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I viaggi dei lettori

E infine... l’Armenia

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E infine... l’Armenia
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E infine... l’Armenia
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E infine... l’Armenia
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E infine... l’Armenia
E infine... l’Armenia
E infine... l’Armenia

Montagne, solitudine, bambini che sorridono e salutano dai cassoni di camion logori come jeans. Questa è l’Armenia che emerge dalle pagine del diario di viaggio di Andrea, un collega giornalista, che ci racconta come quest’avventura appassionante, in sella alla Moto Guzzi V85 TT, è iniziata e perché gli sia entrata nel cuore

Il cargo attracca a Odessa alle 7, ma di scendere non se ne parla nemmeno. E se provi a domandare a un marinaio quando aprono il portellone, lui ti guarda come se avessi fatto allusioni sulle abitudini sessuali della sorella. Siamo saliti a Batumi, in Georgia, esattamente 48 ore prima, e da queste parti, lo si impara subito, la pazienza è insieme un dovere e un requisito indispensabile per sopravvivere.   
Due settimane prima ero a Milano, era l’estate del 2019: sotto di me la Moto Guzzi V85 TT carica come un mulo, davanti 10 nazioni da attraversare, sopra nuvoloni che scaricavano una pioggia così fitta da riuscire immediatamente a infilarsi nel collo per scendere giù, lungo tutta la schiena. La sera dopo a Brindisi. Poi, via: la Grecia attraversata tutta d’un fiato, per arrivare a Istanbul, ragionevolmente sfinito. Da lì era iniziato il viaggio, quello vero. Il traffico mortale della capitale turca, le centinaia di chilometri percorsi verso est, su strade che tagliano boschi fitti e intonsi, poi l’arrivo in Georgia nella assurda città di Batumi, una Las Vegas caucasica, piena di oligarchi russi, signorine appariscenti e casinò. Le avevo dedicato una serata. La mattina dopo ero già sulle montagne da 5mila metri a divorare spiedoni di carne succulenta, scodellati nel piatto a ogni sosta (altro che il Camogli!), e infine l’Armenia: montagne, solitudine, bambini che sorridono e salutano dai cassoni di camion logori come jeans. Poi era iniziato il ritorno.

Il timbro magico

Mentre ripenso ai chilometri percorsi e riguardo le foto scattate l’altoparlante della nave ci dice che si può scendere. O meglio, ci si può provare, e a me va male. La polizia di frontiera mi blocca sul portellone, controlla i documenti e mi dice: “Scusi, dov'è il tagliandino col timbro?”, solo che me lo dice in Ucraino. Li guardo con uno sguardo acquoso da cane. Me lo ripetono, senza muovere un muscolo, in Ucraino. Dopo 10 minuti di stallo, miracolo, arriva un prete motociclista poliglotta. È polacco, sta tornando nella sua parrocchia in Siberia, ma ha studiato a Roma e ha i modi spicci di un sergente dell’Armata Rossa: parla coi militari e mi dice che devo tornare a bordo, da qualche parte c’è un ufficiale che mi deve dare un foglietto. Metto sul cavalletto la Guzzi e risalgo. Vago finché trovo il tizio che dà i tagliandini. Così riprovo a scendere e finalmente passo il primo controllo: mi dicono vai a destra. Vado a destra. Lì un tizio in tuta acrilica guarda i miei documenti, simula un conato, si gratta sapientemente le chiappe e con la mano libera indica una petroliera. Cerco il prete, lo trascino dal tizio. Parlano 10 minuti e poi mi spiega di andare in un posto a sinistra in fondo al porto: lì mi applicano l’ennesimo timbro e mi danno sei foglietti, e senza voltarsi mi indicano con una penna, alle loro spalle, una gru che carica carbone. Cerco il prete, mi spiega che devo andare al secondo piano di un altro edificio a settecento metri. Seguendo gli altri passeggeri capisco che devo andare avanti e indietro. Ogni volta mi tolgono un foglietto, timbrano gli altri e mi rimandano da dove venivo. Sei volte, avanti e indietro, una per foglietto, ogni volta un’ora di fila, per poi sentirsi dire qualcosa come “tomarsov”, che credo significhi “ritenta”.

Quando tutto ebbe inzio

Mentre faccio le file, il pensiero va alle assurde coincidenze che mi avevano portato lì. Tutto iniziato molti mesi prima, a metà dicembre 2018, nella sala d’aspetto del mio dentista. Mi era capitato tra le mani un giornale con una anticipazione della Moto Guzzi V85 TT. Mi era piaciuta quella moto fatta di “abbastanza”: abbastanza veloce per fare tanti chilometri. Abbastanza leggera e agile per affrontare strade molto malmesse. Abbastanza semplice per non avere problemi irrisolvibili in quei posti dove i meccanici maneggiano più volentieri la mazza che il pc. Abbastanza abbordabile come listino. Abbastanza comoda per starci sopra ore e ore senza essere fachiri. Così, con l’anestesia nelle gengive e quella moto in testa ero tornato al giornale dove lavoro dove avevo trovato una mail dell’ufficio del personale che mi diceva, più o meno: “O ti prendi le ferie arretrate o ti mettiamo noi a riposo”.
Dopo cinque minuti stavo già scrivendo, da perfetto sconosciuto, alla Piaggio. Il succo era: state per lanciare la Guzzi V85 TT, una moto da grandi viaggi. Perché non me ne prestate una? Ci vado in Iran e scrivo il reportage sul giornale. Non faccio un viaggio da professionista, e non pianifico nulla: semplicemente ci salgo sopra e macino chilometri fino alla meta. Percorso, soste, tempi li decido giorno per giorno, perché sarà una vacanza, una lunga passeggiata. Un modo per riscoprire il gusto del viaggio, quello con la giusta dose di avventura. Dopo qualche giorno era arrivata la telefonata che non mi aspettavo: “Ok, l’idea ci piace: facciamola. C’è un piccolo problema, in Iran non possiamo andare, è nella black list del ministero. Hai qualche altra meta?”. Era così che avevamo ripiegato, si fa per dire, per un lungo giro di 10mila chilometri che aveva come obiettivo la più vecchia cantina vinicola del mondo, ad Areni, in Armenia, dove 6.500 anni prima era nato il vino, e mi piace pensare anche i brindisi. Intanto mi accorgo che ormai sono circa tre ore che faccio file, e la procedura si annuncia molto lunga. Eppure fino all’Ucraina le complicazioni alle varie dogane erano state pochissime: al massimo ero stato fermato da qualche agente curioso, ma solo per fare quattro chiacchiere. In Georgia e Armenia noi italiani godiamo di buona fama, e sono molto ben disposti verso di noi, e mi è capitato persino di sedare una discussione accesa tra interisti georgiani e milanisti sempre georgiani. Per il resto era sempre stato facile evitare i guai: educazione, gran sorrisi con tutti, i documenti sempre sotto mano e poi, ovvio, prudenza. Uso questo metodo: mi stabilizzo su un’andatura di assoluta tranquillità, e poi la riduco ancora un pochino, tanto quello che mi piace è stare sulla moto, non arrivare.      

Ancora in viaggio

Mentre rincorro i miei pensieri non mi accorgo che in una delle tante file qualcuno deve essersi dimenticato di togliermi un foglietto. così arrivo alla fine con 2 foglietti, però mi dicono di andare che è tutto “finish”. Salgo in moto ma all'uscita del porto una vecchia in divisa mi blocca e indica una finestrella. Busso, una mano che prende i miei documenti e me li restituisce subito. Tomarshov? “Tomarshov!”. Torno indietro. il prete non c'è più, mi adotta una famiglia ucraina. Mi fa mettere il timbro mancante. riesco, vecchia in divisa, finestrella documenti, di nuovo “tomarshov!”. Torno, è chiuso per pranzo. C’è da aspettare un’ora.    Ammazzo il tempo guardando la cartina e facendo due conti. Per tornare a casa dovrò attraversare Ucraina, Moldavia, poi la Romania, dove mi aspettano i Carpazi e la spettacolare Trasfalgarasan, una delle strade più belle del mondo, poi una tirata in Ungheria, Slovenia e infine l’Italia. Per quanto riguarda i soldi, sono ben coperto. La riserva di dollari nascosta in una tasca del mio anfibio sinistro è ancora intatta: ho speso molto meno di quanto mi aspettassi: la benzina nei Paesi del Caucaso costa circa 70 centesimi, e capita, soprattutto in campagna, di avere il super combo cena-camera-colazione per l’equivalente di 15 euro. Roba da trasferirsi laggiù, anche perché in Georgia si mangia bene e si beve meglio… finalmente torna l’ufficiale dello sportello immigrazione, apre, mi firma non so cosa, però ho ancora due foglietti invece di uno. Per fortuna appare dal nulla il prete poliglotta, gli dico dei due foglietti. Li guarda, mi porge quello con meno timbri, fa gli occhi della tigre e mi dice, serio, con il suo accento strano “Mancialo". Non lo mangio ma caccio il bigliettino in fondo a un tasca remota della giacca. Provo a uscire di nuovo, sono 3 del pomeriggio. La vecchia in divisa mi indica di nuovo la finestrella: documenti, un attimo di esitazione poi una voce bofonchia “Welcome in Ucraina”, io bofonchio qualcos’altro, e la Guzzi, che è sempre di buon umore, saluta con il suo bel rombo. È impaziente di sciropparsi i 3 mila chilometri che mancano per tornare, io di trovare una trattoria. A proposito, ma come si mangerà in Ucraina?
E infine... l’Armenia
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