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Attualità

Africa Twin sul tetto del mondo: il viaggio in moto in Himalaya +VIDEO+

Carlo Pettinato
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The Ladakh Adventure, una settimana con Honda nel nord dell’India, tra le cime e sui passi più alti del pianeta. Un’esperienza quasi mistica attraverso una terra e una cultura antiche, in ambientazioni surreali dove l’aria si fa sottile

Siamo sul tetto del mondo. Beh, non proprio, ma quasi. Abbiamo portato 6 Honda Africa Twin fino a 5.798 metri sul livello del mare, sul passo Umling La in Ladakh, Indiail più alto del pianeta. I primi ad arrivare siamo io e Marco, appaiati, un paio di sane sgasate a limitatore per enfatizzare; un attimo dopo ecco Francesca e il resto della squadra. Moto sul cavalletto e ci abbracciamo ridendo di gioia per aver portato a termine la nostra impresa. Chiamarla “impresa” forse è eccessivo, qui ci sono tanti altri motociclisti, ma dopotutto la maggior parte di loro sono locals o quasi, europei come noi probabilmente nessuno. Il paesaggio è lunare, come lo è stato per tutta la salita, tira vento forte ma il sole è alto nel cielo e la temperatura è gradevole nonostante la quota. In lontananza solo brulle montagne, le cime più alte sono innevate, alcune di loro probabilmente sforano i 7.000, chissà. Starei a contemplarle per ore ma non siamo acclimatati a sufficienza per restare più che qualche minuto. Dietro front, proseguendo si finirebbe in Cina e noi in Cina non ci possiamo andare, si scende. Riavvolgo il nastro di tre mesi. È una tiepida sera di metà giugno, chiuso il computer mi accingo a uscire in mountain bike. Squilla il telefono, è il direttore. “C’è questa bella opportunità con Honda, è una spedizione sull’Himalaya con le Africa Twin. Andrei volentieri io ma probabilmente non riuscirò. Se per te è ok, il lavoro è tuo.”  Detta così, per me, appassionato di moto e montagna da ché ne abbia ricordo, non sembra vero. Certo che è ok, sull’Himalaya con un’Africa Twin ci andrei anche a spinta.
Veduta di Leh

Da Roma a Ladakh

Le premesse sono ottimali ma ci metto qualche giorno a capacitarmi della faccenda, è un piccolo sogno che si avvera. La squadra è al top: Carlo Fiorani, pezzo grosso delle attività sportive di Honda per quarant’anni, è a capo dell’organizzazione. C’è Salvo Pennisi, responsabile delle attività di sperimentazione per Pirelli-Metzeler, in veste di sponsor/partner della spedizione; ci sono Francesca Gasperi e Marco Aurelio Fontana, brand ambassador del marchio e già amici, c’è il collega tedesco di Motorrad Thorsten Dentges e poi ci sono io, oltre ad Andrea Vitali, medico motocilcista, Fabio Fiorani, fotografo, e Simone Armanni, operatore video. Ritrovo generale a Roma e si vola a Delhi, India, dove cambiamo aereo e puntiamo verso Leh, Ladakh. Leh è una cittadina di circa 30.000 abitanti tutto sommato moderna, ma la sua particolarità è di trovarsi a 3.500 metri: una quota per noi, che viviamo in pianura o quasi, tutto fuorché banale. Ci servono almeno un paio di giorni di stop prima di salire ancora, che a queste altitudini non si scherza: la carenza di ossigeno e la minor pressione atmosferica non vanno sottovalutate. I primi sintomi non tardano ad arrivare, nella forma di lievi mal di testa e di qualche linea di febbre per i meno fortunati. Dal canto mio, mi limito ad un gran fiato corto per salire le quattro rampe di scale che mi portano in camera d’albergo. Il secondo giorno, le bramate Africa Twin arrivano nel cortile dell’hotel. Carlo Fiorani ci assicura che la spedizione delle moto dall’Italia è stata la parte più complessa dell’organizzazione. Quasi due mesi di lavoro, documenti su documenti, autorizzazioni richieste addirittura alla FIA… un piccolo incubo, e non stento a crederlo. Ma ora sono qui e già assegnate. Ci sono 3 Adventure Sports e 3 ES, una delle quali con cambio DCT, tutte gommate con le versatili e affidabili Metzeler Karoo 4. A me tocca una Adventure Sports, ruota da 19”.

Da Leh al lago Pangong

Siamo arrivati a Leh venerdì mattina, oggi è domenica: partiamo. La prima tappa ci porterà sino al lago Pangong, il più esteso bacino di tutta la catena montuosa dell’Himalaya, originato grazie allo scioglimento di ghiacciai che alimentano numerosi torrenti. Ma andiamo per gradi, perché prima di arrivare al Pangong Tso (tso in lingua Ladakhi significa appunto lago), guidiamo lungo la valle del fiume Indo, che si apre davanti a noi in una stupefacente varietà di colori. Le rocce che incorniciano il corso d’acqua spaziano dal giallo al rosso, dal grigio al rosa in un’alternanza di che sembra quella dell’arcobaleno. Basta questo, a poche decine di chilometri dalla partenza, a togliere il fiato. Abbandoniamo la valle e iniziamo la prima scalata, che ci porta in serie sui passi Yaye, 4.700 metri, e Kasang La, 5.440, l’ottavo più alto al mondo. Inizia a nevicare. Non fa molto freddo, siamo di poco sotto i 10°C, ma il cielo è coperto e qualche timida faliva cade lentamente. Ho la pelle d’oca, ma non per la temperatura. È la felicità di avvicinarmi alle grandi montagne, che fino ad ora ho solo letto e conosciuto sui libri, attraverso i racconti di alpinisti che le hanno sfidate con ben più ardore, puntando e raggiungendo cime che noi, pur non troppo distanti, osiamo solo sognare. Ridiscendiamo lungo strade sorprendentemente ben tenute, spesso l’asfalto è nuovissimo, anche se sporco di terra e pietre che cadono dall’alto. Per oggi il fuoristrada sta a zero, fatta eccezione per il doveroso taglio di qualche tornante, ma poco male, come assaggio di Ladakh va bene anche così. Scorgiamo il lago Pangong, quota 4.200, nel tardo pomeriggio, quando la luce inizia già ad essere quella del tramonto. Guidiamo per una ventina di chilometri sull’alta strada costiera, con le acque blu a picco alla nostra destra, ma di un blu profondo che ricorda un vero mare e che rischiara verso un turchese brillante avvicinandosi alla riva, fatta di spiagge di sabbia grigia. E all’orizzonte, oltre questa vastità, ancora montagne. 
Il lago Pangong

All'attacco dei grandi passi

L’alloggio per le prossime due notti - domani ci fermeremo qui per acclimatarci ancora - è un caratteristico lodge con dei simil bungalow a schiera, tutto sommato ben tenuto e accogliente, anche se mancano servizi per noi elementari come l’acqua calda. Non solo: le casette non sono minimamente coibentate. Con tutte le coperte del caso, dormiamo un sonno interrotto dalle numerose pause pipì: in alta montagna ci si disidrata senza accorgersene e dobbiamo quindi bere molto. Il lunedì è di pausa: lo dedichiamo a scoprire a piedi i dintorni e a qualche sessione foto e video in moto, immersi in un’ambientazione surreale. Quello che sorprende di più, considerato quanto sia remoto il luogo in cui ci troviamo, è l’abbondanza di strutture ricettive, una costante in quasi tutte le tappe del nostro giro. Il perché è tutto sommato immediato: da queste parti ci sono moltissimi viaggiatori motociclisti; in centri come Leh i noleggi moto non si contano. Martedì è il giorno dell’attacco ai grandi passi. Quattro i valichi di montagna previsti, tutti superiori ai 5.000 metri. Nel complesso, tra salita e discesa, non meno di 20.000 metri di dislivello, che dovrebbe tra l’altro essere un primato assoluto, se coperti in meno di 12 ore. Si parte di buon’ora: 6:30 sveglia, 7:00 tutti in sella; i chilometri oggi saranno oltre 300 e non sempre su terreno scorrevole. Accompagnati dal timido chiarore dell’alba, percorriamo a ritroso la strada costiera che corre lungo il Pangong, deviamo su sterrato e ci lanciamo verso il primo passo di giornata, Tsaga La, 5.300 metri sul livello del mare.

Più in alto dell'Everest

La larga vallata che lo precede sembra il Marocco. Piste rette e sassose, con varianti percorse da camion e ruspe (qui è pieno di cantieri di strade in costruzione) ricoperte da una terra sottile e volatile che ricorda il fech fech africano e che ci obbliga a procedere ben distanziati. Poi varia, diventa quasi un tratturo, ancora costellato di pietre ma più rade, intervallate da tratti di brecciolino libidinoso e facili guadi. Da viaggiatori ci trasformiamo per qualche minuto in piloti di rally, fra traversi, salti e incroci di traiettorie. Francesca, Marco ed io giochiamo per qualche chilometro come bimbi che si rincorrono in spiaggia, ridiamo sotto il casco e quando ci fermiamo per far ricompattare tutto il gruppo, ci abbracciamo divertiti e felici come poche altre volte. Che spettacolo. Tsaga La scorre veloce sotto le ruote delle nostre Africa Twin e puntiamo verso Photi La, 5.532 metri di quota, soprannominato “lo Stelvio del Ladakh”. Se arrivando sul passo Tsaga la sterrata era il massimo in quanto a guida, Photi La offre uno scenario mozzafiato. La strada asfaltata sale fra stretti tornanti, distese di erbe e fiori colorati in una tavolozza dal verde al rosa e infine s’immerge in un paesaggio lunare fatto di rocce e arida terra giallo arancio. Altra sosta, altra foto di rito e si riparte verso il padre di tutti i passi di montagna. L’Umling La ha rubato il titolo di passo stradale più alto al mondo al Khardung La, sempre da queste parti, non molti mesi fa: la strada è stata costruita da poco. Durante la scalata si ripropone un paesaggio lunare, mentre pochi chilometri prima del nostro traguardo campeggia a bordo strada un cartello che recita “You are now higher than Everest Base Camp”, “Sei più in alto del campo base dell’Everest”, che per la cronaca sta a 5.364 metri. L’ultimo tratto di salita guido appaiato a Marco in una finta bagarre che termina a pari merito, sulla sommità qualche sana sgassata e attendiamo gli altri per la foto di rito. 

I sintomi della quota

L’ho già scritto, arrivare fino a qui non presenta particolari difficoltà, ma rimane una bella soddisfazione. Dopotutto, non è nemmeno così banale. Siamo pur sempre a quasi 6.000 metri, con tutto ciò che questo comporta. Fortunatamente, non mostro sintomi particolari, se non lo stesso fiato corto che avevo anche a Leh e un lieve mal di testa che scompare appena ridiscendiamo.  L’ultimo passo di giornata è il Nurbula, 5.310 metri. Destinazione finale è Hanle, un villaggio poco frequentato che raggiungiamo attraverso una pista sterrata che riporta "in Marocco". Un piattone infinito e perfettamente regolare che si estende per chilometri; qui alziamo il ritmo e rivestiamo i panni del pilota che è in noi, la visibilità è perfetta, la zona è letteralmente deserta e l’Africa Twin, nonostante il serio calo di potenza dovuto all’altitudine, sembra scalpitare dalla voglia di correre veloce verso l’orizzonte sul terreno a lei più congeniale. Chiusa la giornata dei grandi passi e stabilito il nostro record di dislivello, l’avventura è tutto fuorché finita. Altre due giornate intense e una notte nel villaggio di Tsomo Riri ci attendono prima di tornare a Leh. Tsomo Riri è un insediamento umano con vista lago che più degli altri ci riporta indietro di qualche secolo. Non fosse per le nostre moto parcheggiate o per le auto che circolano, sembrerebbe di trovarsi in un dipinto antico. Strade di terra, bancarelle di venditori improvvisati, poche case in muratura alternate a molte altre in legno o materiali di fortuna. Immergersi rapidamente in una cultura come questa non ti porta a conoscerla, ma poterla ammirare per qualche giorno aiuta di certo ad aprire gli occhi e a cambiare per un attimo punto di vista. 
Ancora qualche centinaio di chilometri in ambientazioni oniriche e siamo di nuovo a Leh. Giornata di decompressione, il rito dei saluti e si torna alla realtà. Sembrerà una banalità, un cliché o chiamatelo come volete, ma una visita anche breve in un Paese così diverso dal nostro permette di inquadrare l’esistenza da una nuova prospettiva. In villaggi come Pangong, Hanle o Tsomo Riri potersi fare una doccia è un lusso, così come avere l’acqua calda, figuriamoci una doccia calda. Qui si vive davvero e si lavora per 6 o 7 mesi l’anno, poi tutto è ricoperto dalla neve, le temperature scendono di decine di gradi sotto lo zero, ci si chiude in casa con il fuoco acceso e si attende la primavera. Un altro mondo. Note di merito finali: in primis, alle Honda Africa Twin 1100 che ci hanno accompagnato. In tutte le salse, una moto di una versatilità eccellente, capace di portarti comodamente per centinaia di chilometri, tra strade a scorrimento veloce e tortuosi passi di montagna, così come di comportarsi alla stregua di una moto da rally quando l’asfalto lascia il posto a piste che mescolano ghiaia, sabbia e pietre. Impeccabili, dal primo all’ultimo chilometro, nonostante le condizioni estreme cui sono state esposte. In secundis, agli pneumatici Metzeler Karoo 4. Al pari dell’Africa, eccezionalmente versatili e affidabili. Su qualsiasi terreno con la confidenza perfetta per spingere e divertirsi, così come per andare a spasso e rilassarsi.  Ultimi ma non per importanza, gli straordinari ragazzi del posto che ci hanno guidato e supportato per tutto il viaggio. MJ che ci ha fatto da apripista così come Tashi, responsabile dell’agenzia Sky Pillar Adventure e mente che ha tracciato un itinerario che non potremo mai dimenticare.

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