Motogp
MotoGP: da Bridgestone a Michelin, la fine di un'era
Dopo sei anni di monogomma Bridgestone, nel 2016 arriva la rivoluzione: si passa a Michelin nella misura da 17". Mentre i team cercano di venire a capo del nuovo rebus, facciamo il punto su dove ha portato lo sviluppo promosso dalla casa giapponese prima, durante e dopo lo scontro con Michelin del decennio scorso
Hiroshi Yamada, il Motorsport Manager di Bridgestone, ha i modi semplici e discreti tipici dei suoi compatrioti, anche quando per rompere il ghiaccio gli chiediamo cosa farà l’anno prossimo, visto che Bridgestone sta per passare la mano a Michelin e la prossima sfida dell’azienda giapponese sarà sponsorizzare le Olimpiadi dal 2016 al 2018. Un’impresa affascinante, ma anche decisamente lontana dalla F1 o dalla MotoGP, dove l’azienda giapponese ci ha abituati ad arrivare, dominare e imporsi come fornitore unico in una sorta di “veni, vidi, vici” moderno.
MOLTO PEGGIO CHE IN FORMULA UNO
In piena tradizione giapponese, alla domanda sul suo futuro Mr. Yamada sorride ma non risponde. Oggi però è disposto a dire qualcosa di più del passato. Un passato che conosce molto bene, avendo partecipato all’avventura di Bridgestone nel Mondiale Velocità dal 1991, con le prime apparizioni in 125, fino a queste ultime battute del 2015. Quando è arrivata in 500, Bridgestone già dominava in Formula Uno: ma le moto sono una faccenda diversa. “Anche quando abbiamo imparato tutto delle gomme per la F1, anche quando abbiamo imparato tutto delle gomme per la 125, la 500 restava un mondo a parte. Cambiava tutto: i pesi, la coppia trasmessa, gli angoli di piega, lo stile di guida”.
E nemmeno le F1, che in quegli anni avevano potenze vicine ai 1.000 CV, presentavano gli stessi problemi di trazione. “Se prendiamo come parametro della sollecitazione del pneumatico posteriore la densità di potenza scaricata a terra, già ai tempi della 500 le moto avevano valori più che doppi rispetto alla F1”. Senza contare il problema supplementare della piega: andava garantito grip adeguato ad angoli dell’ordine dei 45°.
L’aumento dell’angolo di piega è forse l’effetto più vistoso dello sviluppo tecnologico portato avanti negli anni dai gommisti e in particolare da Bridgestone, che per sei anni ha lavorato in solitudine dopo l’arrivo del monogomma e la fine della competizione con Michelin. Questo sviluppo ha coinvolto soprattutto tre aspetti: la riduzione del tempo di warm up, l’aumento della durata (che consente ormai di fare giri veloci a fine gara) e il miglioramento del feeling di guida, che ha semplificato di molto l’apprendistato dei nuovi arrivati nella classe regina.
FATTORI INCROCIATI
Ma c'è sempre il miglioramento delle prestazioni, che anche se di solito viene dato per scontato o attribuito al motore o al pilota, ha ragioni più complesse. Guardando i tempi medi si nota una discesa impressionante su tutti i circuiti, come vedete nel grafico qui sotto. Le spiegazioni per questo fenomeno sono soprattutto tre: il passaggio ai 4T, con l’aumento delle potenze; l’introduzione massiccia dell’elettronica, che ha consentito di sfruttare meglio queste potenze; e il miglioramento dei pneumatici, che è probabilmente il singolo fattore più importante.
In realtà distinguere il peso di questi contributi è difficile, perché gli effetti sono incrociati. Prendiamo il traction control: la sua efficacia e precisione, modesta sui 2T dove può lavorare solo sull’anticipo, è cresciuta enormemente con i 4T, dove ha a disposizione anche l’iniezione. E l’efficacia del traction ha ridotto così tanto lo ‘spin’ del pneumatico posteriore (l’entità dei microslittamenti che si producono ogni volta che si dà gas) che anche le sue temperature di esercizio sono scese, rendendo possibile l’impiego di mescole via via più morbide.
IL TERZO SEGRETO DI BRIDGESTONE
Quanto morbide? Qui il nome non aiuta, perché si parla di ‘morbide’ solo in relazione alle ‘dure’; in realtà Bridgestone nel 2016 soltanto per le slick ha in casa 17 varianti al posteriore e 10 all’anteriore. Il trend comunque è stato verso mescole sempre più morbide, ormai in grado di trasmettere in curva forze anche superiori al peso con cui vengono schiacciate a terra (il ‘carico verticale’).
Semplificando al massimo, l'aderenza è data dal prodotto del carico verticale per il coefficiente di attrito. Del carico verticale fanno parte il peso del veicolo e del pilota, le forze di inerzia e le forze aerodinamiche. Se non si vuole aumentare il peso, l’unica strada per avere più aderenza è quella di aggiungere forze aerodinamiche, sulle quali da decenni si gioca buona parte della partita in Formula Uno e rispetto alle quali anche la MotoGP inizia a muoversi, come mostrano le appendici viste sulle Ducati e sulle Yamaha.
Si può però aumentare l’aderenza anche agendo sul coefficiente di attrito, ovvero sulle gomme. Nell’era del monogomma non è più così importante, ma fino al 2009 questo aspetto è stato fondamentale; e proprio in quegli anni – grazie all’interazione con i motori 4T e con l’elettronica – si è superato il coefficiente d’attrito uguale a uno. Da allora le gomme sopportano carichi laterali anche superiori al peso che grava sul di loro, con le conseguenze che è facile vedere.
La bravura del pilota sta nel capire fino a quale limite si può spingere in frenata, in percorrenza e in accelerazione. Fino a pochi anni fa faceva tutto da solo, e questo aveva impedito ai gommisti di spingersi troppo oltre con il coefficiente d’attrito e rendere i pneumatici difficili da ‘interpretare’. Con l’arrivo dell’elettronica, però, questa barriera è caduta, come dimostrano le velocità e gli angoli di piega in curva. Questi due valori, ormai diffusi dalle stesse Case, possono essere incrociati con i raggi delle curve dei diversi tracciati. Se si ipotizzano valori del coefficiente di attrito uguali a uno (cioè la forza di aderenza generata è pari al carico verticale), si trovano velocità e angoli di piega ben più bassi di quelli tenuti dalle MotoGP: in particolare, il limite della piega è attorno ai 45°. Visto che negli ultimi anni siamo arrivati vicini ai 60°, è evidente che l’aderenza delle gomme odierne ha raggiunto valori che i piloti delle 2T potevano solo sognare: è il motivo per cui gli amanti delle 2T come Capirossi sono convinti che, con le gomme di oggi, quelle moto sarebbero ancora competitive.
LE INCOGNITE DEL 2016
Come abbiamo visto, però, queste gomme funzionano così bene solo con questa elettronica, e questa elettronica funziona così bene solo con i motori 4T. Per cui gli affezionati alle 500 dovrebbero tener conto di questi limiti: anche se con le mescole supermorbide, sul giro secco, qualche sorpresa potremmo averla.
Poi certo, la mescola non è tutto. Deve interagire con la carcassa e con il profilo, le altre due componenti fondamentali di ogni pneumatico e sui quali le moto di oggi sono state sviluppate. Ma la stessa Bridgestone dice che il profilo è immutato dal 2009, e anche la carcassa è cambiata molto poco: in maniera sostanziale solo all’anteriore, nel 2012, per migliorare il feedback e ridurre le cadute. Quindi il segreto del miglioramento delle prestazioni sta proprio nella mescola.
Con questo mondiale siamo giunti alla fine di un’era. Il passaggio da Bridgestone a Michelin segnerà un cambiamento almeno altrettanto forte del passaggio alle 800 nel 2007, perché le gomme non sono l’ultima cosa a cui si pensa quando si progetta una moto: sono la prima. E il diverso fornitore, che per di più vuole tornare alla misura da 17”, richiederà certamente cambiamenti in tutti i reparti: ciclistica, elettronica e stile di guida. Ci sono tutti i presupposti per pensare che la crescita delle prestazioni, come avvenne nel 2007, avrà un momento di pausa. Tamada, sportivamente, la pensa così: “non mi aspetto veri passi indietro, credo che si partirà dallo stesso livello di quest’anno”.
Per inserire un commento devi essere registrato ed effettuare il login.