Attualità
Disruption: la strategia cinese per il successo
Le moto cinesi sono più economiche, è un dato di fatto. Ma è anche frutto di una precisa strategia organizzata a livello centrale, il che spiega anche i motivi della risposta giapponese, che ha chiaramente individuato il rischio di "disruption"

C’erano una volta le sportive giapponesi, espressione dell'eccellenza tecnologica del Sol Levante. Dalle 250 alle 750, più tardi 1000, di solito con motori 4 in linea e fondamentalmente piuttosto simili nella costruzione e nelle prestazioni, pur se ognuna con le sue bandiere tecniche e stilistiche. Moto che hanno dominato le strade, le piste e i sogni dei più scalpitanti appassionati per almeno 20 anni, dalla metà degli 80 alla metà dei 2000. Dopodiché l'aria ha iniziato a cambiare.
All’inizio sembrò che la colpa fosse degli italiani. Ducati aveva tirato fuori la 916, poi la 999, la 1098 e la Panigale, cambiando il paradigma della sportività. Arrivarono anche Aprilia, KTM, BMW con prodotti altrettanto personali e performanti, e i giapponesi a un certo punto smisero di ribattere, ritirandosi uno alla volta. Via le 600 poco godibili su strada, poi via anche le 1000 race replica: Suzuki non aggiorna la GSX-R1000 dal 2017, Yamaha ha trasformato la R1 in una track-bike, Honda non pare troppo convinta di cosa fare con la sua CBR1000RR-R, arrivata nel 2020 e aggiornata col contagocce come pure la ZX-10RR di Kawasaki, che sembra intenzionata a passare la palla all’elitaria Bimota.
Cosa sta succedendo a quel mondo che tutti ricordiamo? Come abbiamo già raccontato, ha cominciato a cambiare. Quello che arriva dal Giappone è ormai tutto un inno alla ragionevolezza: medie cilindrate con motori bicilindrici paralleli e senza troppi fronzoli, tanto è vero che la palma della creatività – e sicuramente quella del tasso di rinnovamento – è passata alla Cina.