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Capi certificati: adesso sono più sicuri?
L’inchiesta di Dueruote: la normativa EN 17092 disciplina i requisiti di giacche, tute e pantaloni tecnici. Ma quali test devono superare? Siamo andati in un laboratorio autorizzato. Ecco cosa abbiamo scoperto
Dallo scorso 21 aprile è iniziata una nuova era per l’abbigliamento da moto. Da quella data, infatti, i produttori di abbigliamento non possono immettere nella rete di vendita giacche e pantaloni definiti “tecnici” se non rispettano lo standard fPR EN 17092. Tale normativa, che sarà armonizzata (ovvero pubblicata sulla Gazzetta ufficiale della Comunità Europea) entro la fine del 2019 (la dicitura fPR indica che si tratta del “final draft” - ossia della bozza definitiva - della norma provvisoria, ovvero “PR”) elenca le caratteristiche che corrispondono ai vari livelli protettivi di ciò che si definisce “abbigliamento tecnico da moto”.
Cosa dice la norma
I capi certificati sono suddivisi in cinque classi, ciascuna rispondente a un bisogno. I capi di classe B sono quelli senza protettori rigidi e tutelano solo dall’abrasione (ad esempio, un jeans in kevlar o fibre aramidiche), mentre i capi di classe A, AA e AAA, che si caratterizzano per la presenza di protettori e di tasche per il loro alloggiamento, proteggono da impatto e abrasione con differenti modalità (tanto per dare un’idea, la tripla A caratterizza le tute in pelle da pista). La norma tratta infine i capi di classe C, ossia i body armour, cioè un insieme di protezioni certificate per l’impatto e tenute insieme da uno strato di tessuto leggero, come quelle usate per mountain bike e off-road. Si tratta, come possiamo capire, di una normativa che va incontro alla tutela del consumatore: adesso i capi da moto certificati sono dotati di un’etichetta che li rende riconoscibili e ne specifica bene la destinazione d’uso.
Cosa c’era prima
La direttiva 686 del 1989 sui DPI (i dispositivi di protezione individuale) non considerava l’abbigliamento da moto nel suo insieme. Esisteva però una norma per certificare l’abbigliamento (la EN 13595), che era stata a suo tempo spinta a livello politico dall’Inghilterra. Non è un caso, infatti, che il metodo allora scelto per la misurazione della resistenza dei capi fosse l’abrasione da impatto di tipo Cambridge. Si tratta di un test eseguito su un macchinario brevettato nel Regno Unito, in cui il provino di tessuto cade su un nastro di carta abrasiva che gira a una certa velocità, e nel quale viene registrato il tempo che impiega a bucarsi. Tale test però era obbligatorio solo per certificare l’abbigliamento da moto “per uso professionale”.
Di fatto si trattava di una norma che, oltre a essere particolarmente severa (per superare i test, i capi certificati con la precedente norma non erano molto confortevoli da indossare) si rivolgeva a un bacino di utenza molto limitato: piloti, membri delle forze di polizia e coloro che usavano la moto per lavoro. Per i produttori di abbigliamento quindi la dicitura “per uso professionale”, era diventata un motivo in più per non certificare i capi. Nel nuovo regolamento comunitario sui DPI scompare la dicitura sull’uso professionale e viene introdotto il concetto di “abbigliamento atto a contenere protettori”, che deve essere certificato nel suo insieme, mentre in precedenza le aziende certificavano solo il protettore.
Adesso, a regolare quali test devono superare i capi da moto per essere certificati, ci pensa la parte 1 della fPR EN 17092. Per capirne di più noi di Dueruote siamo andati a Pastrengo, nel Veronese. Qui ha sede la Ricotest, uno dei laboratori più all’avanguardia a livello europeo in questo settore, oltre a essere uno dei due enti certificatori per l’abbigliamento da moto autorizzati dal Ministero dello sviluppo economico. A guidarci nella visita è il titolare Marco Meyer.
I test sui capi
I primi test vengono fatti sul capo di abbigliamento nella sua interezza. Vengono valutate l’ergonomia e le dimensioni: tre persone indossano il capo, ne testano il fitting, controllano la congruità delle taglie (il requisito molto blando fissato dalla norma è che ci deve essere un sistema di taglie identificato dal produttore nel fascicolo di omologazione), verificano che su ogni capo siano presenti le protezioni necessarie e che esse siano correttamente alloggiate all’interno delle tasche. Dopo questi test empirici è il turno dei test chimici sull’innocuità dei materiali: alcuni campioni di tessuto vengono analizzati per verificare il Ph, che non contengano coloranti o sostanze allergeniche o cancerogene e, se vi sono parti metalliche a diretto contatto con la pelle, viene analizzata la presenza di componenti che possono causare una reazione cutanea al cliente finale.
Il test Darmstadt
I capi vengono successivamente sottoposti al test col macchinario Darmstadt. Quello presente nel laboratorio veronese (una delle cinque macchine di questo tipo esistenti al mondo) prende il nome dall’università tedesca dove è stato inventato. Si tratta di un braccio rotante su cui vengono applicati tre campioni di tessuto del capo di abbigliamento. Viene fatto girare da un operatore fino a una determinata velocità, poi si sgancia e atterra su una superficie in pietra (un anello di cemento impastato con sassi di varia grammatura) che simula l’impatto sull’asfalto. Il test è superato se si crea un buco che in una direzione (trama o ordito) è più piccolo di 3 millimetri.
Ma perché vengono testati tre campioni? “Il corpo umano è stato suddiviso in tre zone, dalla 1 alla 3, a seconda dell’esposizione all’urto e all’abrasione. Lo strato strutturale esterno deve rispettare requisiti differenti in base a ogni classe”, dice Meyer. Col test Darmstadt viene misurato l’impatto da abrasione a differenti velocità e il tempo necessario a corrodere i vari materiali di cui si compongono i capi. “Abbiamo notato che la pelle ha un attrito maggiore e tende a scivolare meno sull’asfalto, mentre i tessuti più tecnici (in sostanza, tutti quelli sintetici) nella frizione raggiungono temperature alte, tendono a sciogliersi e scivolano ancora di più”, afferma Meyer.
Secondo cui i capi più complessi da testare sono le giacche touring e quelle con molte prese d’aria: le prime sono infatti composte da materiali differenti, che vanno testati separatamente, mentre nelle seconde i materiali traforati devono essere resistenti esattamente come lo strato strutturale esterno. L’unica concessione fatta dalla norma riguarda le aperture situate in zona 2, la cui apertura massima è fino a 4 cm: in questo caso i requisiti della retina traforata possono essere quelli della zona 3. Ad ogni modo la norma, per far sì che i capi passino i test, raccomanda che l’apertura delle zone di ventilazione non sia superiore ai 4 centimetri. Stessa metodologia viene usata per le tasche di giacche e pantaloni: se “tagliano” lo strato strutturale, all’interno di esse deve esserci lo stesso strato di tessuto per una lunghezza di 3 centimetri. Se le tasche insistono su due zone differenti, devono soddisfare i requisiti della zona più esposta al rischio.
Lo strappo e le cuciture
Altri due sono i test strumentali che i tessuti devono passare per ottenere la certificazione. Il primo misura la resistenza allo strappo: un macchinario tira un campione, che deve resistere a una trazione minima per rientrare in una determinata classe. Stesso discorso per il dinamometro che verifica la tenuta dei punti di cucitura: per passare il test il campione di cucitura prelevato dalla giacca deve sopportare la trazione minima (espressa in Newton per millimetri) fissata dalla direttiva. Per le giacche esiste anche un test di scalzamento: un cono con un dinamometro collegato (che simula un braccio) viene inserito nella manica. L’operatore, con una procedura manuale, tenta di estrarlo. Se il cono non esce, significa che la tenuta del polsino è efficace e che il test è superato.
Chi controlla?
Ma chi controlla se i capi messi in vendita sono conformi a quelli testati in laboratorio? Il costruttore deve dichiarare che si impegna a produrre con un livello qualitativo almeno pari a quello del prototipo certificato. All’ente che certifica la conformità non spetta nessun altro controllo a posteriori, che è competenza della Guardia di Finanza o delle varie Camere di commercio. Ma i controlli sulla produzione, come è noto, non sono moltissimi (almeno in Italia).
In teoria, nessuno impedisce a un’azienda produttrice di testare capi solo per ottenere la certificazione, per poi produrne altri con materiali più scadenti. D’altro canto è nell’interesse dei produttori non rovinare la propria reputazione facendo i furbi. Ipotizziamo infatti che un costruttore realizzi una giacca o un pantalone con materiali scadenti e che un cliente riporti dei danni in seguito a una caduta: le conseguenze penali e risarcitorie (oltre che di immagine) per tale produttore sarebbero incalcolabili.
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