Semplici soltanto in apparenza, i dischi freno hanno in realtà un contenuto tecnologico rilevante ed esistono ormai in moltissime varianti. Ecco come sono fatti e perché, dove si usano e tutto quel che bisogna sapere
Di tutti gli elementi della moto, probabilmente l’impianto frenante è quello di cui è più semplice capire il funzionamento. Questo può portare a sottostimare l’importanza dei dettagli, che sono il posto, come dice il proverbio, in cui si nasconde il diavolo. Perché se fare un impianto frenante a disco fosse così facile, come mai al mondo ci sono così pochi produttori?
La risposta è appunto che la tecnologia del complesso pompa-pinza-pastiglie-disco non è affatto semplice. In nessuno dei suoi elementi a partire appunto dal disco, che come vedremo può andare da un pezzo di acciaio tranciato da pochi euro di costo a un sofisticato elemento in carbonio con montaggio flottante e alette di raffreddamento, come nella moderna MotoGP.
Dalla MotoGP in giù
È facile appassionarsi delle tecnologie più esotiche e innovative, come i dischi in carbonio o carboceramici, le pinze monoblocco radiali e via dicendo; ma anche nel più banale degli impianti frenanti c’è una sofisticazione di cui siamo poco consapevoli. La rigidezza delle pinze ha un effetto sul feeling della frenata, la fattura delle tubazioni e dei raccordi sulla corretta trasmissione della pressione generata dalla pompa, lo spessore delle guarnizioni dei pistoncini sulla coppia frenante residua (legata al non completo ritorno in sede dei pistoncini quando si rilascia la leva).
Quando però si pensa ai dischi, sembra invece impossibile che alle loro spalle ci sia una tecnologia sofisticata; dopotutto, nella sua versione più semplice un disco freno è ottenuto di trancia da un foglio di acciaio, una lavorazione fra le più basilari che si possano immaginare. Tuttavia anche nei dischi negli ultimi anni c’è stato un rapido sviluppo che ha portato a una grande differenziazione nei materiali, negli attacchi, nei diametri, nella forma, negli spessori e nelle forature.
Acciaio o carbonio
Partiamo dai materiali. Fino a qualche tempo fa si usavano sia acciaio che ghisa, che garantiva coeficienti di attrito maggiori; la ghisa è però anche più fragile (si ricordano casi, per quanto estremi, di dischi letteralmente “esplosi” a causa di difetti di fabbricazione e/o di accoppiamento con pastiglie sbagliate) e pesante, e l'acciaio la ha ora totalmente sostituita grazie a nuove leghe e trattamenti. Si usano normalmente acciai della famiglia degli inox, dotati di ottime proprietà di stabilità termica e di resistenza alla ruggine, che preserva l’aspetto del disco anche dopo anni.
Non possiamo non citare i dischi in carbonio, usati ormai da molto tempo nelle corse (dal 1988 in 500, oggi solo in MotoGP a causa dei vincoli regolamentari): leggerissimi, praticamente insensibili alla dilatazione, capaci di offrire coefficienti di attrito elevatissimi, sono però inadatti per la produzione di serie visto che oltre a queste caratteristiche hanno anche un coefficiente di attrito estremamente non lineare, devono lavorare a temperature molto più alte rispetto ai dischi in acciaio e hanno un’usura inaccettabilmente alta; inoltre possono essere accoppiati solo a pastiglie speciali. Sulle auto sono state sviluppati dischi “carboceramici”, che però sulla moto non sono mai sbarcati visti anche i costi ingenti (esistono comunque pastiglie di tipo carboceramico).
Il tema del calore
Grazie agli ultimi sviluppi tecnologici dei dischi in acciaio, i freni in carbonio non sono più così lontani in termini di prestazione, anche se mantengono almeno due vantaggi: il primo è che sono sensibilmente più leggeri, il secondo è che, lavorando a temperatura più alta, possono dissipare più rapidamente il calore generato dalla frenata.
Lo scopo di ogni sistema frenante è infatti quello di trasformare parte dell’energia cinetica del veicolo in calore, e il disco di occupa sia di generare l’attrito che, soprattutto, di smaltire questo calore: cosa che fa efficacemente cedendolo all'aria a cui è esposto durante la sua rotazione, grazie anche alle proprietà termiche dei materiali con i quali è costruito. I metalli sono infatti ottimi conduttori; il carbonio lo è un po’ meno, ma lavora tranquillamente fino a 800 °C contro i 600 °C scarsi di un disco in acciaio.
Panoramica delle soluzioni costruttive
Per orientarci nel panorama dei dischi freno possiamo classificarli in base a una serie di semplici parametri che elenchiamo qui di seguito:
Soluzione costruttiva
Tondi o a margherita
Visto che del materiale abbiamo già parlato, passiamo alla forma e alla struttura: il disco è ovviamente circolare, ma negli ultimi decenni si sono diffusi, partendo dal mondo off-road, i profili esterni “a onda” o “a margherita”, la cui efficacia è peraltro contestata (quasi solo da Brembo, ma è ovviamente un parere “pesante”). Chi li produce sostiene invece che aiutino a ravvivare le pastiglie, lo stesso scopo per cui sono da tempo impiegati i fori di varia forma e dimensione, che aiutano anche a migliorare la dispersione del calore e l’evacuazione dell’acqua, e le "baffature" impiegate soprattutto nell'off-road.
Non hanno invece mai avuto successo i dischi autoventilanti (costituiti da due dischi accoppiati con una scanalatura esterna), diffusi nel mondo auto, perché la moto ha comunque una buona ventilazione dei dischi anteriori, e soprattutto una massa molto minore rispetto alle auto, cosa che ha sempre consentito di ottenere tutta la potenza che serve con i dischi standard.
Dischi fissi e dilatazione
Vediamo ora le opzioni legate al fissaggio alla ruota, con la classica distinzione tra dischi fissi e flottanti. Il disco fisso è spesso realizzato in un unico pezzo di acciaio e non ha una campana separata, o comunque non può muoversi rispetto alla campana. Questa soluzione si vede ancora sulle moto e sugli scooter entry-level, o nei dischi posteriori di piccola dimensione e potenza.
Con il crescere dei diametri, soprattutto all’anteriore, al fine di ridurre il peso si è iniziato a realizzare campane in alluminio, che hanno poi offerto il beneficio di poter lasciare un grado di libertà alla pista frenante. La pista infatti, per effetto del calore della frenata, si dilata; lo fa nello stesso modo in ogni direzione, ma la cosa è naturalmente più evidente in senso radiale, che è la direzione prevalente di sviluppo. Per effetto della dilatazione un disco fisso tende a ondularsi, e le ondulazioni rispingono i pistoncini nelle sedi dentro la pinza intaccando la effettiva forza frenante.
Flottanti e semiflottanti
Grazie alla connessione flottante (ottenuta interponendo di solito 8 o 10 nottolini cilindrici tra flangia e pista frenante), questa dilatazione è in parta assorbita, riducendo le deformazioni della pista che resta in grado di allinearsi correttamente alla pastiglia senza generare oscillazioni della forza frenante o vibrazioni. I nottolini consentono infatti alla fascia frenante di muoversi ortogonalmente alla campana, rimanendo nelle corrette tolleranze di funzionamento. I dischi freno flottanti aiutano le pastiglie a entrare in contatto in modo bilanciato su entrambi i lati, migliorando la risposta in frenata e la corretta dissipazione del calore e minimizzando anche la coppia residua, cioè le frizioni residue tra la pastiglia e il disco a leva completamente rilasciata.
La contropartita è che i piccoli movimenti consentiti al disco possono generare rumori avvertibili a bassa velocità, che di solito si riducono fino a scomparire quando il disco raggiunge la temperatura di esercizio. Ai non esperti questi dischi possono sembrare difettosi, per cui sono ormai riservati all’utilizzo racing e nella serie si montano più spesso dei “semiflottanti” (di solito con delle molle di recupero del gioco nei nottolini, in pratica delle rondelline), che negli anni sono stati sviluppati al punto da essere efficaci quasi quanto i flottanti. In alternativa, siccome quello che è importante è ovviamente la possibilità di movimento relativo tra disco e pinza, nel caso delle basse prestazioni si sono diffuse soluzioni con disco fisso e pinza flottante, che lasciano quindi la possibilità di muoversi in capo alla pinza anziché alla pista del disco.
Il T-Drive
L’ultimo sviluppo tecnologico relativo al fissaggio è stato fatto da Brembo con il sistema T-Drive. Si tratta di un sistema pensato per le alte prestazioni, che accoppia la fascia alla campana senza utilizzare nottolini, introdotto per migliorare la trasmissione delle forze e del calore. Il sistema T-Drive permette la flottanza sia radiale sia assiale e consente di ridurre il peso complessivo del disco, con vantaggi anche nella guidabilità.
Il fissaggio è affidato a otto perni a “T” ricavati sul disco che impegnano otto sagome sulla campana con uno speciale aggancio a ghigliottina, consentendo di trasmettere la coppia frenante in modo più efficace e con una migliore resistenza agli stress termo-meccanici, soprattutto in condizioni di utilizzo estreme come le competizioni. I dischi T-Drive sono disponibili come alternativa ai dischi classici e compatibili con diverse misure di pinza.
Fascia standard o fascia bassa
L’ultimo sviluppo nel campo dei dischi freno è praticamente riservato all’uso in pista: non siamo al livello dei dischi in carbonio, ma parliamo di soluzioni comunque dedicate a chi ha esigenze di frenata veramente estreme.
Da qualche anno Brembo ha infatti iniziato a commercializzare la serie “fascia bassa” o "pista bassa" (l'altezza della fascia frenante è di 30 mm anziché 34 mm), il cui vantaggio è di avere le pastiglie un po’ più lontane dall’asse ruota e quindi poter generare coppie frenanti maggiori: si parla di un 30% in più a parità di pressione nell’impianto, un’enormità.
Gli appassionati dei track day hanno ormai a disposizione i dischi originali abbinabili a pinze di prestazioni crescenti; poi possono fare il salto ai fascia bassa, che è un salto prestazionale ma anche di prezzo. Va sottolineato che i fascia bassa sono prodotti che nascono per uso racing e hanno particolarità tecniche, difficoltà di messa a punto e manutenzione (a partire dalla revisione richiesta ogni 2.000 km) che li rendono poco adatti anche solo al pistaiolo amatoriale.
Siamo all'ultimo passo prima del mondo esotico delle competizioni? Non ancora: qui per i circuiti con i problemi di temperatura più grandi come Donington, dove i dischi lavorano tutta la gara a medie superiori ai 600 °C (senza contare i picchi), si usano dischi “high mass”, con fasce più spesse e alte, meno fori e capaci di immagazzinare e dissipare più calore. Ovviamente con pinze e pastiglie specifiche. Anche le dimensioni sono ormai "monstre": il tabù dei 320 mm di diametro che aveva imperato per anni è stato rotto per la prima volta nel 2008 quando si salì a 328 mm; oggi ormai in SBK si usano dischi da 336 mm, penalizzanti dal punto di vista dell’handling, ma fondamentali per fermare la moto in spazi brevissimi.
La manutenzione
E la manutenzione? Non c’è molto da dire, anche se quel poco è importante. L'impianto è pensato per funzionare con la pastiglia che lavora sul disco, vale a dire il materiale (organico o sinterizzato) a contatto con l'acciaio. Nel tempo la pastiglia tende a lasciare depositi sul disco, finendo per lavorare sul suo stesso materiale: per questo è opportuno lavare di tanto in tanto la superficie del disco con gli appositi prodotti, che sgrassano senza essere untuosi. Anche le pastiglie andrebbero tenute pulite e più piane possibile nella superficie, aspetto a cui abbiamo dedicato un altro articolo.
Nell'uso in pista la pulitura di base dell'impianto viene fatta a ogni uscita, e ad alto livello addirittura ad ogni turno: pulizia pastiglie e pulizia dischi, anche per evitare che i residui e il pulviscolo delle pastiglie restino in giro finendo non solo per ridurre l'attrito ma anche per impastare i pistoncini. Ci sono anche speciali spazzole che puliscono in profondità il disco senza incidere sulla planarità, ma è un livello di pulizia da officina, che richiede lo smontaggio dei dischi ed è di fatto riservato all'uso professionale.
Ultima raccomandazione: va tenuto sotto controllo lo spessore del disco, che non deve scendere al di sotto del valore indicato dal produttore.
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