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Le moto sportive di Ducati: dalla GT 750 dei primi anni Settanta alla Panigale V2

Federico  Garbin
Federico Garbin il 14/02/2025 in Attualità
Le moto sportive di Ducati: dalla GT 750 dei primi anni Settanta alla Panigale V2
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Le moto sportive di Ducati: dalla GT 750 dei primi anni Settanta alla Panigale V2

Ci sono scelte tecniche che con il tempo, sono diventate vere e proprie bandiere delle moto sportive Ducati... il desmo, il telaio a traliccio, il monobraccio? Ma è sempre stato così? E dove nascono queste leggende? Ecco la storia delle sportive Made in Borgo Panigale

Siamo abituati a dare alla storia delle moto sportive di Ducati una valenza quasi eterna, così come ad alcuni capisaldi della produzione tecnica bolognese che, con il tempo, sono diventate vere e proprie bandiere perpetue, immancabili, obbligatorie per molti appassionati. Ma è sempre stato così? E dove nascono alcune delle leggende tecnologiche strettamente legate alla produzione sportiva bolognese?

Va detto: alcune peculiarità, ormai, sono quasi dimenticate. O almeno surclassate da altre caratteristiche da scheda tecnica. Tuttavia, chi ha vissuto la passione della moto per almeno un paio di decenni, ha in mente moto della Casa di Borgo Panigale che erano innanzitutto bicilindriche, desmo, con telaio a traliccio, magari il monobraccio, e la frizione a secco.

Molti di questi elementi tecnici sono ormai lontani dalla produzione di serie, per diversi e svariati motivi. Prestazionali, emissivi (in termine di rumore) o produttivi (in termini di costi). Credo sia utile ripercorrere la storia di Ducati attraverso le “rosse” più iconiche. Ne scopriremo delle belle… Come, ad esempio, che non sono sempre state rosse.

 

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La Ducati 125 GP, la prima desmodromica bolognese

Di ingegneri e uomini leggendari

Vorrei che questa storia lasciasse libero spazio alla vostra immaginazione e alla vostra fantasia, a rischio di qualche imprecisione o incompletezza da parte di chi vi scrive. Lasciamo anche ad altri racconti la storia della nascita della Casa di Borgo Panigale, il passaggio che portò dalla costruzione delle radio a valvole al Cucciolo, le vittorie della celebre Marianna, le imprese eroiche di Tartarini e Monetti, la ricostruzione post-bellica del Belpaese, affamato di manodopera e di moto d’opera.

 

L'ingegner Fabio Taglioni, padre del desmo

Parliamo invece di ingegneri e uomini leggendari, come Taglioni, Mengoli, Bordi o Martini, che hanno legato il loro nome a quei capisaldi già citati, spendendo le loro energie e il loro sapere anche su prodotti lontanissimi dal mondo delle motociclette sportive come, ad esempio, i motori Diesel.

Parliamo di un gruppo di “carbonari”, che in un momento particolarmente buio per Ducati hanno scovato e inseguito un lumicino che si è rivelato, negli anni, luce e fulgore. Con calma, però.

 

Le moto sportive di Ducati: dalla GT 750 dei primi anni Settanta alla Panigale V2

Partiamo dai primi Anni 70. Un decennio in cui la moto cambiò il proprio ruolo all’interno della società: da mezzo utilitaristico a mezzo di passione, da “motoleggera” a, sempre più spesso, “maximoto”. 

L’arrivo della Honda CB 750 e dei prodigi motoristici (ma molto meno telaistici) giapponesi si contrapponeva alla rigorosa ciclistica delle italiane e al fascino untuoso delle inglesi… Sono anni in cui la passione si schiera, prende bandiera, si sedimenta. Un esempio: le mitiche vignette del Joe Bar, le ricordate? “Ed il Polso” e la sua compagnia si sfidavano a colpi di gas e battute politicamente scorrette: “Piscio sopra i pomponi e i cilindri dispari!”, dice Ed cavalcando la sua rossa (appunto!) giapponese. 

 

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La 750 Imola di Paul Smart e Bruno Spaggiari
Le moto sportive di Ducati: dalla GT 750 dei primi anni Settanta alla Panigale V2

A proposito di “pomponi”

A proposito di pomponi, anche l’inizio delle maximoto bolognesi ha un nome: Ducati GT 750. Motore bicilindrico a elle, il capolavoro di Fabio Taglioni con la distribuzione a coppie coniche, il telaio in acciaio.

Niente rosso, almeno non “quel rosso”, ancora lungi dall’arrivare, e niente desmo. Che nella produzione in serie esisteva già (aveva debuttato su una piccola sportiva, la Mark 3D) e anche sulle moto destinate alle competizioni, come la 500 bicilindrica progettata da Taglioni su telaio inglese (Seeley), che ebbe il merito di dare il via alla Ducati che conosciamo. Il desmo, tuttavia, debuttò ancor prima, sulla 125 GP. Ma torniamo alla “GT”, prima “big” coi cilindri a 90° che il desmo, invece, non lo aveva.

 

La prima maximoto Ducati non è una sportiva ma una nuda sportiveggiante, non estrema e caratterizzata da un sellone biposto comodo per due e da un manubrio alto. Calma, calma: c’è anche la versione “Sport”: semimanubri, monoposto, carenatura (opzionale) e colorazioni accese: arancione o giallo con una bella finitura metal-flake. Stesso motore, coi cilindri a L e niente desmo. Bellissima, soprattutto in giallo, ma… ma non è “lei”.

 

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La Ducati 750 Sport

Ducati molto aveva già vinto nelle piccole cilindrate, ma le maxi erano un’altra cosa: sia per impegno che per prestigio. È proprio con la Sport che avviene la consacrazione di Borgo Panigale nell’olimpo delle maximoto: è il 1972, Paul Smart e Bruno Spaggiari vincono la 200 miglia di Imola a bordo di una 750 Sport “prototipo” dotata di una carenatura integrale, serbatoio in fibra con banda trasparente sui lati per verificare la quantità di carburante all’interno e motore preparato: distribuzione desmodromica (ci siamo!), carburatori Dell’Orto in luogo degli Amal della moto di serie e componenti interni ottimizzati. Questa vittoria apre le porte a quella che è universalmente considerata la prima vera maxi sportiva di Ducati: la SS (Super Sport) 750 del 1973. Una moto di serie che ha, lei sì, la distribuzione desmodromica, e i colori delle moto da corsa della Casa bolognese: grigio e azzurro. Il rosso, dite? Con calma…

 

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La 750 Super Sport a carter tondi del 1973

La stirpe Super Sport

La prima serie della Super Sport 750, la ambitissima “carter tondi”, è prodotta in soli 450 esemplari (molti dei quali andranno perduti, snaturati o distrutti in gara). La Casa bolognese dichiara per questa moto prestazioni strabilianti per l’epoca: su tutte i 230 km/h di velocità massima. A condire il già gustoso piatto, una ciclistica come poche se ne erano viste (doppio disco freno anteriore, disco posteriore), linee fortemente legate alla 750 Imola di Spaggiari e Smart, carburatori Dell’Orto da 40 mm. Ricapitoliamo: Desmo sì, rosso no. Non c’è nemmeno la distribuzione a cinghia dentata, altro caposaldo dei bicilindrici Ducati “moderni”. Per questa, bisognerà aspettare ancora un lustro. E l’arrivo della Pantah.

 

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La prima serie della SS lascia presto il posto alla seconda serie che, di fatto, si differenzia per il bicilindrico (ora dotato di carter quadri per l’aggiunta di un cuscinetto alla base delle coppie coniche), per il serbatoio senza la banda trasparente e per la colorazione più accesa… e più blu. 

 

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Quasi contemporaneamente, Ducati fa debuttare (siamo nel 1975) la più maxi fra le maxi: la Super Sport 900, che riprende le soluzioni tecniche introdotte sulla 860 GT (ad eccezione dell’avviamento elettrico e della distribuzione, che sulla 860 non è desmo) e ha colorazioni più cariche rispetto alla 750. Ricapitoliamo ancora una volta: bicilindrico a elle, desmo, coppie coniche, telaio in acciaio e ancora niente rosso. 

Per ora. Il “traliccio” c’è, ma è ancora lungi da essere un nome familiare ai ducatisti, mentre per il monobraccio occorrerà aspettare ancora due decadi, con la 916. Alla SS 900 seguirà la poco fortunata S2 e, soprattutto, la MHR. Ma dato che qui siamo in odore di leggenda, la sua storia ve la racconto con calma. 

 

Gli anni della crisi

Già, perché con la seconda metà degli Anni 70 inizia il periodo di crisi della Casa di Borgo Panigale. Le maximoto giapponesi garantiscono prestazioni simili o maggiori (non a livello ciclistico, bisogna dire) a prezzi decisamente inferiori. Sono affidabili, longeve e amate dal pubblico. Non è solo Ducati a soffrire in questo periodo: la concorrenza nipponica è aggressiva quanto o più di quella cinese che vediamo al giorno d’oggi. Anche Laverda, Moto Guzzi, MV Agusta e le inglesi sono in grande affanno.

 

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A proposito di inglesi, a salvare il buon nome di Ducati è proprio un inglese: Mike “The Bike” Hailwood (9 titoli mondiali) che, ormai ritiratosi da 10 anni dal mondo delle corse motociclistiche per passare alle quattro ruote, torna al Tourist Trophy a bordo di una Ducati 860 allestita dalla squadra corse bolognese NCR (acronimo di Nepoti Caracchi e Rizzi inizialmente, poi Nepoti Caracchi Racing), con la sponsorizzazione della Sports Motorcycles, la concessionaria Ducati di Manchester.

Un debutto, anzi un ritorno, che più iconico non poteva essere: Hailwood vince il TT (categoria F1) e Ducati approfitta del grande clamore mediatico per lanciare una moto che prende il posto della Super Sport 900 e che sarà il canto del cigno del motore a coppia conica: la MHR 900 (Mike Hailwood Replica), appunto. Carenatura integrale verniciata con un bel tricolore a rosso e verde dominanti, meccanica in comune con la SS Desmo, carburatori Dell’Orto, silenziatori Conti (sulla prima serie, Silentium successivamente) e avviamento a kick-starter.

 

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La Ducati Mike Hailwood Replica 900 del 1979

La “Replica” riscuote un tiepido successo sul mercato, ma segnerà un punto fondamentale nella produzione bolognese: soprattutto con la versione da 1.000 cc, ultima vera coppie coniche bolognese (insieme alla sfortunata Darmah, erede della 860 GT ma Desmo). La MHR 1000 arriva nel 1981, in piena crisi Ducati (che sta già vendendo e sviluppando le Pantah, con distribuzione a cinghia dentata) e resterà in produzione fino al 1985, con un’aura nemmeno troppo lievemente anacronistica. È però arrivato il rosso, che diventerà colore dominante per le sportive bolognesi già a partire dalle versioni da corsa delle Pantah, le magnifiche TT1 e TT2. Ma torniamo a Bologna.

 

La gestione statale e i carbonari

In fabbrica, a Borgo Panigale, si respira un’aria pesante. La Casa è passata di proprietà: sotto il controllo statale dal 1975, è poi entrata nell’orbita VM Motori, azienda specializzata nella costruzione dei motori Diesel. Ducati e Diesel: ecco che accadde anche questo, con il dream team di ingegneri e tecnici (qualche nome: Mengoli, Martini e Bordi) obbligati a fare i conti con utilizzi e regimi di rotazione ben lontani da quelli che erano abituati a lambire.

 

Taglioni, Bordi e Mengoli con il prototipo 748 ie

È in queste condizioni difficili, come spesso succede, che un altro pezzo di leggenda comincia. È il periodo dei “carbonari” (nomignolo riferitomi dallo stesso Mengoli in una vecchia intervista): gli ingegneri provenienti dalle moto che, fuori dall’orario di lavoro, si fermavano in azienda per dar sfogo, nei locali attrezzeria, alla loro fantasia e alla loro passione. Ripensando, riprogettando e migliorando i bicilindrici a elle che già esistevano (ai tempi la produzione Ducati prevedeva anche i bicilindrici paralleli della serie GTL, ma era chiaramente un progetto destinato ad arenarsi su un binario morto).

 

Un po’ di contesto: siamo nei primi Anni 80 e la produzione Ducati è in declino; nel listino ci sono soltanto una maxi sportiva ormai fuori dal tempo (la MHR 1000), una sport-tourer che non riscontrerà successo (la Darmah) e le sfortunate e (giustamente) incomprese bicilindriche parallele GTL, GTV e SD. Si salva, è il caso di dirlo, solo la apprezzatissima Pantah 500, arrivata sul mercato nel 1979. È lei la progenitrice di tutte le Ducati da lì a venire.

 

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La Pantah 500, la progenitrice di tutte le Ducati moderne

Cagiva e la nascita della Ducati moderna

Con l’uscita di produzione della MHR, Ducati abbandonerà per sempre la distribuzione a coppie coniche, iniziando proprio con la Pantah 500 la lunga era della cinghia dentata. Il Desmo (modificato e leggermente semplificato) rimane e si afferma in questi anni, legandosi indissolubilmente all’immagine della Casa bolognese. Immagine al momento appannata, visto che Ducati è sotto VM e le moto, visti anche i risultati di vendita, rimangono un’idea, anzi un obiettivo, dei soli “carbonari”. Anno cruciale: 1985. Ducati viene acquistata dai fratelli Castiglioni che ne hanno intuito il potenziale tecnico, entra nell’ottica Cagiva e sembra che i piani industriali trovino un percorso di sviluppo ben preciso: a Bologna i motori, a Varese le moto. Sono gli anni dell’Alazzurra, del primo pensiero Elefant, dell’evoluzione continua del motore Pantah sia per le competizioni, che per la produzione seriale. È un motore semplice, affidabile, silenzioso e versatile: va sviluppato. Sviluppato al punto che, vi svelo una curiosità, nelle stanze segrete di Borgo Panigale è presente anche un prototipo chiamato Bi-Pantah, datato 1981. Di fatto, si tratta di un V4 realizzato dall’ingegner Mengoli (con la supervisione di Taglioni) ottenuto accoppiando due V2. Facile solo a dirsi…

 

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Il BI-Pantah, il quattro cilindri a elle

Un anno cruciale

1985, dicevamo. Segnatevi la data, cruciale perché le caratteristiche importanti arrivano, quest’anno, tutte insieme. Dunque, livrea a dominante rossa, bicilindrico a elle, distribuzione desmodromica, telaio a traliccio “vero”, forcellone in tubi di acciaio, monoammortizzatore con sistema a leveraggi Cantilever, carenatura aerodinamica, declinazione in tre serie speciali e limitate: questo è l’anno del debutto della F1 (e delle sorelle a tiratura limitatissima Montjuich, Laguna Seca e Santamonica), proposta anche in versione da 350 e 400 cc, chiamata F3, per i neopatentati da un lato, per arrivare ai mercati internazionali (anche giapponesi) dall’altro. Moto dimenticate? Non da tutti… Importanti? Assolutamente sì. La moto (o le moto) derivavano dalle versioni da corsa TT1, ma erano omologate per l’uso stradale e diedero il via, forse inconsapevole, al filone delle sportive sì, ma non esasperate.

 

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La Montjuich, serie speciale derivata dalla 750 F1
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Il progetto Desmoquattro

Il via inconsapevole, dicevo. Sì, perché a Bologna qualcos’altro stava accadendo: i “carbonari” – Mengoli e Bordi principalmente – stavano lavorando ad un motore che avrebbe per sempre cambiato la storia di Ducati. Parlo del Desmoquattro. Lo sviluppo inizia nel 1985, praticamente in segreto. L’idea era quello di incrementare le prestazioni del Pantah adottando la distribuzione (desmodromica ça va sans dire) a quattro valvole e impiegare il raffreddamento a liquido. Un desmo quattro valvole non è per nulla semplice, e il periodo non è facile.

La scuola VM Motori ha però portato in dote ai tecnici una fondamentale capacità: quella di ottimizzare e standardizzare quanto più possibile. Traduco: limitare i costi (perché di soldi ce ne sono pochi, e anche il tempo non avanza). Lo sviluppo di questo motore è affidato a due grandi campioni dell’epoca: Marco Lucchinelli e Virginio Ferrari. Obiettivo? Essere vincenti nel campionato delle derivate di serie e del nascente mondiale Superbike. Tra il 1985 e la primavera del 1986 il primo Desmoquattro emette i suoi vagiti: cilindrata di 748 cc, prestazioni subito promettenti e affidabilità da provare sul campo. Oltre alla distribuzione desmodromica, la 748 da corsa vanta un’altra caratteristica tecnica che avrebbe cambiato (e non solo per Ducati) il mondo della moto: l’iniezione elettronica (sviluppata dalla Magneti Marelli). I test sono subito positivi, anche nel Campionato Mondiale Supersport, e i risultati dei piloti (cui si è aggiunto Juan Garriga) portano alla produzione in serie di quella che sarà la moto della svolta, non solo per Ducati: la 851. È firmata dall’ingegner Massimo Bordi (entrato in azienda nel 1975 proprio grazie ad una tesi sull’applicazione della distribuzione desmodromica su motori plurivalvole) ed è la prima maxi che può competere ad armi pari con le pluricilindriche giapponesi, che si stanno affacciando in forza sul mercato e nei campionati delle derivate di serie.

 

 

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Desmoquattro: il primo bialbero, 4 valvole, desmo e raffreddato a liquido

Dalla 851 alla 916

Allarghiamo ancora un po’ la visuale e torniamo al contesto: Ducati è sotto l’orbita Cagiva, che ottiene discreti successi anche dal punto di vista commerciale con i suoi modelli motorizzati Ducati, e Borgo Panigale imbocca la direzione che sarà poi definitiva, almeno fino al 1992: quella di una Casa che produce moto sportive. Desmo, con telaio a traliccio e, ci siamo quasi, rosse. La prima 851 è la Tricolore, con una livrea che omaggia la bandiera italiana, ma è solo una parentesi. 

 

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La 851 Tricolore in edizione limitata

Torniamo al ventaglio di offerte Ducati del 1988; la struttura dell’offerta commerciale sta prendendo una forma che arriverà fino ai giorni nostri: da una parte la supersportiva di bandiera (851 allora, Panigale V4 adesso), affiancata da versioni speciali a tiratura limitata e derivate dalle corse (le SP allora, le V4R o S oggi); dall’altra modelli che, ricalcando gli stilemi dei modelli top di gamma, si rivolgono ad un pubblico più stradale e meno pistaiolo (le SuperSport allora, la Panigale V2 adesso). C’è anche la Paso disegnata da Massimo Tamburini, in catalogo, ma per ora lasciamola ad un ruolo più marginale. 

 

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Tornando alla SuperSport del 1988, le forme si rifanno fortemente a quelle della F1 (peculiare il serbatoio sottile nella parte alta, “appoggiato” al traliccio) ma verranno presto abbandonate in favore dei tagli più netti della SS a faro quadro; questa ricalca piuttosto fedelmente le linee della 851, ma si distingue nella parte frontale per le feritoie delle prese d’aria (verticali sulla 851, orizzontale sulla SS) e per la forma del telaio e del codino, quest’ultimo più snello. E c’è anche una versione con mezza carena: meno sexy per gli smanettoni, ma molto elegante. E, naturalmente, rosso integrale.

 

L’anno che cambiò il mondo: Monster e 916

Ci siamo. Il rosso c'è, il desmo c'è e la parola traliccio inizia a essere familiare. Primi Anni 90: il mondo moto sta davvero per cambiare. Ducati ha finalmente e di nuovo una sua forte identità, affermata con le incredibili vittorie nel mondiale SBK, con i successi ottenuti dalla Elefant nella seguitissima Paris-Dakar grazie alla perspicacia e alla capacità di Roberto Azzalin, che segue i progetti off-road della Casa varesina. Come scrivevo sopra, l’esperienza con VM Motori ha insegnato ai tecnici come standardizzare e ottimizzare dei processi produttivi: il motore Desmoquattro (prima 851, poi 888) ha testate identiche fra le due bancate e anche nella produzione di serie i “travasi” fra i modelli sono importanti. E due rivoluzioni quasi copernicane sono alle porte. 1992: la nascita del Monster. Ducati torna ad allargare i suoi orizzonti, non più verticali verso i motociclisti dall’indole più sportiva, ma per tutti. Il Monster (M900) nasce dalla unione di 851 (telaio) e SS (motore), dalle quali eredita tecnologie e componenti, ma si spoglia aprendo (o ri-aprendo), di fatto, il mercato delle naked sportive.

 

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Ducati 916: fine del Medioevo

Pochi mesi più tardi il mondo delle sportive – di qualunque bandiera – viene travolto dall’arrivo di quella che è, pressoché universalmente, riconosciuta come la prima sportiva moderna: la Ducati 916. Qui, con questa moto e in questo anno (1994), tutto prende il proprio posto, affermandosi o ri-affermandosi. Il colore rosso, il monobraccio, il traliccio, il desmo, la frizione a secco, gli scarichi sottosella, la leggerezza, la purezza formale, le prestazioni. La 916, disegnata da Tamburini, nasce sulla base meccanica della 888, almeno a livello motoristico, mentre l’intorno (a partire dal telaio e dalla ciclistica in generale) nasce da schizzi a matita (rossa!!) su un foglio assolutamente, innegabilmente e categoricamente bianco.

 

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E gloria sia

La moto vince, subito e voracemente grazie a campioni del calibro di Carl Fogarty, Troy Corser e, successivamente con la 996, Troy Bayliss. Proposta in diverse versioni, dalla biposto alla “R”, la 916 continua il filone delle serie speciali iniziato con la 851, e torna il filone della doppia cilindrata iniziato nel 1975 con la commercializzazione contestuale della SuperSport 750 e 900. Alla “big” si affianca dunque la 748, stessa linea e soluzioni tecniche, prestazioni e cilindrata leggermente inferiori, così come il prezzo. Il tempo d’oro delle sportive Ducati è iniziato, e non accenna a fermarsi…

 

Alla 916 segue la già citata 996, con aggiornamenti tecnici minori e, nel 2002, è il tempo di un’altra rivoluzione: il pensionamento del motore Desmoquattro in favore del Testastretta, che debutta sulla nuova 998. La somiglianza della nuova moto con la precedente non evidenzia la svolta epocale del cambiamento di rotta meccanico. Il nuovo bicilindrico si distingue dal precedente per quasi ogni componente e, soprattutto, per le dinamiche costruttive. Le testate sono profondamente diverse (da qui il nome): nel Desmoquattro la testa era chiusa, con alberi a camme e perni dei bilancieri valvole “inseriti”. Il diverso ingombro della testa, uniti ad una semplificazione in termini costruttivi, permettono al Testastretta di superare i limiti prestazionali del Desmoquattro, giunto ormai al suo apice. Il nuovo motore permette una maggiore libertà in termini di inclinazione delle valvole, forme dei condotti, efficienza nella combustione (anche grazie all’uso, eventuale, di una doppia candela) e maggior spazio per l’airbox. Non è però ancora tempo di pensionare il Desmoquattro che rimane in produzione per equipaggiare le versioni più aggressive della naked di famiglia: la S4, almeno fino al 2006 quando, anche sulla Monster (S4 RS), arriva il Testastretta.

 

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Il Testastretta, erede del Desmoquattro

Verso nuovi mondi

Torniamo a grandangolare un po' la visione: nei primi anni Duemila la produzione Ducati si allarga per far fronte a nuovi mercati e nuove esigenze, e soprattutto, a un pubblico che ama la Casa bolognese, ma poco a che spartire con la produzione sportiva. Da un lato la naked dunque, ma sono anche gli anni della sport-tourer ST2, ST3 e ST4 (con la ST3 equipaggiata da un bicilindrico tre valvole monoalbero raffreddato a liquido, che non avrà mai ulteriori sviluppi, purtroppo) e dell’affacciarsi nel mondo delle crossover, con la prima Multistrada del 2003. Anche in questo caso, parlo della Multi, i capisaldi sono presenti tutti (anche i più “moderni”), almeno sulla 1000: traliccio, monobraccio, colore rosso, cinghie dentate, frizione a secco possibile, scarico sottosella, dna sportivo. La firma stilistica è quella di Pierre Terblanche, papà anche della 999, della MHe (Mike Hailwood Evoluzione), delle Sport Classic (GT, Sport e Paul Smart), della nuova Supersport e, in tempi meno recenti e sotto Cagiva, della Gran Canyon e della Supermono (la monocilindrica progettata esclusivamente per le competizioni, nata tagliando orizzontalmente il motore della 888).

La 999 è una moto di rottura con il passato. Il design si discosta totalmente dalle linee delle 916/996/998 con linee decisamente più orizzontali, una carenatura molto ampia sui fianchi, il proiettore sdoppiato verticalmente nella parte anteriore e il codino dalla forma a Y (vista dall’alto), con (l’ormai immancabile) scarico sottosella. C’è però un’assenza: il monobraccio, e il pubblico se ne accorge molto presto.

 

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La 999 di Pierre Terblanche
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Sotto le sovrastrutture, invece, poche sorprese: il motore è il Testastretta, aggiornato e nuovamente vincente nel campionato delle derivate di serie (già al debutto nel 2003 domina il campionato SBK con Ruben Xaus e Neil Hodgson). Gli appassionati, però, non sposano il cambio di rotta stilistico e la 999 sarà sempre criticata proprio per le sue linee fin troppo originali (critiche simili vengono mosse anche alle altre moto firmate Terblanche, dalla prima Multistrada alla Supersport). Ma nel 2007 gli appassionati della Casa bolognese tornano ad emozionarsi davanti a quella che diventa subito un’altra pietra miliare fra le sportive Ducati: la 1098.

 

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Ducati 1098: il ritorno del monobraccio

È la moto del ritorno delle firme tecniche e stilistiche. Rossa, ovvio ormai, Desmo, traliccio, cinghie dentate, scarico sottosella, monobraccio. È stretta, snella, veloce e curata. E vincente grazie al Testastretta Evoluzione: si rinforza qui il binomio Bayliss-Ducati. Stiamo per avvicinarci al presente, ma un ultimo sguardo al recente passato: l’evoluzione della 1098 si chiama 1198, migliorata tecnicamente ed elettronicamente. 

 

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Già, siamo passati all’era digitale e la Casa bolognese è una delle prime a percorrere la strada degli aiuti elettronici, attraverso le mappature motore declinate nei differenti Riding Mode. Sotto questo aspetto, la pioniera vera e propria è la prima Multistrada 1200, il modello “4 moto in una” alla quale seguirà la versione Skyhook, che aggiungerà alla ricca dotazione le innovative sospensioni semiattive

 

Il ritorno alla bellezza italiana

Torniamo alle sportive, dai. La 1098 fa pace con il passato glorioso di tecnica e design, la 1198 alza l’asticella in termini prestazionali ed elettronici. La gamma Ducati è ampia come non mai: non solo Monster e sportive, ma anche streetfighter, adventure e classic. E, all’orizzonte ma ormai vicina, un’altra moto epocale nella storia delle sportive italiane. E non solo. È il 2012, arriva nei concessionari la Ducati 1199 Panigale. Per tutti, la Panigale. Linee (disegnate da Gianandrea Fabbro) purissime, essenziali ed essenzialmente sportive, dove efficienza, personalità e stile fanno pace, una volta per tutte. 2012, quindi 13 anni fa eppure, guardatela, è attuale come non mai. La Panigale diventa il benchmark del mondo delle race-replica: per prestazioni, linee, prezzo, elitarietà. E non è tutto: il Testastretta ha detto tutto ormai, siamo al lancio di un nuovo motore. È il Superquadro.

 

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Il bicilindrico Superquadro: rincorsa alla potenza

Come ormai abbiamo capito, i nomi dei motori Ducati sono abbastanza “parlanti”, e le caratteristiche tecniche dell’ultimo nato hanno perseguito la ricerca della massima prestazione; quindi, del regime di rotazione. Cambia tutto, tranne l’architettura. V di 90°, ma con distribuzione a catena, rapporto alesaggio/corsa superquadro (appunto, 112x60,8mm), sistema full ride-by-wire, iniezione elettronica con due iniettori per cilindro, potenza massima di 195 cavalli. La Panigale 1199 è la prima Ducati a rompere, davvero e tecnicamente, con il passato, anche dal punto di vista telaistico: addio traliccio, benvenuto monoscocca. Delle moto dei “carbonai”, della 916, rimane poco o nulla, tranne la distribuzione desmodromica e la coppia di cilindri, aperti a 90°. Almeno fino al 2018.

 

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La Ducati Panigale V4

Il presente: cadono i tabù

Siamo al presente, quasi. Già perché, nel frattempo (in verità negli ultimi 15 anni, a partire dal 2002) Ducati aveva, parallelamente al mondiale Superbike, portato avanti il suo impegno nel mondo della MotoGP, la classe regina del Motomondiale, destinata ai soli prototipi da competizione. Dall’esperienza nella massima serie era nata una versione stradale, la Desmosedici RR (2006), prodotta in piccolissima serie e dedicata solo a facoltosi collezionisti. Gli anni di sviluppo, tuttavia, hanno portato al finale, decisivo e coraggioso, cambio di corsia: l’arrivo del quattro cilindri per la propria moto di bandiera.

 

Le moto sportive di Ducati: dalla GT 750 dei primi anni Settanta alla Panigale V2

Sì, la Panigale V4 del 2018 è innegabilmente una Ducati, innegabilmente Desmo, innegabilmente figlia di uno sviluppo continuo e massiccio. Ma è, allo stesso tempo, la moto del raddoppio dei cilindri e del taglio radicale con il passato. Però… Però rimane il desmo, rimane l’angolazione fra i cilindri (90°), rimane il monobraccio, rimangono le linee pure, eleganti e sportive, di tutte le ultime maxi bolognesi. Linee che nascondono un telaio perimetrale in alluminio tutto nuovo, il motore semi-portante e un’elettronica sempre più sofisticata che diventa anch’essa bandiera delle moto Made in Bologna, terra di mutòr.

 

Siamo a oggi: l’ultima evoluzione della Panigale V4, annata 2024, ha visto il definitivo abbandono del forcellone a singolo braccio, uno degli ultimi baluardi e legami con il passato sportivo. E non è tutto: sono arrivate le nuove Panigale V2, con un motore del tutto inedito e, per molti versi, distante da tutta questa storia. Molti ducatisti, al debutto della V2, hanno urlato allo scandalo:“non è più desmo! Non è più una Ducati”.

 

Le moto sportive di Ducati: dalla GT 750 dei primi anni Settanta alla Panigale V2
La Ducati Panigale V2 2025, con il nuovo bicilindrico

E tutta questa storia che vi ho raccontato nasce proprio da questa riflessione. Perché è vero, la rottura con il passato è netta, enorme: ma quale rivoluzione, a fronte di tutte quelle che vi ho raccontato (invero un po' lungamente) non lo è? Esiste un punto, una data dove, da appassionati, vorremmo dire “qui, fermiamoci qui!”?  I posteri sapranno dirci dove andremo a mettere queste moto, se nell’olimpo delle pietre miliari (insieme alla 851, alla 916, alla Panigale 1199), fra le incomprese (a far compagnia alla 999) o fra le moto che, rompendo con quanto già c’era, hanno generato un altro filone di storia. Che, come tale, meriterà di essere raccontata. A suo tempo. Nel frattempo guidiamo ciò che più ci piace. Liberamente.

 

Le moto sportive di Ducati: dalla GT 750 dei primi anni Settanta alla Panigale V2
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