Motogp
L'intervista, Kevin Schwantz: "Il secondo posto per me non esisteva!"
Pagina principale
A tu per tu con il Campione del Mondo americano della 500 GP, quel Kevin Schwantz che ha infiammato i cuori degli appassionati in tutto il mondo, legando il suo nome a quello della Suzuki. Una chiacchierata a tutto campo sul passato, sulle competizioni, su un mondo che è scomparso e un messaggio ai piloti di oggi: " Credo che i giovanissimi oggi siano un po’ viziati... a me importava solo di guidare, e non contava cosa o dove. Volevo solo correre"
Kevin Schwantz è qualcosa di più di un ex Campione del Mondo della classe GP 500. Nell’immaginario collettivo il pilota americano rimane un mito senza tempo, un pilota che in assoluto non ha vinto quanto altri, ma che ha scaldato il cuore degli appassionati di tutto il mondo. Il texano si è reso protagonista di gare memorabili, di sorpassi al limite della leggi della fisica, di scivolate…
Il suo modo di correre era unico, sia nell’impostazione in sella, sia nella condotta di gara, dove il secondo posto non esisteva. La sua vita è sempre stata all’insegna delle due ruote: nato a Houston nel 1964, cresce nel negozio di moto del padre, dove inizia a muovere i primi passi nel fuoristrada, quindi nella velocità nazionale. Poi il salto in Europa nel 1986 dove corre qualche gara del Mondiale delle 500 GP. Dall’anno successivo la 500 lo vede protagonista in pianta stabile fino ad arrivare a conquistare il titolo nel 1993. Il ritiro arriva due anni più tardi, anche a causa di qualche problema fisico dovuto alle numerose cadute accumulate in carriera. La pausa di riflessione con le competizioni termina nel 2013 quando quasi per gioco ritorna a gareggiare nella 8 Ore di Suzuka, esperienza che ripete anche l’anno successivo. Scoprendo tra l’altro che anche invecchiando il talento non svanisce…
Kevin, perché tutti ti considerano una leggenda?
“Sinceramente non ne ho idea… forse perché spingevo al limite in ogni singola curva, ogni maledetto giro. Il secondo posto per me non esisteva…”.
Cosa è cambiato tra la GP dei tuoi tempi e la MotoGP di adesso?
“Innanzitutto, non c’è più il paddock di un tempo. Rossi e Vinales non fanno nulla assieme pur essendo compagni di squadra. L’ambiente è freddo. Ognuno ha i suoi impegni, le sue cose, i suoi appuntamenti… tutti sono concentrati sulle proprie faccende e non c’è tempo per altro. Ai miei tempi non c’erano molti obblighi: certo avevamo qualche appuntamento con gli sponsor personali o quelli del team, ma poco altro. Non avevamo una scaletta di appuntamenti rigida come quella che c’è ora. Allora era molto più rilassante. Non c’era la folla che oggi, ad esempio, staziona fuori dal motorhome di Valentino aspettando l’autografo o la foto di lui che passa e scappa via. Rossi non ha tempo di fermarsi, corre da una parte all’altra per la sua scaletta personale”.
Che rapporti c’erano tra i piloti negli anni in cui hai corso?
“Come oggi, l’ultima persona da cui volevi essere battuto era il tuo compagno di squadra. Ma se alla fine del weekend di gara le cose erano andate male ci si sedeva tutti intorno a un tavolo, entrambi i piloti compatti e i tecnici, e si discuteva su come migliorare, su cosa lavorare. Il lavoro di team era migliore. Credo che lo sviluppo tecnologico abbia cambiato il modo di lavorare: Valentino chiede una cosa, Maveric magari un’altra, e alla fine si confrontano i dati della telemetria davanti al computer per decidere. Ognuno col suo capo ingegnere e la squadra di tecnici. Ai miei tempi era tutto più manuale: dovevi essere bravo a raccontare come funzionava la moto e cosa non andava nel dettaglio. Magari usando le mani, la voce, le espressioni del viso, facendo strani rumori con la bocca. Perché non c’erano dati da controllare: era il pilota che sentiva se c’era grip dietro, se riprendendo il gas in mano la gomma scappava, se bisognava lavorare sul bilanciamento della moto o sulla carburazione… Si lavorava tutto il fine settimana per risolvere problemi: nella mia carriera posso contare sulle dita di una mano le volte in cui sono arrivato alla domenica, all’ora della partenza, con una moto davvero a punto. Per il resto dovevamo guidare sempre sopra i problemi della moto. D’altronde il nostro lavoro era di guidare forte, non di togliere o dare precarico al mono o alla forcella”.
Cosa significa la Suzuki per te?
“È come una famiglia. Non è un’azienda grande come Yamaha o Honda che hanno tempi di reazione rapidissimi quando devono produrre nuovo materiale. In Suzuki per migliorare qualcosa quando correvo bisognava lavorare sodo a strettissimo contatto. Ho visto per anni quello che fanno con le moto di produzione, sulle moto da gara. E sono rimasto al loro fianco per tanti anni anche per gratificarli e ricompensarli”.
Un paio di anni fa hai corso la 8 Ore di Suzuka. Cosa ne pensi delle sportive moderne?
“Il primo anno, nel 2013, fu un problema. Avevo qualche moto da fuoristrada a casa e guidavo in pista per divertirmi una GSX-R600. Avevo ancora una certa percezione della velocità in pista, ero tranquillo anche quando dovevo sorpassare qualcuno nei track day. Poi mi sono ritrovato a Suzuka su una GSX-R1000 a 300 km/h in fondo al rettilineo e non riuscivo a riprendere i meccanismi. E nonostante mi preparassi alle manovre, chiudevo il gas o ero in ritardo. Non riuscivo ad abituare la mia testa alla moto e alle velocità. Per fortuna i miei due compagni di squadra Noriyuki Haga e Yukio Kagayama hanno tirato come matti nei loro primi turni di guida. Alla fine abbiamo conquistato il secondo posto assoluto…”.
L’anno dopo invece?
“Mi sono preparato meglio, con dei test in America e mi ero già adattato alle potenze di una SBK. E già dalle prime prove libere ho iniziato a girare abbastanza forte. Prepararmi prima della gara ha fatto un’enorme differenza. Certo, poi c’è stato il problema del set-up: eravamo là per mettere a punto la moto ma è arrivato una tempesta che ha bloccato tutto. Sono tornato in USA per un problema con il visto e il lavoro in pista è stato fatto dal terzo pilota Tsujimoto che ha completamente cambiato il setting della moto. Quando ho ripreso in mano la moto per la gara sono finito cinque volte nella ghiaia… per fortuna che in vista della Superpole siamo tornati alle regolazioni originarie ed è stato un piacere ritornare a guidare una SBK. Ho trattenuto il respiro per il giro veloce e poi… gas”.
Anche perché Suzuka è una delle piste più difficili che ci siano…
“Una delle cose più difficili il primo anno è stato seguire Kagayama nelle prove in preparazione della gara: stesso team, stessa moto. Io nella sua scia, curva uno, curva due, nessun problema… poi il ponte Dunlop. In quel punto lui scompariva. Era incredibile. La mia moto si muoveva, sbandava. Ai box l’ho fermato e gli ho chiesto come facesse: Yukio ha risposto che quelli sono i limiti del pilota. Dovevo fidarmi dell’elettronica. Io stavo lì a chiudere ed aprire il gas, loro andavano dentro in pieno e lasciavano fare al traction control. Solo che è difficile, è una cosa contro natura… Il primo anno è stato un problema. Il secondo, nel 2014, è andata meglio”.
A proposito di piloti, qual è stato il più forte con cui hai lottato?
“Di sicuro Wayne Rainey. Tu potevi qualificarti in pole girando anche un secondo più forte e lui dietro di una, due file. Partivi, pensavi di avere un problema in meno da affrontare, e poi… bam, arrivava. Sempre. Anche quando pensavi di avercela fatta. Lui ha usato quasi sempre gomme Dunlop, che erano più veloci nei primi giri. Se riuscivi a non farti staccare all’inizio, nel finale avevi qualche speranza”.
Se guardi indietro cosa vedi?
“Sono cresciuto con i miei genitori in un negozio di moto. Il mio sogno era di guidare. Avevo vent’anni quando ho iniziato a gareggiare in pista. Ho avuto l’opportunità di provare il motocross, il supercross grazie a mio padre e al suo lavoro. Devi essere fortunato per fare questo e trovare le persone giuste disposte a sacrificarsi per te. Se non hai tutto ciò è quasi impossibile riuscire a sfondare”.
La scuola americana oggi non è più quella florida degli Anni 90. Secondo te perché?
“Credo che i giovanissimi oggi siano un po’ viziati: pensano… non è una moto vincente, quindi non ci corro. Il primo salto di qualità l’ho fatto nel 1984 con Yoshimura, il più importante nel 1986 con il Transatlantic Match Races. Correvo con una moto dell’anno prima, quella che con Rutter aveva fatto il TT all’Isola di Man. A me importava solo di guidare, e non contava cosa o dove. Volevo solo correre e non importava se tutto fosse finito in un fallimento. In quell’occasione, durante il Transatlantic Match Races, incontrai Barry Sheene: mi disse di seguirlo, mi ospitò a casa sua, tirò fuori una moto di due anni prima dal suo piccolo museo e me la preparò. Feci dei test e corsi la prima gara qualche settimana dopo. Subito dopo Suzuki UK venne da me e mi chiese di partecipare ad alcune gare del Mondiale GP 500… Assen, il Belgio e Misano. Io… Nel Mondiale! Avevo iniziato a gareggiare in pista appena due anni prima. Dovevo provarci, dovevo prendere al volo questa occasione. Barry è stata la persona più influente nella mia carriera, quella che mi ha spinto nel Mondiale. Penso ai giovani di adesso che corrono in SS o in STK e che si fanno scrupoli sul miglior team o la miglior moto da scegliere. Purtroppo la mentalità americana è quella di scegliere sempre il meglio. Ma non si rendono conto che se primeggi in un team di medio livello diventi automaticamente un eroe”.
Hai iniziato nell’off-road. Ti è rimasta la passione per il fuoristrada?
“Certo, ho avuto diverse moto come la RM-Z 450 con ruote da 19” e una 250 da cross, delle Ossa da dirt-track, delle Gas Gas… le ho usate soprattutto in vista della 8 Ore di Suzuka negli anni scorsi. Giusto un paio di settimane fa sono stato in una pista di motocross per un po’ di allenamento: la prima uscita circa 26 minuti, poi altri 30 minuti… Non sono un professionista, ma non ho subito molti sorpassi. È divertente, specie se la pista è tecnica”.
Ti sei ritirato nel 1995, a trent’anni. Cosa accade in quel momento? Perché un campione si ritira?
“Quando mi sono ritirato non riuscivo più a guidare come volevo. E portare al limite una moto in quelle condizioni significava rischiare più del dovuto. Poi arrivi ad un certo punto della tua carriera che non ne puoi più di quella vita, dei viaggi, delle conferenze stampa, delle apparizioni pubbliche. Vorresti solo correre ma non puoi. Quello che conta è il semaforo verde alle 14 della domenica. Quando correvo non mi interessava null’altro: non c’era festa che mi interessasse, evento mondano o altro. Ricordo un party a Barcelona il sabato sera organizzato dallo sponsor… volevano che ci andassi. Ho litigato perché io dovevo andare a letto presto per essere riposato il giorno della gara. La gara, il motore su di giri, il semaforo verde… quello volevo”. Abbiamo realizzato quest'intervista nel corso di una giornata memorabile in cui Kevin Schwantz si è immerso nel mondo di Dueruote diventando per un giorno uno di noi. Se siete curiosi di sapere com'è andata, l'appuntamento è in edicola su Dueruote n.148 di Agosto. E se volete entrare subito nell’atmosfera di una giornata epica, non perdetevi la mega gallery e il video!
Il suo modo di correre era unico, sia nell’impostazione in sella, sia nella condotta di gara, dove il secondo posto non esisteva. La sua vita è sempre stata all’insegna delle due ruote: nato a Houston nel 1964, cresce nel negozio di moto del padre, dove inizia a muovere i primi passi nel fuoristrada, quindi nella velocità nazionale. Poi il salto in Europa nel 1986 dove corre qualche gara del Mondiale delle 500 GP. Dall’anno successivo la 500 lo vede protagonista in pianta stabile fino ad arrivare a conquistare il titolo nel 1993. Il ritiro arriva due anni più tardi, anche a causa di qualche problema fisico dovuto alle numerose cadute accumulate in carriera. La pausa di riflessione con le competizioni termina nel 2013 quando quasi per gioco ritorna a gareggiare nella 8 Ore di Suzuka, esperienza che ripete anche l’anno successivo. Scoprendo tra l’altro che anche invecchiando il talento non svanisce…
Kevin, perché tutti ti considerano una leggenda?
“Sinceramente non ne ho idea… forse perché spingevo al limite in ogni singola curva, ogni maledetto giro. Il secondo posto per me non esisteva…”.
Cosa è cambiato tra la GP dei tuoi tempi e la MotoGP di adesso?
“Innanzitutto, non c’è più il paddock di un tempo. Rossi e Vinales non fanno nulla assieme pur essendo compagni di squadra. L’ambiente è freddo. Ognuno ha i suoi impegni, le sue cose, i suoi appuntamenti… tutti sono concentrati sulle proprie faccende e non c’è tempo per altro. Ai miei tempi non c’erano molti obblighi: certo avevamo qualche appuntamento con gli sponsor personali o quelli del team, ma poco altro. Non avevamo una scaletta di appuntamenti rigida come quella che c’è ora. Allora era molto più rilassante. Non c’era la folla che oggi, ad esempio, staziona fuori dal motorhome di Valentino aspettando l’autografo o la foto di lui che passa e scappa via. Rossi non ha tempo di fermarsi, corre da una parte all’altra per la sua scaletta personale”.
Che rapporti c’erano tra i piloti negli anni in cui hai corso?
“Come oggi, l’ultima persona da cui volevi essere battuto era il tuo compagno di squadra. Ma se alla fine del weekend di gara le cose erano andate male ci si sedeva tutti intorno a un tavolo, entrambi i piloti compatti e i tecnici, e si discuteva su come migliorare, su cosa lavorare. Il lavoro di team era migliore. Credo che lo sviluppo tecnologico abbia cambiato il modo di lavorare: Valentino chiede una cosa, Maveric magari un’altra, e alla fine si confrontano i dati della telemetria davanti al computer per decidere. Ognuno col suo capo ingegnere e la squadra di tecnici. Ai miei tempi era tutto più manuale: dovevi essere bravo a raccontare come funzionava la moto e cosa non andava nel dettaglio. Magari usando le mani, la voce, le espressioni del viso, facendo strani rumori con la bocca. Perché non c’erano dati da controllare: era il pilota che sentiva se c’era grip dietro, se riprendendo il gas in mano la gomma scappava, se bisognava lavorare sul bilanciamento della moto o sulla carburazione… Si lavorava tutto il fine settimana per risolvere problemi: nella mia carriera posso contare sulle dita di una mano le volte in cui sono arrivato alla domenica, all’ora della partenza, con una moto davvero a punto. Per il resto dovevamo guidare sempre sopra i problemi della moto. D’altronde il nostro lavoro era di guidare forte, non di togliere o dare precarico al mono o alla forcella”.
Cosa significa la Suzuki per te?
“È come una famiglia. Non è un’azienda grande come Yamaha o Honda che hanno tempi di reazione rapidissimi quando devono produrre nuovo materiale. In Suzuki per migliorare qualcosa quando correvo bisognava lavorare sodo a strettissimo contatto. Ho visto per anni quello che fanno con le moto di produzione, sulle moto da gara. E sono rimasto al loro fianco per tanti anni anche per gratificarli e ricompensarli”.
Un paio di anni fa hai corso la 8 Ore di Suzuka. Cosa ne pensi delle sportive moderne?
“Il primo anno, nel 2013, fu un problema. Avevo qualche moto da fuoristrada a casa e guidavo in pista per divertirmi una GSX-R600. Avevo ancora una certa percezione della velocità in pista, ero tranquillo anche quando dovevo sorpassare qualcuno nei track day. Poi mi sono ritrovato a Suzuka su una GSX-R1000 a 300 km/h in fondo al rettilineo e non riuscivo a riprendere i meccanismi. E nonostante mi preparassi alle manovre, chiudevo il gas o ero in ritardo. Non riuscivo ad abituare la mia testa alla moto e alle velocità. Per fortuna i miei due compagni di squadra Noriyuki Haga e Yukio Kagayama hanno tirato come matti nei loro primi turni di guida. Alla fine abbiamo conquistato il secondo posto assoluto…”.
L’anno dopo invece?
“Mi sono preparato meglio, con dei test in America e mi ero già adattato alle potenze di una SBK. E già dalle prime prove libere ho iniziato a girare abbastanza forte. Prepararmi prima della gara ha fatto un’enorme differenza. Certo, poi c’è stato il problema del set-up: eravamo là per mettere a punto la moto ma è arrivato una tempesta che ha bloccato tutto. Sono tornato in USA per un problema con il visto e il lavoro in pista è stato fatto dal terzo pilota Tsujimoto che ha completamente cambiato il setting della moto. Quando ho ripreso in mano la moto per la gara sono finito cinque volte nella ghiaia… per fortuna che in vista della Superpole siamo tornati alle regolazioni originarie ed è stato un piacere ritornare a guidare una SBK. Ho trattenuto il respiro per il giro veloce e poi… gas”.
Anche perché Suzuka è una delle piste più difficili che ci siano…
“Una delle cose più difficili il primo anno è stato seguire Kagayama nelle prove in preparazione della gara: stesso team, stessa moto. Io nella sua scia, curva uno, curva due, nessun problema… poi il ponte Dunlop. In quel punto lui scompariva. Era incredibile. La mia moto si muoveva, sbandava. Ai box l’ho fermato e gli ho chiesto come facesse: Yukio ha risposto che quelli sono i limiti del pilota. Dovevo fidarmi dell’elettronica. Io stavo lì a chiudere ed aprire il gas, loro andavano dentro in pieno e lasciavano fare al traction control. Solo che è difficile, è una cosa contro natura… Il primo anno è stato un problema. Il secondo, nel 2014, è andata meglio”.
A proposito di piloti, qual è stato il più forte con cui hai lottato?
“Di sicuro Wayne Rainey. Tu potevi qualificarti in pole girando anche un secondo più forte e lui dietro di una, due file. Partivi, pensavi di avere un problema in meno da affrontare, e poi… bam, arrivava. Sempre. Anche quando pensavi di avercela fatta. Lui ha usato quasi sempre gomme Dunlop, che erano più veloci nei primi giri. Se riuscivi a non farti staccare all’inizio, nel finale avevi qualche speranza”.
Se guardi indietro cosa vedi?
“Sono cresciuto con i miei genitori in un negozio di moto. Il mio sogno era di guidare. Avevo vent’anni quando ho iniziato a gareggiare in pista. Ho avuto l’opportunità di provare il motocross, il supercross grazie a mio padre e al suo lavoro. Devi essere fortunato per fare questo e trovare le persone giuste disposte a sacrificarsi per te. Se non hai tutto ciò è quasi impossibile riuscire a sfondare”.
La scuola americana oggi non è più quella florida degli Anni 90. Secondo te perché?
“Credo che i giovanissimi oggi siano un po’ viziati: pensano… non è una moto vincente, quindi non ci corro. Il primo salto di qualità l’ho fatto nel 1984 con Yoshimura, il più importante nel 1986 con il Transatlantic Match Races. Correvo con una moto dell’anno prima, quella che con Rutter aveva fatto il TT all’Isola di Man. A me importava solo di guidare, e non contava cosa o dove. Volevo solo correre e non importava se tutto fosse finito in un fallimento. In quell’occasione, durante il Transatlantic Match Races, incontrai Barry Sheene: mi disse di seguirlo, mi ospitò a casa sua, tirò fuori una moto di due anni prima dal suo piccolo museo e me la preparò. Feci dei test e corsi la prima gara qualche settimana dopo. Subito dopo Suzuki UK venne da me e mi chiese di partecipare ad alcune gare del Mondiale GP 500… Assen, il Belgio e Misano. Io… Nel Mondiale! Avevo iniziato a gareggiare in pista appena due anni prima. Dovevo provarci, dovevo prendere al volo questa occasione. Barry è stata la persona più influente nella mia carriera, quella che mi ha spinto nel Mondiale. Penso ai giovani di adesso che corrono in SS o in STK e che si fanno scrupoli sul miglior team o la miglior moto da scegliere. Purtroppo la mentalità americana è quella di scegliere sempre il meglio. Ma non si rendono conto che se primeggi in un team di medio livello diventi automaticamente un eroe”.
Hai iniziato nell’off-road. Ti è rimasta la passione per il fuoristrada?
“Certo, ho avuto diverse moto come la RM-Z 450 con ruote da 19” e una 250 da cross, delle Ossa da dirt-track, delle Gas Gas… le ho usate soprattutto in vista della 8 Ore di Suzuka negli anni scorsi. Giusto un paio di settimane fa sono stato in una pista di motocross per un po’ di allenamento: la prima uscita circa 26 minuti, poi altri 30 minuti… Non sono un professionista, ma non ho subito molti sorpassi. È divertente, specie se la pista è tecnica”.
Ti sei ritirato nel 1995, a trent’anni. Cosa accade in quel momento? Perché un campione si ritira?
“Quando mi sono ritirato non riuscivo più a guidare come volevo. E portare al limite una moto in quelle condizioni significava rischiare più del dovuto. Poi arrivi ad un certo punto della tua carriera che non ne puoi più di quella vita, dei viaggi, delle conferenze stampa, delle apparizioni pubbliche. Vorresti solo correre ma non puoi. Quello che conta è il semaforo verde alle 14 della domenica. Quando correvo non mi interessava null’altro: non c’era festa che mi interessasse, evento mondano o altro. Ricordo un party a Barcelona il sabato sera organizzato dallo sponsor… volevano che ci andassi. Ho litigato perché io dovevo andare a letto presto per essere riposato il giorno della gara. La gara, il motore su di giri, il semaforo verde… quello volevo”. Abbiamo realizzato quest'intervista nel corso di una giornata memorabile in cui Kevin Schwantz si è immerso nel mondo di Dueruote diventando per un giorno uno di noi. Se siete curiosi di sapere com'è andata, l'appuntamento è in edicola su Dueruote n.148 di Agosto. E se volete entrare subito nell’atmosfera di una giornata epica, non perdetevi la mega gallery e il video!
Gallery