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Disruption: la strategia cinese per il successo

Christian Cavaciuti
di Christian Cavaciuti il 21/03/2025 in Attualità
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Disruption: la strategia cinese per il successo

Le moto cinesi sono più economiche, è un dato di fatto. Ma è anche frutto di una precisa strategia organizzata a livello centrale, il che spiega anche i motivi della risposta giapponese, che ha chiaramente individuato il rischio di "disruption"

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C’erano una volta le sportive giapponesi, espressione dell'eccellenza tecnologica del Sol Levante. Dalle 250 alle 750, più tardi 1000, di solito con motori 4 in linea e fondamentalmente piuttosto simili nella costruzione e nelle prestazioni, pur se ognuna con le sue bandiere tecniche e stilistiche. Moto che hanno dominato le strade, le piste e i sogni dei più scalpitanti appassionati per almeno 20 anni, dalla metà degli 80 alla metà dei 2000. Dopodiché l'aria ha iniziato a cambiare.

All’inizio sembrò che la colpa fosse degli italiani. Ducati aveva tirato fuori la 916, poi la 999, la 1098 e la Panigale, cambiando il paradigma della sportività. Arrivarono anche Aprilia, KTM, BMW con prodotti altrettanto personali e performanti, e i giapponesi a un certo punto smisero di ribattere, ritirandosi uno alla volta. Via le 600 poco godibili su strada, poi via anche le 1000 race replica: Suzuki non aggiorna la GSX-R1000 dal 2017, Yamaha ha trasformato la R1 in una track-bike, Honda non pare troppo convinta di cosa fare con la sua CBR1000RR-R, arrivata nel 2020 e aggiornata col contagocce come pure la ZX-10RR di Kawasaki, che sembra intenzionata a passare la palla all’elitaria Bimota.

Cosa sta succedendo a quel mondo che tutti ricordiamo? Come abbiamo già raccontato, ha cominciato a cambiare. Quello che arriva dal Giappone è ormai tutto un inno alla ragionevolezza: medie cilindrate con motori bicilindrici paralleli e senza troppi fronzoli, tanto è vero che la palma della creatività – e sicuramente quella del tasso di rinnovamento – è passata alla Cina.

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I tre fattori competitivi della Cina

La Cina è il punto centrale di ogni discorso. I cinesi, che abbiamo a lungo snobbato, stanno mostrando una propensione all’innovazione che preoccupa persino gli imperturbabili giapponesi. Che si sentono minacciati in campo auto, si sono quasi ritirati dall’ambito della telefonia, faticano in quello delle batterie e non sembrano poter essere della partita nei computer quantistici e nell’intelligenza artificiale.

Abbiamo già visto che tipo di partita sta giocando il Giappone: vale la pena di vedere meglio quella che sta giocando la Cina, al di là dei discorsi più o meno da bar. Tanto per cominciare, la Cina sta giocando una partita con regole molto chiare, fissate dal suo governo. Nel suo capitalismo regolato dallo Stato, che finora ha funzionato molto bene, le aziende si muovono all’interno di programmi almeno a medio termine. Le Case cinesi sanno già che nei prossimi 5 anni la Cina punterà sulla robotica e sulla mobilità elettrica, e possono investire in questi settori fiduciose che lo Stato farà di tutto per promuoverne lo sviluppo.

Secondo, le Case cinesi – come peraltro le indiane – possono contare su un mercato interno immenso, e un grande mercato interno è sempre un vantaggio, come dimostra la storia industriale degli Stati Uniti.

Terzo, le Case cinesi hanno accesso a finanziamenti a ottime condizioni e a materie prime poco costose, ottenute con una politica di lungo termine che ha visto la Cina investire sia in patria che all’estero, particolarmente in Africa, per assicurarsi i giacimenti più interessanti.

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L'Europa e il disallineamento di mercato

Questi tre fattori possono dare all’industria una formidabile spinta, che però da sola non basta. Ci vuole una strategia, e la strategia cinese è sempre partita dal mercato. I cinesi, da millenni, sono prima di tutto grandi commercianti, e vogliono avere successo in tutto il mondo. Per riuscirci, devono capire le caratteristiche di ogni mercato: chiediamoci quindi che tipo di mercato si sono trovati davanti quando sono arrivati in Europa, una ventina di anni fa. Un mercato dominato da moto di media o alta cilindrata, quasi sempre di alta tecnologia, che loro non erano in grado di produrre.

Mentre i cinesi lavoravano per migliorare la loro tecnologia, anche il mercato lentamente mutava. Ogni mercato è fatto da un complicato equilibrio tra quello che i produttori offrono e quello che i consumatori – nel nostro caso i motociclisti – chiedono. L’ultima parola spetta ai consumatori, ma sono i produttori a dover fare il primo passo, visto che devono programmare la loro offerta con qualche anno di anticipo. E così può capitare che si creino dei disallineamenti tra la domanda e l’offerta, che cioè i produttori non riescano a interpretare del tutto le esigenze dei clienti.

Quando questo avviene, si crea lo spazio per nuove aziende che propongano prodotti diversi. Tutte le aziende nate per produrre moto elettriche hanno pensato che lo spazio per i loro prodotti sarebbe stato molto più ampio di quello che è in realtà, e questo è un caso di scommessa andata male, almeno per il momento.

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Disruption "dall'alto" e disruption "dal basso"

Ci sono però anche casi di scommesse di grande successo e qualcuno di grandissimo successo. I grandissimi successi, di solito, si accompagnano a prodotti o servizi che gli americani chiamano "disruptive", cioè in grado di sconvolgere la struttura di valore di un mercato. Un prodotto disruptive ha un immediato successo di pubblico, rende obsoleti i prodotti esistenti e viene quasi sempre imitato dagli altri produttori – perlomeno, da quelli intenzionati a sopravvivere. L’iPhone di Apple è un caso di scuola, ma quella è una disruption "dall'alto", cioè che parte dalla fascia più alta di prestazioni e prezzo. Possiamo considerare anche Tesla disruptive in questo senso, ma quando la disruption parte dall’alto si prende per forza di cose, almeno inizialmente, una fascia più piccola del mercato, visto che il mercato è di solito fatto come una piramide in cui le vendite maggiori si fanno nelle fasce di prezzo più basse.

La vera disruption riguarda innovazioni che si prendono la fascia bassa e media del mercato, ma così facendo "tagliano le gambe" anche alla fascia alta. Sono innovazioni che come dicevamo sovvertono le regole del mercato. Prendiamo un caso classico come i voli low-cost. Quando le compagnie di bandiera facevano a gara per offrire servizi sempre più sofisticati e costosi ai loro clienti – dalle lounge con doccia ai cuochi stellati a bordo – prima Southwest Airlines negli Stati Uniti e poi Ryanair in Europa iniziarono a offrire voli "no frills", senza fronzoli: prezzi stracciati ma nemmeno un bicchier d’acqua a bordo se non a pagamento.

Sappiamo com’è andata: Southwest è oggi una delle più grandi compagnie aeree americane e Ryanair la più grande in Europa per numero di passeggeri. Le grandi compagnie di bandiera all’inizio non hanno riconosciuto il pericolo, vedendo semplicemente un servizio scadente; ma quando la gente ha iniziato ad usare preferibilmente le low cost, le compagnie di bandiera hanno fatto sempre più fatica a giustificare i propri prezzi, si sono trovate a dover lavorare per abbassarli e hanno anche comprato o lanciato vettori low-cost per restare al centro del mercato.

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Il modello cinese: disruption dal basso

Il segreto del successo delle compagnie low cost… non è un segreto: offrire il servizio di base a prezzi concorrenziali per attrarre più clienti. Allo stesso modo, quando negli Anni 80 si era nel pieno del boom dei primi PC, Microsoft sbaragliò il mercato dei sistemi operativi con un sistema più semplice ma più versatile e soprattutto meno costoso rispetto ai suoi concorrenti (accettando addirittura per un certo periodo la pratica delle copie pirata). Analogamente, nelle macchine fotografiche le mirrorless hanno eclissato le reflex e nel mercato delle console da gioco, che si confrontavano sulla potenza di calcolo e la qualità dell’immagine, la Nintendo Wii ha cambiato con grande successo il modello puntando su maggiore interattività e superando la PS3. Poi ci sono le storie di Huawei, AirBnB, Lidl e un sacco di altri casi.

In tutti questi casi la disruption è arrivata dal basso, da prodotti entrati sul mercato con prezzi aggressivi e chiedendo implicitamente ai consumatori di rinunciare a qualcosa che – secondo la scommessa di chi produce e vende – non era poi così importante. Il loro successo è stato rapido e radicale, costringendo gli altri a rivedere la propria "struttura di profitto", come si dice.

Non ci vuole molto a riconoscere il gioco a cui stanno giocando le aziende cinesi e anche indiane. Mentre loro affinavamo i loro prodotti, il mercato occidentale invecchiava (in termini di età media) e diventava meno ricettivo verso moto iperspecializzate, iperpotenti e ipercostose. Per cui cinesi e indiani non hanno dovuto aspettare di raggiungere il livello tecnico delle aziende occidentali, perché nel frattempo il mercato era cambiato, sempre più disposto ad accogliere prodotti meno raffinati, ma anche decisamente meno costosi rispetto all’offerta tradizionale.

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I casi Benelli e Royal Enfield: successi o campanelli d'allarme?

E mentre le Case europee e giapponesi erano sempre più avvitate nella ricerca di prodotti sempre più sofisticati e prestazionali – nonostante i controesempi come il successo della Ducati Scrambler – non hanno saputo riconoscere la richiesta di moto più semplici e accessibili, evidenziata in tutta la sua portata da due successi tanto clamorosi quanto non previsti: la Benelli TRK 502 dal 2017 in avanti e la Royal Enfield Meteor 350 dal 2021 in avanti.

C’è un prima e un dopo queste due moto: prima della TRK le moto cinesi (Benelli comprese) erano ancora "cinesate", da lei in poi hanno acquistato una loro dignità e sono diventate protagoniste del mercato. Quanto alla Royal Enfield Meteor 350, è stata forse meno dirompente ma al primo anno di vita è entrata nella top 10 delle vendite, qualcosa sulla cui impossibilità molti analisti avrebbero scommesso un braccio. Ed ecco l’altro ingrediente della disruption: l’incapacità delle aziende che presidiano il mercato di comprenderne a fondo le esigenze. Del resto quando nella top 10 delle vendite ci sono 4 o 5 Adventure bicilindriche da 15-20.000 euro, è difficile immaginarsi che ci sia tanta voglia di una 350 monocilindrica da 20 CV. Io stesso, pur amando le moto piccole e leggere, sono rimasto sorpreso dalle proporzioni del loro successo.

La TRK e la Meteor sono ottimi esempi di moto "che fanno il loro" e che le Case storiche non sapevano più offrire – o se lo facevano, era con poca convinzione. Cinesi e indiani, con ricette diverse, hanno riportato al centro del mercato quell’offerta proprio quando molti clienti non erano evidentemente più così entusiasti di spendere cifre blu per avere altri 10 cavalli o il prossimo gingillo elettronico.

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La consapevolezza giapponese

I giapponesi, che sono abituati a guardare molto avanti per intercettare i trend, hanno capito che questo è il cavallo vincente, e si stanno adeguando. Honda ha presentato a Eicma il motore V3 sovralimentato, ma in realtà si sta organizzando per contrastare i cinesi nella fascia media. Sentite cosa dice Honda nel suo documento strategico del 2025, pubblicato a fine gennaio:

"Honda sta producendo questi modelli di grande cilindrata, con bassi numeri di vendita ed alta varietà tecnica; comunque, stiamo lavorando per aumentare l’efficienza nello sviluppo, negli acquisti e nella produzione attraverso lo sviluppo di piattaforme comuni."

Honda sembra quasi dispiaciuta che le tocchi produrre tutte queste moto di grande cilindrata, con bassi numeri di vendita e per di più tutte diverse fra loro: i giocattoli per gli europei, americani e australiani. Ma che dal punto di vista industriale sono un fastidio per una Casa che produce 20 milioni di moto l’anno, e che con 3 modelli in Asia vende 10 volte più che con i suoi 30 modelli in Europa.

Questa frase è comunque il chiaro segno – se ancora ce ne fosse bisogno – che Honda, come Yamaha Kawasaki e Suzuki, è consapevole del rischio di disruption rappresentato dai prodotti cinesi e indiani. I giapponesi sono consapevoli che rischiano di subire in Europa, mercato comunque ricco e prestigioso, uno sgambetto dal quale non possano più riprendersi. E allora succede quello che abbiamo già detto: via truppe dal fronte dell’alto di gamma per concentrarsi sulla fascia bassa e media.

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La sfida è cambiata - e ci saranno conseguenze

Per chi arriva dagli Anni 80 o 90 e ha visto Aprilia e Ducati, ma anche KTM e BMW, raccogliere e vincere la sfida che sembrava impossibile delle alte prestazioni e alta tecnologia, vedere i giapponesi che si ritirano è senz’altro una delusione. Ma il Giappone in questo momento non ritiene strategico scervellarsi per produrre e vendere pochi giocattoli costosi. È concentrato sul migliorare l’efficienza produttiva e abbassare i costi, massimizzando l’uso di piattaforme e architetture razionali – come sicuramente non sono il Kawasaki H2 o l’Honda V3, il cui compito è quello di tenere comunque alta la bandiera del prestigio. Ma intanto arrivano la W230 e la GB350S, e nelle alte cilindrate moto che stupiscono soprattutto per il prezzo, come la Z 900 e la Hornet 1000.

Tirarsi indietro non è sicuramente nello stile dei giapponesi: non lo stanno facendo in campo auto, dove hanno sviluppato da zero i loro marchi premium Lexus, Acura, Infiniti, che possono contare su volumi di vendita e margini per cui vale la pena. Nelle moto questi numeri al momento non ci sono e i manager giapponesi, che senz’altro conoscono la storia di Southwest Airlines, RyanAir e Nintendo, vedono bene che la stessa cosa sta succedendo con la Cina, e intendono rispondere a quella che per loro, oggi, è la vera sfida.

Una sfida epocale, che non sarà senza conseguenze per il mondo della moto perché rischia di essere l’equivalente della Terza Guerra Mondiale: in cui non importa chi vince, ma la distruzione che lascia. Di questo, però, parleremo la prossima volta.

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