Attualità
Riflessioni in viaggio: la tragedia di Genova vista da lontano e vissuta da vicino
Il viaggio, specie se in moto, è un'occasione unica per riflettere. Gli occhi e il cervello in quei momenti in cui stringiamo il manubrio dialogano meglio fra loro. Il risultato sono pensieri e riflessioni che spesso ci lasciamo alle spalle tolto il casco. Non questa volta però…
Dopo aver fermato la mia BMW R 1200 RT per la consueta foto di fronte al parco archeologico di Segesta, proseguo verso Calatafimi. La strada si srotola sinuosa verso il bosco, ma è un’illusione che dura poco. I campi deserti prendono presto il sopravvento sugli alberi e il tepore torna a trasformarsi in insopportabile calura.
Gibellina è distrutta, un ammasso di macerie accartocciate su sé stesse. Pietre, scheletri di case e il cretto di Burri: una colata di cemento bianca che occupa una collina, attraverso la quale si può passeggiare sentendosi dei Minosse in un piccolo labirinto.
E intorno è distruzione, è silenzio, è qualche macchina che passa e sparuti turisti che cliccano, già ripartendo.
Perché non c’è niente da vedere qui, solo macerie e campi. Non c’è nemmeno da rifletterci troppo, o ricordare, perché fa male. Ed è comunque scomodo.
Rimetto in moto guardandomi intorno. Qualche curva da disegnare stando ben lontani dai bordi della strada, evitando le buche, che sono crateri.
La strada scende ripida verso Poggioreale, ricostruita malamente e appena più in là di dov’era prima di essere rasa al suolo dal terremoto, quindi incontra la superstrada che accompagna verso sud, in direzione della costa agrigentina.
Della disastrata costa agrigentina: Sciacca, Eraclea Minoa, Montallegro, Realmonte, Porto Empedocle, la Scala dei Turchi... la Valle dei Templi.
È un’altra immensa colata di cemento quella di queste cittadine e città, una striscia che segue la linea del mare. Ed è più colorata e meno artistica del memento di Burri.
Il blu e il verde non riescono a sovrastare mattoni a vista e calcestruzzo e tutto l’insieme stride con una storia millenaria che è buttata lì, dovesse mai interessare a qualcuno.
E a qualcuno interessa perché per entrare nell’area archeologica l’attesa è di almeno un’ora. E in coda per il ticket, sono tantissime le lingue che si possono ascoltare tendendo un po’ le orecchie.
Agrigento è l’addietro, appoggiata su una collina e collegata alla valle sottostante da un enorme viadotto. Chiuso. Potrebbe andare là, invece non va da nessuna parte.
E in quest’estate di ponti che crollano, di un profondo dolore che vi racconto da genovese, questa vista, questa noncuranza, questo essere tutto e non voler essere nulla, fa ancora più male. Ancor di più se si viaggia in moto, dove le sensazioni sono amplificate, così come lo sono le paure. La profondità di una buca inattesa, il degrado del manto stradale, sono pericoli reali con i quali ci si raffronta metro dopo metro.
Quando il tempo si ferma
Ci sono momenti che rimangono impressi nella mente come istantanee. Si sa dove ci si trovava, cosa si stava facendo, addirittura, con un po’ di attenzione, si possono ripercorrere le ragnatele dei pensieri ricostruendone quasi esattamente, le trame. Alla telefonata di mio padre ho risposto sorridendo. E lui nemmeno mi ha salutato, cosa assai rara per un uomo d’altri tempi come lui: “E’ crollato il ponte”. Il ponte, quel ponte, attraversato mille volte, da sopra da sotto, di lato. In estate, in inverno; in moto, in macchina, in furgone.
È la mattina del 14 agosto, sono le 11:36 e su Genova incombe un cielo inclemente. Qui, a Noto, batte invece un sole africano. Dai bar si sentono le prime edizioni straordinarie dei tiggì. Io bevo caffè in continuazione.
Mi ritorna in mente Agrigento e la Valle dei Tempi. Ho in testa l’immagine di quel cavalcavia che sembra una virgola messa fra la storia e la sua fine, vuoto e inutile.
Mi chiedo a quante Gibellina, quante Poggioreale, quante Genova dovremo ancora sopportare in questo accavallarsi maldestro di moderno e antico che siamo noi, che è l’Italia, che è questo periodo storico. Prima di capire che c’è qualcosa che non va. Che, almeno per un periodo, abbiamo fatto le cose troppo in fretta, troppo male.
Dove stiamo andando?
Genova è città di mare, è porto, è montagne. È una metropoli industriale decadente perché l’industria non funziona più, perché la delocalizzazione l’ha strangolata. Come la crisi.
Il bisogno immediato del dopoguerra era costruire, ora è ricostruire. Ma non è più quel tempo e su questo dovremo confrontarci, tutti, cercando di capire quale sia l’obbiettivo. Che non può essere la speranza che ogni cosa resti uguale.
Manca una progettualità di base, ciò che permette di posizionare un mattone sopra l’altro, saldamente. Il governo ha promesso il rifacimento del ponte Morandi in un anno, Autostrade per l’Italia in un tempo ancora inferiore. Renzo Piano ha regalato alla città un’idea che potesse rivalorizzare tutta la zona sottostante. Nel dubbio: la città è paralizzata e gli sfollati non possono entrare nelle loro case. Case che esistevano già ben prima del viadotto. Forse nel giro di un anno, avremo un altro viadotto, più moderno, più sicuro, più ampio.
Forse avrà 43 pali della luce, a ricordare le vittime. E auto, camion e moto potranno continuare a passare sopra, veloci. Diretti altrove. Si scatteranno foto, già ripartendo.
Una storia sospesa
Le immagini che abbiamo visto, il camion fermo sull’orlo dell’inferno e i due tronconi protesi nel vuoto, raccontano solo una mezza verità su Genova e su questa calamità. Non dicono nulla dell’aerea ex-Mira Lanza semi-abbandonata là sotto, né di quell’ala del Ponente genovese sempre più bistrattata, che sta chiudendosi su sé stessa, senza prospettive. Da molti anni.
Quelle foto dicono però molto sull’Italia, un Paese che, con le sue gambe molli (che speriamo non cedano come l’impalcato di un cavalcavia qualsiasi) cammina, senza saper dove andare. Nel dubbio, avanti. E senza fermarsi.
Da una Sicilia soffocata dal cemento, nella sincera speranza che questo regga, per ora è tutto.
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