a quei tempi), scartato per una mera questione di spazio. Il dispositivo ha una funzione simile al concetto dei carburatori a doppio corpo: qui singoli carburatori sono collegati tra loro a coppie tramite una valvola elettrica, che inizia ad aprirsi ai 6.000 giri, per spalancarsi del tutto agli 8.000. La quantità di carburante per ogni singolo cilindro cresce di conseguenza, così da ottenere un effetto "boost". Un cambio di carattere simile al "calcio nel didietro" tipico del 2T, ma non uguale: il V-Boost della Yamaha è possente ma meno violento e scorbutico, risultando più progressivo e gestibile a tutti i regimi. Ma se il motore risulta esaltante ancora oggi che 145 CV sono all'ordine del giorno su qualsiasi maxi cattivona, a riportarci agli Anni 80 ci pensa la ciclistica, nata per i rettilinei a stelle e strisce e non per le nostre amate curve.
Una mancanza su cui in Europa si punta subito il dito, nonostante la versione destinata al Vecchio Continente abbia "solo" 100 CV e sia priva del V-Boost, differenza tecnica che ha sviluppato un'importazioni parallela di V-Max dagli USA, le cosiddette America. Qualsiasi sia la versione, telaio e sospensioni sono sottodimensionati rispetto alla cavalleria e, soprattutto, alle secchiate di coppia presenti già ai medi regimi. Se il primo tende a torcere sotto la spinta del V4, forcella e ammortizzatori non fanno di meglio: la prima è tarata morbida e va in crisi in ogni curvone e nelle frenate decise; i molloni, invece, sono fin troppo duri, così sul pavé ci si rompe la schiena, mentre sugli avvallamenti presi veloci scalciano perché poco frenati d'idraulica. Disomogeneità che Yamaha ha cercato di correggere nel 1993, introducendo una forcella più rigida e con steli da 43 mm invece di 40, senza ottenere i miglioramenti attesi. Sempre lo stesso anno la V-Max riceve nuove pinze freno a 4 pistoncini al posto di quelle a due, per accrescere forza frenante e modulabilità, di cui la maxi cruiser giapponese non ha mai goduto nonostante le prestazioni e il peso lo richiedano.
Nonostante gli sforzi, le versioni che si sono susseguite negli anni non sono mai cambiate molto nel feeling di guida, dando linfa a un ricco mercato after- market, in primis per potenziare il V4. Perché sulla Yamaha V-Max 1200 le prestazioni devono essere esagerate, anzi, stupefacenti. Come il suo look, che non a caso è rimasto invariato se non per dettagli quasi impercettibili agli occhi dei più, ma non a quelli dei fans più sfegatati, gli unici ad accettarla per quella che è, una moto con qualche difetto, ma fascinosa e con tanto carattere: infatti, è il pilota che si adegua a lei. Non il contrario. Cronologia di un cult
- 1985 Iniziano le vendite in America con la versione da 145 CV.
- 1986 Sbarca in Europa, ha "solo" 100 CV a 7.500 giri, ma la coppia è di ben 11,48 kgm (a 6.000); i dischi freno anteriore da 282 mm sono autoventilanti.
- 1987 Le cover in alluminio diventano nere; le ruote, non più a razze, prendono e mantengono il design "finestrato".
- 1990 Iniezione elettronica, prese d'aria in alluminio satinato; introduzione della V-Max nel mercato giapponese.
- 1991 Le emissioni acustiche scendono da 83 a 81 dB; modifiche allo scarico, la potenza scende a 95 CV a 8.000 giri; nuovi alberi motore, la coppia max passa a 10,3kgm a 3.000 giri.
- 1993 Adotta una nuova forcella da 43 mm, dischi freno forati e da 298 mm, pinze a 4 pistoni, pneumatici Metzeler (non
più Dunlop) e un generatore più potente.
- 1996 Scarico, foderi forcella, ruote e prese d'aria neri e non più cromati.
- 1998 L'impianto di scarico ritorna all'origine, tutto cromato.
- 1999 I parafanghi sono in carbon look.
- 2001 Introduzione dei paracolpi per gli steli della forcella e la cover serbatoio in carbon look.
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