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Professione dakariano
Da dove vengono i piloti della Dakar, cosa facevano prima? Erano crossisti o enduristi? Il debutto di Alex Salvini nel grande rally fa scaturire un filotto di domande storico-statistiche-esistenziali…
Stavo pensando al debutto di Alex Salvini alla Dakar e mi è venuto da rimuginare: “Ecco un altro endurista che va a correre nei rally”. Poi mi sono ricordato di quella volta nel crossodromo a Faenza, quando lo vidi che si arrampicava su per il salitone infangato con il suo stile ignorante, un torello tutto proteso in avanti. Doveva essere il 2009 o 2010, Mondiale MX3, poco importa ora. Fatto sta che il simpatico pilota bolognese è stato prima un buon pilota di Motocross e poi un grande nell’Enduro (campione del mondo della E2, nel 2013).
E oggi, a 37 anni, eccolo alla sua prima Dakar, finita troppo presto, purtroppo, alla sesta tappa. Ma al di là dello sfortunato epilogo, pensando ad Alex mi si è incastrata una rotellina nel cervello e hanno iniziato a tormentarmi un po’ di domande storico-statistiche-esistenziali. Chi sono i dakariani? Da che specialità vengono?
Ci vuole un fisico bestiale?
Beh, viene naturale pensare che gli enduristi siano in un certo senso i predestinati. Abituati a gare lunghe e faticose, dove serve un fisico da diesel, dove i calli alle mani possono accumularsi per una settimana intera come alla Six Days. E in effetti pensando a Edi Orioli (vincitore nel 1988, 1990, 1994 e 1996) o all’indimenticato Fabrizio Meoni (al successo nel 2001 e 2002), il ragionamento fila. Ne cito solo un paio, perché sono tantissimi i piloti di Enduro – non necessariamente top rider – che dopo una vita tra fettucciati e mulattiere hanno trovato nel deserto una nuova carriera.
Il ragionamento filerebbe se Franco Picco, prima di diventare famoso nelle Dakar degli Anni 80, non avesse conquistato fior di titoli italiani nel Motocross. E vogliamo parlare di Gaston Rahier? Piccolo grande uomo tre volte iridato (1975-1976-1977) con le Suzuki RM 125, capace poi di vincere due Paris-Dakar (1984-1985) su una BMW boxer che per lui – soprannominato le petit Gaston – era davvero gigantesca.
Coriaceo Picco, furbo come una volpe Rahier, insieme a molti altri hanno dimostrato che si può passare anni a girare in tondo e spaccare sassi in un crossodromo per poi diventare navigatori dell’infinito. Tra l’alto, oggi Picco si ritrova alla Dakar 2023 in squadra (Fantic) proprio con Salvini.
Enduristi, crossisti o...?
O enduristi o crossisti, dunque. Il ragionamento filerebbe se un certo Cyril Despres, cinque volte vincitore della Dakar (2005-2007-2010-2012-2013), non avesse iniziato con il Trial. Come del resto Laia Sanz, tredici volte trialista iridata tra le donne, diventata poi una velocissima dakariana in grado non solo di finire la massacrante maratona, ma anche di “fare classifica”.
Sembra strano che i praticanti della disciplina più lenta del mondo (una volta nel Trial si poteva anche stare fermi in “surplace”), piloti abituati a scavalcare sassi giganti a non più di 10 km/h, possano lanciarsi su piste di finissima sabbia a 150 e più km/h.
O forse velocisti?
O enduristi, o crossisti, o trialisti, dunque. Il ragionamento filerebbe se Danilo Petrucci l’anno scorso non avesse combinato quel bello scherzetto di vincere una tappa alla Dakar. Evidentemente, ci dev’essere un qualcosa in comune – a me sfugge – tra le slick di una MotoGP e le tassellate dalla carcassa dura di una moto da Rally.
Un fil rouge che mette sullo stesso piano quel punto cieco che a un certo punto riserva il rettifilo del Mugello all’ignoto che si nasconde dietro ogni duna. In ogni caso, anche il pilota ternano è arrivato al grande Rally in età “over 30”, quasi per gioco.
Giovani o esperti?
Ma allora la Dakar è “solo” un qualcosa cui arrivare a una certa età, dopo una carriera in altre discipline? Il ragionamento filerebbe se non fosse che negli ultimi anni sono tanti gli specialisti che hanno intrapreso fin da ragazzi la carriera da rallysti e che ben presto sono diventati professionisti del desert racing. Giovani velocissimi, capaci di interpretare al meglio l’era delle sempre più agili 450, moto lontane anni luce dalle mastodontiche navi del deserto di una volta che erano in qualche modo più “generaliste”.
Un nome per tutti di questa nuova generazione di piloti? Sam Sunderland, l’inglesino che a 33 anni ha già messo insieme dieci partecipazioni alla Dakar e due successi (2017-2022). Uno senza mezze misure: quando ha finito la gara, è sempre andato sul podio. Il 2023, purtroppo è per lui uno degli anni da archiviare per infortunio. Out alla prima tappa.
E poi, all’opposto degli specialisti – e qui ci metto anche gli americani delle Baja 1000 - ci sono quelli che non vengono da una vera e propria carriera agonistica. Sono tanti gli amatori che ogni anno popolano il bivacco della Dakar, ma è andando alle prime edizioni della gara che si trovano i più clamorosi esempi.
Come Fenouil, al secolo Jean-Claude Morellet, giornalista, scrittore, viaggiatore, avventuriero. Uno che alla prima edizione del 1979 partì con una BMW boxer stradale adattata allo scopo (la G/S ancora non era nata) e che poi arrivò a essere un buon dakariano (fu quarto nel 1981). Uno che, come tanti francesi negli Anni 70, era andato per curiosità alla scoperta dell’Africa, rimanendone stregato. E come del resto Thierry Sabine, che in quegli stessi anni si perse nel deserto con la sua Yamaha XT 500, durante la Abidjan-Nizza. Si dice che l’idea di organizzare la Paris-Dakar gli sia venuta lì, da solo, in mezzo al Sahara.
(foto servizio RallyZone, Fantic Press, BMW Press, GASGAS Media, MV Agusta Press, KTM Press)
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