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Parigi-Dakar Story

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Una corsa nata quasi per scommessa, contro se stessi e contro quelli che mai si sarebbero buttati in un'avventura del genere.

Le prime Dakar erano per i più temerari


di Marco Masetti
, foto Soldano




Ufficialmente, tutto iniziò il 26 dicembre 1978 sulla Place de Trocadero a Parigi, quando una carovana di 90 moto e 80 auto partì nel gelo polare verso la lontana Dakar, capitale del Senegal. Parigi – Dakar, la vera, unica, avventura moderna e quindi competitiva, ma anche mediatica della nostra epoca.

Ma le radici sono più lontane: affondano il mito nell’on the road di tanti francesi un po’ fuori dalle righe che, alla ricerca di avventura, emozioni e per evadere dalla normalità (il Sessantotto era finito da un pezzo), avevano preso l’abitudine di solcare il deserto, dal Marocco al golfo di Guinea, ripercorrendo le rotte del loro vecchio impero coloniale.


La prima Dakar vide alla partenza una piccola folla di piloti dilettanti in sella alle prime enduro giapponesi, Honda XL e, soprattutto, Yamaha XT 500. Fu una fortuna per i fabbricanti di moto, che fecero subito vedere che con le loro creazioni si poteva affrontare il deserto algerino e la savana del Mali. Gli amatori tuttavia, poco alla volta, furono sostituiti da piloti professionisti, ma la razza dei puri non si è mai estinta e anche oggi tanti privti sono regolarmente al via e buoba parte di loro arriva anche al traguardo.




Il primo grande dakariano fu Cyril Neveu, un francesino basso e minuto, ma abilissimo ad orientarsi nel deserto. Era il deserto prima dell’invenzione della navigazione satellitare, del GPS , del telefonino. Un mondo duro e spietato, che non accettava compromessi. Si poteva partire con moto raffazzonate, vecchie Renault 4 e persino qualche Vespa, ma il deserto non accettava confidenze. E qui nasce la fama della Dakar come la gara più spietata del mondo. Dove se sbagli muori. Intanto Neveu vinceva l’edizione 1980.






Quel gran genio istrionico, carismatico e bello come un signore del deserto di un film d’avventure che rispondeva al nome di Thierry Sabine aveva davvero capito tutto. Non gli bastava aver organizzato una gara-avventura capace di destare l'interesse del mondo, non era pago di aver coinvolto le Case costruttrici (nel 1981 arrivò e subito vinse la BMW con Hubert Auriol), voleva di più… Al via ci dovevano essere attori, cantanti, VIP come il figlio della premier britannica Tatcher o Carolina di Monaco, tutti consci che la Dakar era più di una gara

Un’esperienza di vita, una porta da aprire, magari rischiando la vita. Il compagno di viaggio è un libretto che di colpo diventa famoso nel mondo: il road book. Qui, pagina dopo pagina, con note scritte alla moda dei rallysti auto, ma anche simili agli ideogrammi, c’era tutta la Dakar, metro dopo metro.

La gara è incredibilmente dura: la sera, al bivacco della tappa le facce sono stravolte… Ma chi glielo fa fare? Si chiedono in molti, intanto la federazione internazionale non riesce a mettere becco su questioni tecniche e legali. In Africa comanda la TSO, sigla che significa Thierry Sabine Organisation. Quando lui dice una cosa, è legge; quando un pilota è disperso “lui” lo cerca con il suo elicottero. Il mito si nutre di miti e intanto il nome Ténéré non è più un luogo sperduto. È il teatro nel quale tanti piloti vorrebbero misurarsi. È una moto di successo costruita dalla Yamaha.






Il 1982 vede la terza vittoria di Neveu che corre con una nuova Honda 500, la XR 500 R. Dal cross proviene Gaston Rahier che in Africa e sulla BMW riscopre una nuova carriera. Intanto si fanno conoscere gli italiani, forti di una scuola del fuoristrada che ha pochi eguali nel mondo.

Nel 1985 Franco Picco, ex crossista, lotta per la vittoria in un’edizione spietata: 135 moto al via e solo 25 all’arrivo. Il 1986 ha una data incancellabile nella storia della Dakar, il 14 gennaio. L’elicottero di Thierry Sabine precipita a Gourma Rharous in Mali. Muoiono in quattro e la gara non sarà più la stessa.

La gara però continua (questo è lo spirito del suo inventore): la TSO è diventata una grande azienda e la compagna di Sabine ed il padre di lui, Gilbert, gli succedono alla guida della Società. La moto da battere in quel periodo è la Honda 750, una bicilindrica a V realizzata dall’HRC per vincere in Africa. Dopo Neveu, nell’86 la porta alla vittoria un grande pilota, Gilles Lalay.

Nell’88 il dominatore della Dakar è un italiano, Edi Orioli, ex endurista che con la Honda batte una concorrenza. I piloti italiani, Picco, Findanno, Marinoni, De Petri, sono tra i migliori specialisti; corre anche la Gilera in forma ufficiale e con la Cagiva sono quindi due le Case italiane impegnate.

Il grande successo ha però tolto alla Dakar, molto del suo spirito iniziale. Si parla di combine, specie nelle auto, con la Peugeot che spadroneggia, si parla dei troppi morti, degli incidenti, dei cambi di percorso (in Algeria non si passa più, intanto si scopre la Libia di Gheddafi). Si parla anche della Cagiva che, con Orioli, vince la sua prima Dakar dopo anni di sforzi colossali e di delusioni. Intanto nasce una grande stella: Peterhansel, il francese che corre con la Yamaha e che diventa il vero padrone della Dakar.






Dopo essere stata il top sportivo dell’inverno, la Dakar perde davvero la strada giusta. Nel 1992 Gilbert Sabine traccia un percorso che va da Tripoli a Città del Capo. Nelle intenzioni sembra una grande trovata, ma la gara perde fascino e soprattutto gli scenari che l’hanno resa famosa.

La carovana della corsa attraversa in colonna tempeste di sabbia di biblica potenza, una guerra civile in Ciad e un’inondazione in Namibia. Vince Peterhansel con la Yamaha. L’anno dopo si volta pagina e si va dal Trocadero a Dakar, passando per Tamanrasset. La gara è dominata dalle Citroen e dalla Yamaha, intanto arriva il GPS e con questa new entry scompare il mito del “navigatore” il pilota che con la bussola, la carta e tanto istinto sa trovare la rotta giusta.

Nel ’94 la TSO abbandona, ora la Dakar ha altri padroni (l’ex sciatore Killy) e il percorso è davvero strano: Parigi, Dakar, Parigi, via Marocco. Orioli vince, e poi vince ancora, collezionando la sua quarta Dakar e confermandosi tra i più forti di tutti i tempi.

Oggi il suo erede è Meoni, un pilota forte e sfortunato, umile e bravissimo che ha il potenziale per rilanciare la popolarità della corsa presso i motociclisti italiani. Il problema è che non si vendono più le enduro e le Case non investono. L’impasse tecnica è evidente, anche se preparatori e Case, come la KTM, stanno facendo passi avanti per voltare, anche tecnicamente, pagina.

Ora resta un problema: mettetela come volete, ma la Dakar deve essere una gara dura che porta i piloti da Parigi al Lago Rosa in Senegal, deve svolgersi su tremende piste desertiche, deve riunire piloti e Case, amatori, appassionati e vecchie glorie. Deve essere tremenda e pericolosa e soprattutto imprevedibile. Come la vecchia Dakar, come la nuova Dakar.

Le prime Dakar erano per i più temerari
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