Moto & Scooter
Kawasaki 500 Mach III H1A: l'età dell'oro
La fine degli Anni 60 ha coinciso con l'avvento delle giapponesi e con il conseguente declino di molte case europee. Una delle protagoniste di quel periodo aveva il nome della velocità del suono, un carattere strabordante, prestazioni super ma una ciclistica al limite dell'accettabile
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E poi tutto cambiò… dicevamo. La data è il 25 ottobre 1968. Il luogo è il Salone di Tokyo. Protagonisti Honda e Kawasaki. Da quel fatidico momento la storia motociclistica mondiale vira bruscamente verso oriente. In quell'occasione vengono infatti presentate la CB 750 Four e la 500 H1 Mach III. Se la prima può essere considerata una vera astronave per l'epoca, la capostipite delle moto moderne, la seconda si qualificò fin da subito come la più personale, cattiva, acerba e divertente moto in circolazione. Entrambe arrivarono sul mercato europeo portando in dote finiture perfette, assemblaggi curati, fusioni impeccabili, verniciature brillanti: il tutto, con economie di scala moderne e relativi costi. Una pugnalata al cuore del motociclismo nostrano…
La Kawasaki 500 Mach III (ovvero tre volte la velocità del suono…) nasce su espressa indicazione della filiale californiana Kawasaki che voleva un mezzo di 500 cc, a due tempi, a 3 cilindri, con peso inferiore ai 200 kg e 60 CV di potenza: una moto, insomma, che schizzasse come un fulmine in partenza e che impennasse senza troppi problemi. Il resto veniva dopo. Detto… fatto! Il capo progetto Takahashi raccoglie la sfida e confeziona questa esplosiva tre cilindri, accreditata di una potenza e di prestazioni impensabili fino ad allora. Una moto insomma che può competere con le moto europee, ben più grosse, e che darà del filo da torcere anche alle maxi giapponesi che sarebbero arrivate negli anni successivi. Concettualmente, la Mach III è piuttosto semplice: il motore è un tre cilindri in linea a 2T raffreddato ad aria. L'albero motore gira su sei cuscinetti a rulli e grazie al manovellismo particolare nei cilindri avviene uno scoppio ogni 120°: questo dà al motore una buona regolarità di funzionamento, nonostante si tratti di un due tempi spinto. Basti pensare alla potenza specifica raggiunta, circa 120 CV/litro, che alla fine degli anni Sessanta è un vero record. Non fu facile ottenere queste prestazioni, tanto che Takahashi chiamò al suo fianco un geniale progettista di turbine di nome Ohtsuki, che si impegnò nell'impresa: per arrivare a questi valori, le cinque luci di travaso vennero molto "incrociate" e questo comportò un'erogazione piuttosto appuntita. Sotto i 6.000 - pur rimanendo morbido e piacevole da usare - il tre cilindri risulta moscio, superata questa soglia la lancetta del contagiri schizza con veemenza verso la zona rossa, accompagnata da un urlo allo scarico da pelle d'oca.
L'aspetto meno piacevole sono i consumi: spingendo in maniera convinta si arrivava anche a 6-7 km/litro di miscela. Un valore che crea qualche problema anche sul fronte dell'autonomia, visto che il serbatoio ha una capacità di appena 15 litri… Questo motore, nonostante il carattere senza compromessi, risulta anche affidabile e non necessita di particolari attenzioni: infondate le voci che darebbero il pistone centrale meno raffreddato e quindi propenso al grippaggio. Certo, in caso di scarsa lubrificazione (qualora si finisse l'olio per il miscelatore separato) è il primo a cedere, ma la motivazione non sarebbe certo per difetto congenito. Una delle particolarità di questa Kawasaki è il cambio a cinque rapporti con la folle posta "sotto" alla prima marcia e non tra la prima e la seconda come avviene comunemente: per inserire il rapporto più corto, insomma, occorre azionare la leva verso l'alto, così come accade per tutte le altre marce. Il problema si presenta quando si scala, visto che se non si contano le cambiate, si rischia di inserire involontariamente anche la folle.
Ciclistica, questa sconosciuta
Il motore è inserito in un telaio che a guardarlo con gli occhi di oggi fa sorridere: si tratta di una doppia culla in tubi di acciaio di diametro estremamente contenuto. Lo stesso vale per i bracci del forcellone e per le canne della forcella. Non per nulla la ciclistica è l'anello debole di questa moto, che comunque è in grado di superare i 190 km/h: alle velocità più elevate, anche a causa di pneumatici dalla sezione "ciclistica", gli ondeggiamenti sono la norma. Ottima invece la maneggevolezza sullo stretto, anche in virtù del peso estremamente contenuto: sono solo 172 i kg dichiarati. L'altro limite della Mach III, se rapportato alle prestazioni in gioco, è la frenata, affidata a due freni a tamburo: seppur allineata a quelle delle rivali dell'epoca, era insufficiente se rapportata alle doti velocistiche della moto. Questi problemi sono stati parzialmente risolti con le versioni successive alle prime due (entrambe siglate H1A e prodotte tra il 1969 e il 1971).
Con la H1B della fine del 1972 viene infatti introdotto il freno a disco anteriore e aumenta il diametro della forcella: per compensare il maggior prezzo dei nuovi componenti, l'accensione elettronica viene rimpiazzata da quella a puntine.
Per i puristi del genere, la versione B rimane però la migliore mai prodotta, an che perché con la D del 1973 il progetto viene "addolcito" e quindi snaturato nella sua essenza: al di là delle modifiche estetiche, quello che spicca in questa Mach III è il forcellone più lungo e la maggior avancorsa ottenuta aprendo l'angolo di sterzo forcella. Novità, quelle appena elencate, studiate per migliorare stabilità e precisione di guida. Il motore invece viene depotenziato di 1 CV e reso meno scorbutico con una fluidodinamica dei travasi meno spinta e con nuovi scarichi. Ricompare anche l'accensione elettronica. La serie D diviene la base su sono allestire le versioni successive. Ma intanto la Mach III già non è più la stessa, emozionante, acerba moto da "sparo". E il mito creato intorno alla "bara volante" inizia a essere meno eclatante…
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