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I viaggi dei lettori

Il fascino dell’Africa Occidentale

il 01/02/2007 in I viaggi dei lettori

Un viaggio magico tra terre incredibili e popoli ospitali. Un’esperienza unica in paesi dove, a dispetto delle difficoltà e della povertà, tutti sembrano saper dire soltanto una frase: “”

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Hai fatto anche tu un viaggio, una vacanza, un itinerario in moto che scatenano la libidine di un vero motociclista? Mandaci il racconto e le foto all'indirizzo redazione@motonline.com: lo pubblicheremo sul nostro sito completo di album fotografico.

Siamo seduti davanti a un albergo di Genova, alle tre di notte, con la pioggia fredda che ci cola sul viso; decidiamo di dormire in città, poiché l’autostrada di rientro e’ impraticabile per la neve .
La signora ci apre con gli occhi assonnati, e stupita nel vederci in moto, sussurra “da dove venite?”
Così ci rendiamo conto di essere tornati a casa .



Tutto era iniziato tre mesi prima con una lunga trasferta di 2.500 km e due ore di traghetto che ci lascia a Tangeri in Marocco. Sfuggiti con diplomazia all’assalto dei “consulenti doganali” a caccia di sprovveduti turisti con poca conoscenza del francese, dedichiamo un paio di giorni a riorganizzare idee e materiali. I 2.000 km di costa per raggiungere Casablanca sono un veloce trasferimento verso il Sahara Occidentale, ma ci promettiamo di dedicare , al rientro, il giusto tempo al fascino di questo paese . All’ambasciata ci chiedono spiegazioni alla domanda di un doppio ingresso in Mauritania, così illustro le nostre intenzioni di raggiungere la Guinea e di tornare. “Bonne route” esclama l’addetto dietro una grata mentre appone i timbri e sporgendosi guarda i miei stivali ancora puliti. Guido con ritmo tra lunghe scogliere di arenaria intercalate da splendide spiagge bianche verso Essauira con l’ansia di entrare nel vivo dell’avventura. Ben presto, come sempre, riusciamo a entrare nella giusta prospettiva, viaggiare per viaggiare e non per arrivare; trascorriamo così alcune ore a chiacchierare con un gruppo di ragazzi che vendono meloni lungo la strada, a raccontare del nostro viaggio e il tutto assume il senso di un rito scaramantico che culmina con il regalo di alcuni meloni in cambio della promessa di ripassare a salutare i nostri primi amici africani.



Per testare la moto, le borse e il nostro equilibrio affrontiamo alcune facili piste secondarie dove all’uscita di una curva incrociamo un gruppo di motociclisti che scopriremo essere qui in ricognizione per la prossima Parigi-Dakar. Cedo il passo alla loro veloce e agile guida tra una nuvola di polvere e sassi che ci investono e il tempo per un timido saluto.
Eccitato dalla situazione, apro il gas, stacco la frizione, ma con i piedi annaspo in salita su un fondo ghiaioso e il peso della moto mi riporta subito alla realtà. Laayoune è la porta del Sahara Occidentale, infiniti rettilinei tagliano una zona scarsamente popolata e inospitale dove solo cammelli lenti e pescatori appollaiati sulle scogliere danno vita al vuoto di vento e sabbia. Questa terra di nessuno, affascinante per l’arida e infinita bellezza, è ancora in attesa di un referendum che ne sancisca l’indipendenza e a torto è considerata solo un passaggio verso mete più classiche. Un’interminabile distesa di Hammada ci avvolge con aria malinconica; qui i veri protagonisti sono il silenzio e poche vecchie auto alla cui guida siedono enormi turbanti blu . La temperatura è mite, influenzata dal vento che dall’oceano si abbatte instancabilmente su di noi e mi costringe a vere acrobazie rendendo la guida particolarmente stressante ma, correndo tra l’oceano e le sabbie del Sahara, proviamo una sensazione di totale e maestoso abbraccio della natura.

L’incontro con gli innumerevoli posti di blocco e’ un’occasione di riposo e dialogo e si svolge sempre secondo la stesso rituale: “dove andate , perchè, documenti…bienvenue chez nous” e con una stretta di mano ci congedano.
Pk40, così si identifica l’ultimo baluardo tra Marocco e la frontiera maura, un posto di controllo insignificante e deviazione per la penisola di Dakla che percorriamo tra sabbia e oceano in un tramonto infuocato.
Al campement Mussafir, luogo di ritrovo storico per chi affronta il lungo viaggio verso sud, scambiamo le sempre incerte informazioni sulla condizione di piste e dogane e riempio per la prima volta le taniche di scorta; domani si fa’ sul serio!
Lingue di sabbia insidiose si impadroniscono di un asfalto sempre più stretto che termina alla frontiera di Guergarat, un edificio semi diroccato in un piazzale di terra e immondizie.
Fino a pochi anni fa’ si poteva raggiungere Nouadibou, in terra maura, solo aggregati ad un convoglio militare per evitare il rischio dei campi minati.



Sbrigate velocemente le formalità possiamo proseguire da soli e il gps ci conduce tra sassi, terra e lunghi tratti di sabbia . Dopo pochi km alcune guide maure in lunghi abiti blu si offrono per evitare le insidie della pista.
Chiacchieriamo sul futuro della regione con questi affascinanti personaggi, un tempo indispensabili all’avventura e oggi in via di estinzione; i gps e una nuova strada asfaltata cancelleranno per sempre il fascino di queste situazioni.
Il buio ci coglie ancora sulla pista e non ci piace l’idea di pernottare tra le mine in una terra di nessuno e secondo il gps dovremmo essere in prossimità della dogana maura.
Proseguo cauto fino a quando una luce si accende all’improvviso a pochi metri e rischio di investire il militare che cerca di fermarmi. In una tenda buia, attendiamo a terra e in silenzio la fine del pasto dopo il digiuno giornaliero del ramadan preoccupati per le voci sull’intolleranza dei militari mauri.
La tensione si allenta quando alla debole luce di una candela siamo invitati a bere del te alla menta e tra un sorso e l’altro otteniamo i visti con la richiesta di dieci dollari per il disturbo.
A Nouadibou, disordinata e squallida, pernottiamo al campeggio Abba dove organizziamo l’attraversamento delle piste verso Nouakchott che rappresentano per noi l’incognita piu’ preoccupante.
Passeggero e borse non sono certo la configurazione più facile da gestire e la scelta cade per la pista interna, parallela alla costa, ma meno sabbiosa.
Ci avviamo verso Bou Launar con 550 km da percorrere e mantenere la direzione non e’ un problema, lo è invece scegliere tra decine di tracce quella che evita i passaggi più insidiosi. In diverse occasioni scorgiamo i lavori per la nuova strada tra Senegal e Marocco e non e’ difficile rendersi conto del cambiamento che questa porterà.



La temperatura è prossima ai 50 C° e in queste condizioni mi aiuta la fiducia di Rossana nella mia guida assecondando sempre le mie correzioni acrobatiche.
Arriviamo a Nouakchott a notte inoltrata e ci concediamo due giorni di riposo vagabondando per il suo disordinato mercato e per premiarci della fatica , ci regaliamo 100 km di entusiasmante guida sul bagnasciuga verso nord.
La velocità e’ costante e gioco a evitare le ritmiche onde dell’oceano sulla sabbia bagnata morbida come velluto e il vento ci accarezza sotto un cielo senza orizzonte vivo di nuvole che si rincorrono. Quante volte ho sognato un momento simile?!
Prima di ripartire per il Senegal incontriamo Gianni, un italiano che dedica metà del suo tempo a viaggiare per l’Africa occidentale con un camion militare adibito a camper e la sua conoscenza della regione ci è di fondamentale aiuto per pianificare il resto del viaggio. In questa regione l’incertezza, l’imponderabile, l’ambiguità possono mettere a dura prova chi, già provato dai disagi fisici, e’ costretto a cambiare programmi decine di volte al giorno: all’ affannosa ricerca di informazioni la risposta più frequente è un pacifico“…inshallà…” .
Rosso ha la fama della dogana più difficile di tutta l’Africa per la corruzione e i taglieggi ai danni dei turisti e non. Seguendo i consigli di Gianni, all’ultima stazione di servizio abbandoniamo l’asfalto verso Keur Massene in direzione di Diama, una dogana minore a un centinaio di km lungo il fiume Senegal.
Facoceri , lucertoloni giganti e una serie impressionante di uccelli ravvivano la pista fino alla diga sull’estuario chiusa da una sbarra. “Conoscete la regola?” ci risponde il vecchio quando contestiamo il pagamento di 5.000 Ughia per proseguire oltre sulla diga e raggiungere gli uffici doganali.
Le intimidazioni e le richieste di “regali”che hanno reso famosa la dogana di Rosso si trovano ormai anche qui. Non cediamo indifferenti alle richieste, ma capiamo quando e’ il momento di sospendere le trattative.



Con pazienza, tante parole, ma soprattutto con soli 20.000 Ughia in tutto possiamo proseguire con un nuovo timbro sul passaporto.
Ci lasciamo la sbarra alle spalle e entriamo euforici in Senegal aprendo un nuovo capitolo della nostra storia.
Priva di grande fascino e avventura, St.Louis è immersa in un’atmosfera di sbiadita eleganza coloniale in attesa di essere sostituita da quella turistica . Vagabondiamo tra i mercati di pesce brulicanti di colore inseguiti dalla cantilena ossessionante dei bambini… “mussè…mussè !!”, i quali cercando la pronuncia di “monsieur”, cercano attenzione e qualche regalo.
Mesi di preparativi, di ansie, sogno di tanti, il Lago Rosa di Dakar, meta di una corsa contro il cronometro per gli uni, traguardo di una maratona di esperienze senza tempo per gli altri rappresenta il sogno per tutti.
Siamo seduti a osservare il color ocra delle onde che disegnano un netto contrasto con il bianco del sale e un senso di strana ambivalenza emotiva ci pervade: dove per la maggior parte dei fortunati, il viaggio ha termine, per noi il sogno è all’inizio.

Per generazioni di motociclisti , viaggiare sulle sabbie e pietre della Western Sahara Route verso la capitale Senegalese è stato il simbolo di un’avventura vera, di quelle che fanno la differenza.
Noi abbiamo cercato, tra gli ultimi, l’emozione di 7.000 km di difficoltà fisiche tecniche e psicologiche da cui non si poteva prescindere per concludere la nostra Dakar.
Prossimamente una strada asfaltata collegherà Senegal e Marocco chiudendo un capitolo della storia dei viaggi in moto.
L’Africa occidentale e’ così vasta che non mancano le scelte , ma svanirà quel senso di esclusività e orgoglio che ci ha invaso quando tolta la marcia e spento il motore abbiamo alzato lo sguardo sull’oceano. Altri verranno e seguiranno il nostro cammino, ma sabbia e pietre non racconteranno più la stessa favola .
Tralasciamo Dakar in cerca degli aspetti più genuini e folcloristici di questo paese e la bussola per la prima volta indica direzione est…verso il Mali.
Tambacunda e’ la porta verso il Senegal orientale e la sensazione che tutto ora cambierà si fa’ sempre più forte con l’aumentare della temperature.
Le colline lussureggianti della costa cedono il passo alle aride savane , arbusti e baobab tipici della regione del Sahel, esteso su buona parte del Senegal orientale e il Mali meridionale.
Attraversiamo villaggi animati da caotici mercati dove le donne vestono i loro vivaci bou bou trasportando con disinvoltura sulla testa ogni genere di merce e ogni pausa ci fa’ cadere in simpatiche trappole di occhi allegri e curiosi che ci circondano.



Spesso compriamo dalle mille mani che si protendono banane e miglio pestato con zucchero e yogurt creando, alla vista dei soldi, un fermento da cui risulta difficile e imbarazzante svincolarsi.
Un gruppo di bambini seduti sotto un grande baobab attira la mia attenzione, un secondo… uno sguardo…una sensazione…..mi fermo e torno indietro e in pochi minuti io e Rossana ci troviamo a giocare nella polvere circondati da sorrisi grandi come il sole davanti a capanne di fango e rami secchi.
Qui il turismo non e’ di strada e nessuno allunga la mano per chiedere regali, e cosi decidiamo di contraccambiare tanto affetto con alcune penne che abbiamo in fondo alle borse, sopraffatti da un’inarrestabile vitalità.
A queste temperature, così vestiti , sudiamo tanto che scorgiamo spesso negli occhi dei nostri interlocutori una sorta di compassionevole considerazione: viaggiare in moto permette anche questo!

Al di là del ponte per Diboli si entra in Mali; attirati da grida gioiose ci fermiamo proprio a metà e, osserviamo un gruppo di bambini agitati nei loro giochi d’acqua … questo e’ il benvenuto nel cuore dell’Africa.
Dogana e gendarmeria non sono sulla strada e non ci sono indicazioni, ma improvvisare passaggi tra capanne e galline, odori e colori diventano un gioco preso con filosofia, un rito che ci inserisce in una nuova cultura ,una nuova terra, una nuova avventura, che inizia con un timbro stancamente apposto su una pagina bianca del passaporto.
Quello che ci accoglie e’ un paese povero ma ordinato e con tempismi burocratici che ci sorprendono dopo le esperienze precedenti .
Bonne route e bienvenue au Mali” cosi’ termina l’ennesimo controllo ad un posto di blocco fatto di bidoni arrugginiti e copertoni, la cordialità e la simpatia mi stupisce a tal punto che domando il motivo della mancata richiesta del classico “regalo”. ”Perché dovremmo” e’ la disarmante risposta ai nostri atteggiamenti prevenuti . Forse siamo solo stati fortunati , ma il tutto ci rende più sereni mentre viaggiamo sulle piste di un paese tra i dieci più poveri al mondo e quarto per mortalità infantile.
Decidiamo di non percorrere la dissestata pista che da Kayes raggiunge Bamako e puntiamo verso Niema su un tratto di asfalto devastato da enormi buche che mi portano da un lato all’altro della strada in acrobatiche serpentine.
Anche se non riesco a superare i 50 km /h uno di questi buchi sarebbe fatale per un cerchione.
La giornata corre tra villaggi di capanne dove la strada si trasforma nel centro di tutte le attività, ovunque mi giri siamo circondati da vitalità e colore e una vibrante energia ci pervade e ci assorbe completamente. Vorremmo essere invisibili e poter assaporare questa atmosfera senza disturbare, ma appena l’attenzione cade su di noi veniamo assediati, osservati e toccati…
Posso riprendere tutte le immagini di questi momenti grazie alla mia macchina digitale con schermo orientabile e fare buoni scatti senza creare attenzione e rovinare la magia di certi incontri.



All’ultimo possibile rifornimento non trovo benzina e proseguiamo utilizzando anche la tanica di scorta fino a quando, quasi buio, ci allontaniamo dalla pista principale per trovare un posto per la notte.
Avvolti in una strana nebbia che rinfresca il viso scorgo le capanne di un piccolo villaggio non segnato sulla cartina e nell’oscurità decine di ombre fuggono dalla traiettoria del fascio di luce della moto. Fermo il motore e spengo la luce e in un silenzio quasi spettrale sentiamo passi di gente avvicinarsi disordinatamente.
Per mascherare l’ansia e prevenire tensioni, ci presentiamo stringendo mani a caso e parlando con indifferenza mentre veniamo invitati sotto una tettoia con la preoccupazione rivolta ossessivamente alla moto che non riesco a vedere.
Un sorriso bianco rischiarato da una candela, scorgendo la mia ansia, si trasforma in urlo per allontanare un gruppo di ombre curiose dalla mia due ruote e ci porge una brocca d’acqua facendoci capire che è pulita.
Dalle mie tasche escono biscotti che divido tra i bambini che litigano furiosamente per sedersi accanto a noi, risa e saluti, in pochi minuti siamo coinvolti in una situazione fantastica dove la benzina e’ un problema secondario.
Vedo a malapena la punta dei miei stivali ma il calore umano ci rischiara il cuore bastando per tutti i sensi.



Tutto il villaggio e’ impegnato nella raccolta di benzina che si conclude con un bidone di dieci litri, un pieno alla luce della frontale e il permesso di dormire nell’unico edificio in cemento e terra. All’alba troviamo chi ci aspetta per salutarci, non riconosco i volti ma la sensazione dei loro sguardi e’ la stessa, grazie amici!
La pista verso Didjeni ci culla con lunghe e dolci ondulazioni di terra rossa e umida e l’orizzonte si perde in una spettrale coltre di nebbia che rivela la bellezza dei colori della natura solo quando il sole all’improvviso e rabbiosamente sale tra i baobab.
Spesso, le buche sono tali che devo guidare su passaggi secondari costringendomi a infinite deviazioni. Solo il tratto di asfalto che porta a Bamako ci permette un po’ di relax prima di entrare in una città disordinata e sporca dove lo smog brucia occhi e narici.
Un’assordante vociare di bambini ci sveglia all’alba sul tetto di una costruzione di fango a due piani. In strada, tra la polvere densissima, una scolaresca spazza il piazzale tra gioco e rito mentre i primi raggi illuminano la città di fango color ocra di Djenne.
Circondata dal fiume Bani ancora immerso nella foschia umida ci si presenta lo spettacolo di una città costruita di fango e sterco in uno stile tipico a tutta la regione del Sahel. Sorella minore, ma meno decaduta di Timbouctou è ora una delle città più pittoresche dell’Africa Occidentale da sempre associata ad una misteriosa bellezza e al sapere islamico.
Per la prima volta in tutto il viaggio ci ritroviamo immersi in frotte di turisti che, atterrati nella capitale, cercano qui un’africa “facile” dove compiere i loro safari fotografici.
Decidiamo quindi di non visitare Mopti e Timbouctou e ricercare genuinità e tradizione lungo piste secondarie tra acacie, arbusti bassi e immensi sorrisi.
Secondo la tradizione offriamo ai capovillaggio delle noci di cola, simbolo di forza e vita, grandi come metà di una palla da golf, gialle e rosse con un lieve effetto allucinogeno.
Siamo stanchi ma sempre più rilassati e la nostra sete di conoscenza è in equilibrio stabile e sereno con gli stimoli che ci investono e ci saziano.



Ritmi e valori così diversi sono ora per noi quotidianità. Le piste che si dirigono verso Nioro e Ayoun el Atrouss al confine con la Mauritania sono spesso teatro di prove speciali della Parigi Dakar e seguendo una di queste ci perdiamo in un dedalo di tracce dove viaggiamo troppo lenti e a fatica.
Attraverso gli occhiali da cross cerco di individuare i passaggi disturbati dai riflessi del tramonto che la lente arancione rende ancora più intenso.
La marcia è su un improbabile pista dove improvvisiamo fantasiosi slalom tra pozze di fango, pietre e sabbia con il sudore che colando sotto il casco si impasta alla polvere rossa sulla bocca. Secondo il gps la nostra direzione e’ corretta, l’unica difficoltà è trovare la via migliore in un dedalo di piste che si perdono tra la vegetazione.
Ho le spalle a pezzi e perdo reattività e il risultato è a favore del terreno che vediamo spesso da vicino fortunatamente sempre senza problemi.
Rossana non dice una parola, annuisce e mi aiuta a risollevare la moto ogni volta più pesante… Quando il gendarme pone il timbro e mi dice “Au revoir au Mali” aggiungendo “10.000 Ughia” sorrido e capisco di essere al giro di boa verso casa.

Route de l’espoire, cosi è chiamata la strada che collega Nema con Nouakchott creando una sorta di demarcazione del sud sahariano. Viaggiare di nuovo verso la capitale maura ci da l’impressione di essere all’inizio di un altro viaggio, quello della riscoperta delle scoperte appena fatte.
Rivisitare culture, piste , tradizioni e noi stessi privi dell’eccitazione e della curiosità del primo approccio ci fa correggere valutazioni superficiali e percepire sfumature di una realtà che viviamo in modo sempre più libero.
Mi rilasso a guidare tra enormi distese piatte interrotte solo da alcune suggestive formazioni rocciose che lasciano intravedere minuscoli centri abitati nati tra dune di sabbia.
Questa zona di collegamento tra il nord Africa arabo e l’Africa nera dà l’impressione di non appartenere a nessuna delle due, ma è comunque affascinante montare la tenda appena in tempo prima che una coperta di stelle si distenda sul nostro meritato riposo.
All’alba, il respiro umido della savana permette di cogliere colori, profumi e rumori di un’intensità unica, una bellezza intima e misteriosa.
Una temperatura decisamente più confortevole rispetto all’andata ci accoglie a Nouakchott dove facciamo un po’ di manutenzione a noi e alla moto che si sta comportando in modo egregio, nonostante lo stress a cui la sto sottoponendo.
Attraversando il 20° parallelo entriamo nella zona dell’Adrar e dopo l’oasi insolitamente verde di Terjit troviamo l’accampamento Bab Sahara ad Atar, punto di partenza per le escursioni della regione ma assolutamente privo di interesse.
I duecento chilometri di pista, verso le antiche citta’ carovaniere di Cinguetti e Ouadane, attraversano agevoli l’altopiano dell’Adrar.
Trovo il mio ritmo e lo sguardo si perde oltre il cupolino in un panorama dall’aspetto lunare e le spalle si rilassano.
Ci sentiamo una cosa sola con la moto e il cielo correndo delicatamente su un sottile strato di ghiaia accompagnati solo dal rumore dei sassi sotto le ruote.
Nello specchietto le forme bizzarre create dalla polvere giocano nell’aria con la sfera rosso fuoco del tramonto.
Da lontano le costruzioni in rovina del vecchio quartiere di Ouadane sembrano far ormai parte della rupe rocciosa su cui sorgono e alla base i verdi giardini di palme si perdono tra le sabbie del deserto in direzione Cinqguetti.
Dopo una notte tra la sabbia, cullati dal suono del silenzio, la settima città santa dell’islam ci affascina con le sue biblioteche, custodi di centinaia di manoscritti risalenti al XII secolo, l’ epoca d’oro della città.
L’Africa è una questione di esperienza, di vissuto, e nulla è certo nella suo continuo mutamento, questo è il senso del sorriso di Hamed, una guida locale, quando gli dico di avere sul mio gps tutti i punti per raggiungere Choum evitando i tratti insidiosi di sabbia.
Posando il mio gps, disegna con carta e penna una serie di indicazioni, disegni che contrastano con i miei way points, ma decido di fidarmi.
Arriviamo dopo 150 km senza la minima difficoltà ”grazie Hamed”. Mi rendo conto che il pneumatico posteriore non è più in grado di percorrere la pista lungo la ferrovia per Nouadibou lasciandoci come unica alternativa il treno che proviene dalle miniere di ferro di Fderik.
Con oltre due chilometri di vagoni di minerale di ferro, è il treno più lungo del mondo e le possibilità di caricare un veicolo sono state sempre fonte di curiosità e mistero per i viaggiatori.
Il gigante di ferro attraversa ogni giorno il cuore del deserto come un gesto rituale e avventuroso, fiero e lento contro le insidie del vento della corrosione, la polvere e le dune di sabbia che ricoprono i binari.



Sa-la-mah ah-lay-koum! Così mi distrae una signora con un vaso in testa incuriosita dal nostro indaffarato discutere davanti alla cartina.
Poche case di cemento grezzo in disordine tra polvere e sassi sono lo sfondo del nostro ridicolo tentativo di comunicazione.
A gesti ci invita a seguirla all’interno di un cortile, dove una grande e quadrangolare tenda maura ci accoglie con coloratissimi tappeti su cui ci viene offerta una zuppa di latte e miglio.
Haidi, nove anni, osserva la moto per nulla stupito e giocando ripete…”Paris Dakar”.
In questo luogo squallido e desolato, la cui monotonia è interrotta solo dalla ferrovia, mi chiedo quante volte questo fenomeno sportivo- consumistico ci sia passato lasciando ben poco dietro di se’.
Al villaggio scopriamo che il treno transita tutte le sere, ma solo all’ultimo sapremo se ci saranno piattaforme aperte per caricare la moto.
Non c’è una stazione e nessuna banchina utile all’operazione che sarà da farsi a mano.
Restiamo ospiti di Sama, padrone di casa e interprete con il “capostazione”e per la terza sera ripetiamo il rituale dell’attesa nel buio fino a quando lo sento urlare “oui..oui….” In una zona aperta del villaggio ci attendono una decina di amici di Sama per aiutarci.
L’oscurità è totale e alla luce della frontale stiamo ancora legando la moto con robuste corde quando la luce tremolante e il sordo brontolio del treno creano fermento.
Nei dieci minuti in cui il treno resta fermo è un alternarsi di immagini illuminate dalla mia lampada, corde tese, il bianco dei sorrisi, abbracci concitati che non riconosco e le rotaie prendono vita nella polvere. Incrocio gli occhi felici di Sama un istante prima che un balzo nel buio lasci spazio solo a un gran vociare…”Bonne route!!
A presto amici….non vi dimenticherò! Affascinati dalle stelle e dal buio irreale è impossibile prendere sonno per i bruschi sussulti che mi costringono spesso a tenere con due mani le cime che assicurano la moto al vagone. Una pausa in pieno deserto attenua la terribile nuvola di sabbia e polvere di ferro che ci avvolge e anche due cammelli vengono caricati sulla piattaforma che ci precede, non siamo gli unici passeggeri “straordinari” di questa notte.
Dopo diciotto ore, a Nouadibou, riusciamo a scaricare a peso la moto che però non vuole saperne di partire, ci vogliono due ore per ripulire i contatti elettrici dalla polvere di ferro prima di ritrovare gli amici del “Camping Abba”.
Sul gps la traccia dell’andata ci guida a ritroso sulla pista verso il Marocco e provo una certa emozione, a distanza di due mesi, a guidare sulla stessa sabbia.
Stiamo chiudendo un’altra porta di questa incredibile avventura. Incontriamo una coppia di motociclisti austriaci “ancora puliti” che ci sommergono di domande e nei loro occhi rivedo la nostra ansia dell’andata… ...sorrido…”Bonne route motards”.

L’ingresso in Marocco ci permette finalmente di rilassarci e lo facciamo visitando Marakech come due normali turisti.
La strada sale verso il passo Tizi In Tichka a 2.200 metri tra mille curve e la prima neve, per scendere verso Ouarzazate e la verdissima valle del Draa.
Il colmo per un viaggio come il nostro, dopo tanta sabbia, lo raggiungiamo dietro ad una curva, coricati per terra, dopo aver tentato inutilmente di controllare la moto su una lastra di ghiaccio!! Dopo lo spavento iniziale sorridiamo di fronte all’assurdità dell’accaduto. Contattiamo Ibrahim, il nostro corrispondente a Merzouga, per avvisarlo del nostro prossimo arrivo.
In un paio di giorni ci immergiamo tra le magiche atmosfere dei palmeti, Kasbah e villaggi berberi nelle gole del Todra e Dades.
La strada verso Merzouga ci regala uno dei tramonti più belli di tutto il viaggio.
All’improvviso oltre il nero dell’hammada, si accendono, luminose come oro, dune immense mentre al lato opposto il sole colora il cielo di tonalità, violente rosso-viola che cambiano combinazione ogni secondo.
Spengo il motore e restiamo seduti sulle pietre , il vento freddo che passa tra i raggi delle ruote fischia la colonna sonora di questo spettacolo primordiale.
Il materiale che abbiamo spedito dall’Italia e’arrivato e possiamo distribuirlo con l’aiuto di un fuoristrada tra i villaggi berberi e le scuole della zona con l’onore di fischiare l’inizio di un torneo appositamente organizzato per l’occasione.
Le maglie, che sempre vediamo nei nostri stadi, ora corrono a piedi nudi in un campo di sabbia con dune e palme come tribune, il pallone può anche essere un messaggio di pace e solidarietà! Impariamo!
L’unica via di rientro per attraversare la catena dell’Atlante, visto che tutti i passi sono ormai coperti di neve, è la valle dello Ziz.
Il panorama di questa Monument Valley in miniatura è spettacolare, nonostante a mezzogiorno ci siano quattro gradi e il nostro abbigliamento pesante sia a Tangeri nel magazzino dell’albergo.
Velocemente puntiamo verso le città imperiali di Fes e Mekness, dove ci perdiamo nella esuberante vivacità delle antiche medine tra bazar e incantatori di serpenti e tanti turisti.
Ma il Marocco e’ anche il paese del te alla menta offertoci dal pastore berbero che ci corre incontro con un improvvisato vassoio traballante, dei bambini che giocano con la mia ruota bucata, della stretta di mano che trasmette amicizia e rispetto, del bambino che salutandomi in groppa ad un mulo ne afferra le orecchie simulando una moto.
Prenotiamo la nave che da Tangeri ci condurrà in 48 ore a Genova perchè catena, corona e gomme sono al limite. Piove e in silenzio ci scambiamo uno sguardo mentre il mare, con calma, ci separa da questa terra, ora amica, che ci saluta diversi dall’arrivo; grazie, abbiamo vissuto di più!
A Genova la moto parcheggiata nel cortile dell’hotel, tra mura di cemento e asfalto non sembra essere al suo posto, dopo tanto tempo trascorso tra polvere e baobab, e anche noi non ci sentiamo a nostro agio lungo l’autostrada che ci riporta a casa tra la nebbia e la neve, esito un attimo al casello …si alza la sbarra …per un attimo sento l’odore della sabbia…. metto la prima.. e….comincia un’altra avventura!

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