Attualità
L’inchiesta di Dueruote: Italia, strade a pezzi
Manutenzione inesistente e confusione normativa hanno ridotto la viabilità provinciale e secondaria a un colabrodo: “È un’emergenza nazionale”. L’inchiesta di Dueruote
C’erano una volta le Case cantoniere, beni che lo stato sta svendendo per fare cassa. Già, ma a cosa servivano? A ospitare i cantonieri, coloro che si occupavano della manutenzione delle strade secondarie. A ognuno di loro, ai tempi d’oro, spettava il controllo su 4 chilometri di rete. Oggi, invece, la rete secondaria è abbandonata a se stessa. Basta fare una gita in moto su un percorso extraurbano per rendersene conto: segnaletica assente, asfalto penoso, buche, manutenzione inesistente.
Adesso arrivano anche i dati a suffragare ciò che dice l’esperienza di tutti i giorni: in Italia la manutenzione sulla rete stradale secondaria è a livelli da terzo mondo. Un’indagine della Fondazione Caracciolo (il centro studi dell’Aci) racconta un quadro desolante. In Italia ogni km di strada secondaria richiederebbe investimenti per 46mila euro, ma da 10 anni ne sono stati investiti appena 3mila. Cifre che stridono rispetto a quelle investite sulla rete autostradale (147mila euro al km) e su quella Anas (100mila). Colpisce come gli investimenti destinati alle autostrade siano così elevati, quando in Francia la stessa spesa è di 38mila euro e in Spagna 22mila.
Il cuore dell’Italia
Eppure l’Italia è terra di strade secondarie: esse sono 155mila km, l’85% del patrimonio viario nazionale, a fronte dei quasi 7mila di autostrade e delle oltre 20mila strade di interesse nazionale gestite da ANAS. Le nostre strade secondarie inoltre sono spesso costruite su terreni impervi, data anche la geografia del Paese, e sono piene di quelle che in gergo vengono definite “opere d’arte” (gallerie, ponti, viadotti). Che fanno dell’Italia il secondo paese al mondo dopo il Giappone: “Abbiamo un viadotto ogni due chilometri e una galleria ogni 7, il 60% delle gallerie di tutta Europa”, dice Paolo Cascetta, del comitato scientifico della Fondazione Caracciolo. Manufatti di cui le province non sanno nulla o quasi: mancano la documentazione, non si sa con quali materiali sono stati costruiti, non si sa ogni quanto sono stati mantenuti.
Delle 30mila opere d’arte presenti sulle strade provinciali, secondo i dati dell’UPI, 14.089 sono ignote agli uffici tecnici e potrebbero nascondere insidie: “Fare rilevamenti su queste strutture costerebbe 566 milioni di euro - dice il presidente dell’unione province italiane Achille Variati - ma a noi mancano il personale e i soldi per farlo”. Poi non ci lamentiamo se queste strade si rompono, o se i viadotti cadono a pezzi.
Cattivi investimenti
I soldi sono pochi, se paragonati a quelli destinati alle strade gestite da ANAS. A queste ultime, nel piano pluriennale 2016-2020, vanno 10,5 miliardi, mentre il ministero delle infrastrutture ha finanziato con 1,6 miliardi (da dividere per sei annualità) a Province e città metropolitane la manutenzione straordinaria. A tutt’oggi su queste strade si investono appena 500milioni di euro all’anno, pari a quello che serve a fare manutenzione sull’8% della rete. Eppure, secondo i calcoli fatti dall’Università di Roma Tre, i fabbisogni standard della manutenzione sono di 6,1 miliardi: 4,4 miliardi per la manutenzione straordinaria (sostituzione guardrail, cambio segnaletica, rifacimento pavimentazioni, manutenzione opere d’arte) e 1,7 per quella ordinaria (sfalcio erba, manutenzione presidi idraulici, ripristini a seguito di incidenti, servizi antighiaccio e neve).
Mancano all’appello 5,6 miliardi di euro. Un’emergenza frutto di mancati interventi nel corso degli anni, quantificati in 42 miliardi di euro. Ma come si è arrivati a questo punto? “Si tratta dell’unione di tre fattori - spiega Andrea Benedetto, docente di ingegneria a Roma Tre - alla manutenzione rarefatta si aggiunge la frammentazione delle competenze e la capacità di esercitarle”. Insomma, pochi soldi, spesi male e non si sa bene con quali criteri.
Caos all’italiana
Tutto questo nasce dal fatto che non si sa chi deve intervenire sulle strade italiane. Dal 1998 a oggi sono stati ben 10 i provvedimenti di riordino delle competenze sulle strade secondarie. Provvedimenti che hanno riordinato ben poco, dato il caos che comanda in questo settore. Non si sa bene chi deve fare cosa, e non si penalizzano gli enti che investono male o ancor peggio sprecano denaro pubblico. A questo si aggiunge un fatto non banale, come i tagli alle Province, che queste strade in teoria le dovrebbero mantenere. Tagli di un miliardo nel 2015, due nel 2016 e tre nel 2017. Risultato? Meno manutenzione e tecnici che chiedono il trasferimento ad altri enti.
A farne le spese, ovviamente, sono gli utenti della strada. Che dal 2014 vedono crescere gli incidenti sulla rete viaria secondaria. E che spesso pagano con la vita un’incuria in un settore strategico per la vita e la mobilità di una nazione. Il risultato è che i 959 morti all’anno sulla rete extraurbana secondaria rappresentano il 30% del totale dei decessi sulle nostre strade. Dati alla mano, una vittima su cinque è causata direttamente dallo stato delle strade.
Qui manca tutto
“Dal giorno del crollo del Ponte Morandi a Genova, è come se ne fosse caduto un altro in termini di vittime sulla rete secondaria - dice Maurizio Crispino, professore di strade, ferrovie ed aeroporti al Politecnico di Milano - perché in Italia manca tutto. Non abbiamo ad esempio dei parametri normati che ci dicano se una strada è sicura oppure no. Non abbiamo parametri che stabiliscano il tipo di servizi e manutenzione che deve offrire chi gestisce una strada. Non abbiamo norme che dicano quale manutenzione si deve fare sulle strade. E la norma sulla progettazione di nuove strade è vecchia concettualmente di mezzo secolo. Inoltre non c’è un soggetto terzo, come ENAC per gli aeroporti, che controlli l’operato del gestore”.
E dire che esisterebbe a livello internazionale un parametro per giudicare la qualità delle strade. Peccato che in Italia non sappiamo nemmeno cosa sia. Si chiama classificazione iRap-EuroRAP e ricorda quella degli alberghi: con tre stelle una strada secondaria è ritenuta di livello accettabile. Altri paesi, come Olanda e Svezia hanno fissato al 2020 l’obiettivo di portare la propria rete viaria secondaria ad almeno tre stelle.
Catasto invisibile
La ciliegina sulla torta è rappresentata dall’illustre sconosciuto che ha un nome ma non un volto. Stiamo parlando del catasto stradale, previsto da una norma datata 2001 e non ancora applicato. Mancano, come abbiamo detto prima, soldi, documentazione su strade e manufatti, e ovviamente personale. In molti casi è difficile pianificare lavori su strade di cui non si conosce nulla, un po’ come un medico costretto a operare senza la cartella clinica del paziente. “Eppure - dice Francesco Russo, ordinario di ingegneria dell’università di Reggio Calabria - sarebbe uno strumento fondamentale. Nella situazione di caos normativo, l’errore peggiore che si potrebbe fare è riassegnare le competenze sulla manutenzione, una procedura lunga e una perdita di tempo. Invece si potrebbe applicare il modello già usato con successo dallo Stato per l’anagrafe scolastica, integrandolo col decreto-Genova (che istituisce l’agenzia nazionale per la sicurezza delle infrastrutture; ndr). Basterebbero 18 mesi, massimo due anni per avere un censimento completo delle strade”.
Chi più spende meglio spende
Qualcuno potrebbe dire che 5,6 miliardi all’anno per rimettere in sesto la rete secondaria sia un po’ troppo. Sulla carta non sono spiccioli, ma lo studio della Fondazione Caracciolo fa notare che questo incremento di spesa potrebbe avere un impatto sul Pil nazionale di 16,2 miliardi, pari a un punto percentuale, e una riduzione della disoccupazione fino al 4% (pari a 120mila posti di lavoro nei settori collegati (in particolare quello delle costruzioni). Certo, il rapporto deficit/pil aumenterebbe, ma sarebbero soldi spesi bene. E i motociclisti ringrazierebbero.
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