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Yamaha R7, storia di una vera Super-moto
Nome in codice OW-02, la 750 di Iwata fu una delle ultime Superbike prodotte in serie come homologation special. Debuttò nel 1999 e sfiorò il mondiale con Haga l’anno successivo: ecco la sua storia
Per gli appassionati di del marchio Yamaha la sigla OW è qualcosa da pelle d’oca. Il significato delle due lettere ci è sconosciuto (la W per Works forse?), ma cosa significhi nella pratica è invece ben chiaro, soprattutto ai più fanatici delle moto di Iwata. Quelle della serie OW sono niente altro che prototipi progettati per correre, nati direttamente nel reparto corse e che in alcuni casi sono arrivati anche su strada. La sigla OW non deve far necessariamente pensare a moto da pista, si registrano numerose OW anche tra le moto da cross, ma in questa sede parleremo proprio di un mezzo nato per la pista, e in particolare per la Superbike.
Le Yamaha OW nate per la Superbike sono state a ben vedere due: la OW-01, la FZR 750 R del 1989 e poi la OW-02, conosciuta dai più come R7. Oggi parliamo di lei.
La OW-02 R7, solo R7 per gli amici, è una delle rare homologation special, e cioè moto che, progettate e costruite per le corse, vengono in seguito declinate per utilizzo stradale solamente per ottenere lo status di “derivate di serie”, per essere ammesse in un dato campionato che in questo caso è come detto la Superbike.
Per ottenere l’omologazione per il mondiale Sbk era necessario che una moto fosse prodotta in 500 esemplari regolarmente in commercio e fu così che Yamaha fece con la R7. 500 furono le OW-02 costruite e altrettante quelle immesse sul mercato, non una in più, non una in meno. E nonostante il prezzo proibitivo, per lo meno per un privato cittadino, con il tempo andarono tutte vendute.
Ideata, come anche le altre della serie “R”, dall’ingegner Kunihiko Miwa, la Yamaha R7 fu presentata al salone di Intermot nell’ottobre 1998, allora a Monaco, e arrivò in gara e sul mercato la stagione successiva. All’epoca il regolamento Superbike imponeva una cilindrata massima di 750 cc per le 4 cilindri e di 1.000 per le bicilindriche. La R7 fu quindi di 749 cc, 250 in meno della sorella R1 che era nata l’anno precedente ma, momentaneamente, senza ambizioni corsaiole. La R1 voleva in effetti rimanere una moto stradale e andare a rubare la scena ad un’altra quattro cilindri che per questioni di cubatura non poteva correre in SBK: la Honda CBR 900 FireBlade, ma questa è un’altra storia.
COME ERA FATTA LA NUOVA SBK DI IWATA
La Yamaha R7 era mossa da un quattro cilindri in linea a doppio asse a camme in testa e 20 valvole, all'epoca la tecnologia di punta di Yamaha. Valvole e bielle erano poi realizzate in titanio, i pistoni stampati avevano il mantello ribassato e c'era un albero motore ultraleggero. Una moto senza compromessi, anche perché le misure vitali di 72x46 mm (alesaggio/corsa) lo rendevano un propulsore fortemente superquadro, quindi propenso a girare alto. A dar da bere ai quattro assetati cilindri un sistema ad iniezione elettronica.
Il comparto ciclistico prevedeva un telaio in alluminio a doppia trave di tipo Deltabox ll solo apparentemente simile a quello della R1, in realtà molto più corsaiolo. Le sospensioni erano Öhlins sia all’avantreno che al retrotreno, con una forcella da 43 e un monoammortizzatore pluriregolabili. Le geometrie estreme della R7 facevano registrare un angolo di sterzo di appena 22,8° (quindi con la forcella molto verticale) e un interasse di 1.400 mm, di ben 20 mm più corto rispetto alla vecchia YZF750R che andava a sostituire, per una moto decisamente più reattiva. Il telaio era abbinato ad un forcellone particolarmente lungo, per ottimizzare la trazione e limitare la tendenza all’impennata.
A frenare il tutto, un impianto con doppio disco anteriore da 320 mm e pinze monoblocco a quattro pistoncini con attacco assiale. È interessante il dettaglio del serbatoio del carburante: un’unità da 24 litri disegnata per essere già adatta all’utilizzo in gare endurance grazie alla capienza e al doppio tappo predisposto per l’innesto rapido del bocchettone. Totale: 176 kg a secco.
Al di là di tutto, la scheda tecnica, così come si presentava in versione stock, ingannava e non di poco. 106 cavalli a 11.000 giri, contro i 118 della R6 (presentata lo stesso anno) e i 150 della R1. Un valore insufficiente per una moto che ambiva all’iride della Superbike, ma bastava acquistare il kit di ripotenziamento per portare la R7 ai suoi veri livelli: circa 150 cavalli a 14.000 giri. Il prezzo, in Italia, era di 50 milioni di lire, con una piccola aggiunta per il detto pacchetto per riportarla a potenza piena.
Ma ancora non è tutto. Abbiamo detto che la R7 in origine nasceva come moto da corsa, e veniva solo in seguito prestata alla strada. E basta un po’ d’intuito per capire che anche 150 cavalli non erano sufficienti per spuntarla contro le varie 916 e RC 45. La creatura dell’ing. Miwa prevedeva un secondo livello di preparazione esclusivamente per le gare, il cosiddetto Kit B.
Questo kit racing era quello messo a disposizione, più che a normali acquirenti della R7, ai team che volevano schierare la moto in Superbike, fosse il campionato del mondo o una delle tante serie nazionali. Prevedeva un impianto di scarico aperto, pompa benzina, centralina e sistema d’aspirazione racing, cambio con rapportatura da pista, pinze freno anteriori a 6 pistoncini, ruote Marchesini, ammortizzatore di sterzo Öhlins e altro ancora. Questo pacchetto, che rendeva di fatto la R7 una pronto gara, era disponibile al prezzo di 39 milioni di lire.
La potenza, in versione ‘acquistato e montato’, arrivava così a circa 170 cavalli, ma questo era solo un punto di partenza per i veri maghi della Superbike, i meccanici motoristi, che avevano di che sbizzarrirsi con lime e attrezzi vari per ricavare ogni decimo di kw disponibile, nascosto tra pezzi in fusione e altri lavorati cnc.
I RISULTATI IN GARA DELLA YAMAHA R7
La R7, nonostante l’alone di mito e leggenda che la circonda, ha corso in forma ufficiale solo per due anni e senza risultati clamorosi. Era nata anche per dare al fenomeno "di casa" Noriyuki Haga, che con la vecchia FZR aveva fatto miracoli in SBK. Il debutto avvenne nel 1999 con un team composto da Haga e dal nostro Vittoriano Guareschi. Il miglior piazzamento a fine anno fu quello di Haga, solo 7° con una vittoria parziale, mentre Guareschi fu 10°. In vista della stagione 2000 vennero risolti alcuni difetti di gioventù e Haga riuscì effettivamente a giocarsi il titolo, obiettivo per cui la OW-02 era stata costruita.
Il giapponese vinse quattro manche e a fine stagione fu secondo dietro a Edwards e alla debuttante bicilindrica Honda VTR 1000. Ma non filò tutto liscio, perché Haga in realtà dovette fare i conti con una squalifica per doping che gli negò la vittoria in Gara2 a Kyalami e lo bandì dall’ultimo round stagionale a Brands Hatch. Facendo due conti probabilmente non avrebbe vinto comunque, ma chissà…
Un po’ meglio andò nelle gare endurance, dove la R7 trionfò al Bol d’Or 2000 con il team Yamaha Motor France composto da Fabien Foret (futuro campione del mondo SSP nel 2002), Jean-Marc Délétang e Mark Willis. Alla 8 ore di Suzuka dello stesso anno Haga ottenne poi la pole, ma in gara fu battuto ancora dalla Honda VTR di Tohru Ukawa e Daijiro Kato.
La carriera ufficiale della R7 terminò a fine 2000, ma fu portata in pista con apparizioni sporadiche da alcuni team privati con scarsi risultati ancora per un paio d’anni. Dal 2003 il regolamento SBK diede via libera alle 1.000 a quattro cilindri e fu allora che arrivò sulla scena sua maestà R1. In quel momento venne meno anche la stessa ragion d’essere della R7 - correre - e fu definitivamente messa fuori produzione per entrare nella leggenda.
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