Germania
Elefantentreffen, confessioni di un pentito
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Questi giorni di gelo sono l'ideale per rifinire la preparazione in vista dell’Elefantentreffen 2018 (in programma dal 2 al 4 febbraio). I temerari che hanno deciso di partire per la grande avventura non stanno più nella pelle, ma c'è anche chi ha detto basta. Ecco il racconto di chi è riuscito a smettere
Povere bestie. Non sanno quello che fanno. Li vedo dalla finestra della redazione, mentre caricano i bagagli sulle due BMW e controllano le ultime cose. Vogliono andare all’Elefantentreffen. Contenti loro, contenti tutti. Io me ne sto qui al calduccio. Non mi passa nemmeno per la testa di rimettermi in ballo con quella storia. Eppure… eppure c’è stato un periodo della mia vita in cui anch’io partivo verso il gelo. Verso l’Elefante, come chiamavamo noi il grande raduno.
«Noi», il primo anno, eravamo due persone, io e un mio amico che aveva bigiato la scuola. Venne con i jeans. Una sola moto, la mia, una Honda CX 500. Con i suoi quattordici anni sul gobbone, era vecchiotta, ma andava benone. Era la mia vita, quella moto. Era il mio passaporto per girare un’Europa dove c’erano ancora le frontiere. All’Elefante si pagava in marchi. Era il 1992. E io avevo 22 anni. Era un po’ che mi ronzava per la testa di andare lassù. Avevo visto le foto sui giornali e mi era venuta la voglia. Internet non esisteva e informazioni ne giravano poche. Non ero nemmeno sicuro della data del raduno.
Io e il mio amico partimmo il venerdì mattina, andammo e tornammo vivi. Alla domenica sera, ci aspettavano tutti gli amici alla birreria del paese. Eravamo due eroi. Avevamo perso dieci anni di vita e la stanchezza ci sarebbe rimasta addosso un mese, ma ne era valsa la pena. In seguito, in tanti mi chiesero cosa mi aveva spinto a spararmi 850 chilometri di strade a volte ghiacciate, dormire due notti in tenda sottozero, per poi tornare a casa con altri 850 chilometri al gelo. Perché? In quel 1992 avevo delle risposte precise: curiosità, voglia di grandi viaggi, spirito d’avventura. Quel che mi rimane ancora oggi oscuro, invece, è perché decisi di tornarci altre cinque volte.
Una volta un tossico mi disse: «Non so perché mi drogo. Ma è bello». Ecco. Andare all’Elefante era semplicemente bello. Perdonatemi l’aggettivo più banale della lingua italiana. Mi piaceva da matti il viaggio, attraversare il San Bernardino, silenzioso e innevato. Quando ci colse una bufera di neve sul passo e mi stesi sull’asfalto due volte in trecento metri, spaccando il carter dell’olio, mi piacque molto meno. Ma faceva parte del gioco. Mi piacevano da matti le soste lungo la strada. A Monaco mangiammo uno strano panino turco che in Italia ancora non esisteva, il kebab. Un’altra volta ci fermammo in una birreria: avevamo le dita congelate e ci facevano male i piedi. Ma noi ridevamo, felici, mentre li riscaldavamo sotto i fon del bagno.
Ma la cosa che mi piaceva di più era la vita al raduno. In realtà, all’Elefante non succedeva niente di speciale. Non si organizzavano eventi o animazioni. Sì, c’era una gara di tiro alla fune, ma non se la filava nessuno. E così io me ne stavo tutto il giorno fuori dalla mia tenda, seduto davanti al fuoco, come ipnotizzato. Guardavo i ciccioni tedeschi fare casino con le loro moto tamarre, i sidecar ricolmi di paglia e di casse di birra, la gente che spaccava la legna, i maialini girare sugli spiedi. Era il sabato del villaggio.
Mi piaceva anche andare «al furgone», un vecchio camioncino dell’organizzazione che stava lì tutto il giorno con il motore acceso e il cofano aperto. Un omino, con due cavi in mano, faceva partire le moto con la batteria morta. Ed era bella anche la notte a meno venti, rannicchiato nel sacco a pelo da montagna, in tre in una tenda da due perché così si stava più caldi. Niente per cui una persona psicologicamente a posto dovesse esaltarsi. Forse avevo preso una malattia.
La malattia doveva essere contagiosa, perché al terzo anno mettemmo in piedi una spedizione di sei moto, 11 persone e 20 chili di carne. Eravamo super organizzati. Dopo aver studiato con attenzione le attrezzature dei tedeschi, finalmente anche noi avevamo il treppiedi: tre pezzi di ferro incrociati e delle catenelle per appendere la griglia. Ferro, ferro pesantissimo da trasportare in moto. Quel treppiedi era stato forgiato, con pazienza, nelle solite serate tra reduci. Sì, perché l’Elefante durava tre giorni, ma poi ci si perdeva dietro tutto l’anno. A costruirci nuovi paramani, maxi cupolini, a fare gli «allenamenti»: quando veniva l’inverno, uscivamo di notte in moto (di giorno non faceva abbastanza freddo), per collaudare il nuovo sottocasco o la calzamaglia felpata. Ma per quante prove facessimo, durante il viaggio c’era sempre il momento in cui saltava fuori uno spiffero assassino. E la domanda era lì, sulla punta della lingua: «Ma chi me l’ha fatto fare?».
Passavano gli anni, la mia fila di medagliette ricordo si faceva sempre più lunga e l’Elefante era sempre uguale: se faceva freddo era tutto bianco di neve, se faceva meno freddo era tutta una porcilaia di fango. Avessi fatto delle foto buone a quei tempi, avrei potuto usarle oggi. E non se ne sarebbe accorto nessuno. Nel frattempo, per un fortunoso destino, ero diventato un «giornalista di moto». Nel 1999 andai all’Elefante per servizio. Mi avevano dato una BMW R 1100 RT con le manopole riscaldate e il parabrezza a regolazione elettrica, che quando era ghiacciato lo potevo abbassare. Il massimo della vita. Ero vestito con il non plus ultra dell’abbigliamento tecnico.
Doveva essere una pacchia. Beh, fu un anno terribile. Strade chiuse per neve, gente che rimase in giro tre giorni senza mai arrivare al raduno. Noi centrammo l’obiettivo, ma furono troppi i momenti di pura sofferenza fisica. Al ritorno, portata a casa la pellaccia, dissi: «C’ho messo sei anni a capire che è una pirlata». E ora, mentre i due colleghi di Dueruote stanno partendo, faccio finta che dell’Elefante non me ne importi più nulla. In realtà rosico d’invidia. Ma è solo un attimo. E se vi è venuta voglia di prendere e andare al prossimo, iniziate a prepararvi: la 62esima edizione si svolgerà dal 2 al 4 febbraio 2018.
L’articolo che avete appena letto è tratto dal numero 59 di Dueruote (Marzo 2010), quando l’autore del pezzo guardò partire i colleghi...
Il ricordo
«Noi», il primo anno, eravamo due persone, io e un mio amico che aveva bigiato la scuola. Venne con i jeans. Una sola moto, la mia, una Honda CX 500. Con i suoi quattordici anni sul gobbone, era vecchiotta, ma andava benone. Era la mia vita, quella moto. Era il mio passaporto per girare un’Europa dove c’erano ancora le frontiere. All’Elefante si pagava in marchi. Era il 1992. E io avevo 22 anni. Era un po’ che mi ronzava per la testa di andare lassù. Avevo visto le foto sui giornali e mi era venuta la voglia. Internet non esisteva e informazioni ne giravano poche. Non ero nemmeno sicuro della data del raduno.
Io e il mio amico partimmo il venerdì mattina, andammo e tornammo vivi. Alla domenica sera, ci aspettavano tutti gli amici alla birreria del paese. Eravamo due eroi. Avevamo perso dieci anni di vita e la stanchezza ci sarebbe rimasta addosso un mese, ma ne era valsa la pena. In seguito, in tanti mi chiesero cosa mi aveva spinto a spararmi 850 chilometri di strade a volte ghiacciate, dormire due notti in tenda sottozero, per poi tornare a casa con altri 850 chilometri al gelo. Perché? In quel 1992 avevo delle risposte precise: curiosità, voglia di grandi viaggi, spirito d’avventura. Quel che mi rimane ancora oggi oscuro, invece, è perché decisi di tornarci altre cinque volte.
Il bello dell’Elefante
Una volta un tossico mi disse: «Non so perché mi drogo. Ma è bello». Ecco. Andare all’Elefante era semplicemente bello. Perdonatemi l’aggettivo più banale della lingua italiana. Mi piaceva da matti il viaggio, attraversare il San Bernardino, silenzioso e innevato. Quando ci colse una bufera di neve sul passo e mi stesi sull’asfalto due volte in trecento metri, spaccando il carter dell’olio, mi piacque molto meno. Ma faceva parte del gioco. Mi piacevano da matti le soste lungo la strada. A Monaco mangiammo uno strano panino turco che in Italia ancora non esisteva, il kebab. Un’altra volta ci fermammo in una birreria: avevamo le dita congelate e ci facevano male i piedi. Ma noi ridevamo, felici, mentre li riscaldavamo sotto i fon del bagno.
Ma la cosa che mi piaceva di più era la vita al raduno. In realtà, all’Elefante non succedeva niente di speciale. Non si organizzavano eventi o animazioni. Sì, c’era una gara di tiro alla fune, ma non se la filava nessuno. E così io me ne stavo tutto il giorno fuori dalla mia tenda, seduto davanti al fuoco, come ipnotizzato. Guardavo i ciccioni tedeschi fare casino con le loro moto tamarre, i sidecar ricolmi di paglia e di casse di birra, la gente che spaccava la legna, i maialini girare sugli spiedi. Era il sabato del villaggio.
La vita all’Elefantentreffen
Mi piaceva anche andare «al furgone», un vecchio camioncino dell’organizzazione che stava lì tutto il giorno con il motore acceso e il cofano aperto. Un omino, con due cavi in mano, faceva partire le moto con la batteria morta. Ed era bella anche la notte a meno venti, rannicchiato nel sacco a pelo da montagna, in tre in una tenda da due perché così si stava più caldi. Niente per cui una persona psicologicamente a posto dovesse esaltarsi. Forse avevo preso una malattia.
La malattia doveva essere contagiosa, perché al terzo anno mettemmo in piedi una spedizione di sei moto, 11 persone e 20 chili di carne. Eravamo super organizzati. Dopo aver studiato con attenzione le attrezzature dei tedeschi, finalmente anche noi avevamo il treppiedi: tre pezzi di ferro incrociati e delle catenelle per appendere la griglia. Ferro, ferro pesantissimo da trasportare in moto. Quel treppiedi era stato forgiato, con pazienza, nelle solite serate tra reduci. Sì, perché l’Elefante durava tre giorni, ma poi ci si perdeva dietro tutto l’anno. A costruirci nuovi paramani, maxi cupolini, a fare gli «allenamenti»: quando veniva l’inverno, uscivamo di notte in moto (di giorno non faceva abbastanza freddo), per collaudare il nuovo sottocasco o la calzamaglia felpata. Ma per quante prove facessimo, durante il viaggio c’era sempre il momento in cui saltava fuori uno spiffero assassino. E la domanda era lì, sulla punta della lingua: «Ma chi me l’ha fatto fare?».
I ragazzi del ’99
Passavano gli anni, la mia fila di medagliette ricordo si faceva sempre più lunga e l’Elefante era sempre uguale: se faceva freddo era tutto bianco di neve, se faceva meno freddo era tutta una porcilaia di fango. Avessi fatto delle foto buone a quei tempi, avrei potuto usarle oggi. E non se ne sarebbe accorto nessuno. Nel frattempo, per un fortunoso destino, ero diventato un «giornalista di moto». Nel 1999 andai all’Elefante per servizio. Mi avevano dato una BMW R 1100 RT con le manopole riscaldate e il parabrezza a regolazione elettrica, che quando era ghiacciato lo potevo abbassare. Il massimo della vita. Ero vestito con il non plus ultra dell’abbigliamento tecnico.
Doveva essere una pacchia. Beh, fu un anno terribile. Strade chiuse per neve, gente che rimase in giro tre giorni senza mai arrivare al raduno. Noi centrammo l’obiettivo, ma furono troppi i momenti di pura sofferenza fisica. Al ritorno, portata a casa la pellaccia, dissi: «C’ho messo sei anni a capire che è una pirlata». E ora, mentre i due colleghi di Dueruote stanno partendo, faccio finta che dell’Elefante non me ne importi più nulla. In realtà rosico d’invidia. Ma è solo un attimo. E se vi è venuta voglia di prendere e andare al prossimo, iniziate a prepararvi: la 62esima edizione si svolgerà dal 2 al 4 febbraio 2018.
L’articolo che avete appena letto è tratto dal numero 59 di Dueruote (Marzo 2010), quando l’autore del pezzo guardò partire i colleghi...
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