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Kapriony Mina, una bomba da rally su base Desert X +VIDEO+
Il prototipo su piattaforma Ducati è stato ideato e progettato da Paolo Caprioni e dalla factory Engines Engineering. Una pronto gara grossa e potente che ha già raggiunto il traguardo della Africa Eco Race: l’abbiamo provata
Torniamo indietro di vent’anni. 450 cc e 60 cavalli non bastano più, per correre in Africa serve il doppio di tutto. Questo è ciò che deve essere balenato per la mente di Paolo Caprioni, già noto nell’ambiente del motorally per le numerose partecipazioni alla Africa Eco Race e per le sue preparazioni su base KTM 950, 890, Ténéré 700 e. Tutte moto ben costruite e interessanti, senza dubbio, ma forse mancava un qualcosa.
Quello zic in più aggiunto dal 100% di italianità che invece contraddistingue il progetto più recente: Mina, una special da rally che più special non si può costruita sulla base della Ducati Desert X assieme alla factory bolognese Engines Engineering. Il primo prototipo si vide già a EICMA 2022 e fece battere il cuore a molti; l’ultima evoluzione ha da poche settimane portato a termine la “real race to Dakar”, gara per cui la moto è stata effettivamente messa in cantiere, ed è ora stata messa a disposizione di noi fortunati giornalisti per una presa di contatto.
Ma non si può parlare di come va senza prima averne spiegato le modifiche, che sono sostanziali e riguardano un buon 80% del pacchetto. Anzi, si fa prima a dire cosa resta di serie: il motore, bicilindrico a L da 937 cc, e il telaio, ma solo il traliccio anteriore. Tutto il resto è stato stravolto con un solo obiettivo in mente: portarla al traguardo sul Lago Rosa di Dakar.
UNA VERA DESERT X DA RALLY RAID
A discorrere di parti speciali c’è l’imbarazzo della scelta, quindi per darci un ordine partiamo dal davanti. Il frontale mantiene il bellissimo sguardo originale della Desert X, con faretti tondi e cupolino che sembrano quelli di serie. L’avantreno è stato sostituito in toto: le piastre sono dedicate e la forcella è una WP Cone Valve con steli da 48 di quelle giuste, escursione 300 mm, valore da specialistica pura. L’impianto frenante prevede un disco singolo con pinza a due pistoncini, quello che serve fuoristrada, nulla di più: si risparmia peso e la potenza offerta da un impianto stradale non serve. Il mozzo ruota è in ergal e i cerchi, entrambi, hanno canale stretto e sono predisposti per mousse o camera. Ci spostiamo di poco verso il retro ed entrano in scena i due serbatoi anteriori da 14 litri ciascuno realizzati a mano in alluminio e avvolti da convogliatori in carbonio. L’ergonomia è studiata sulle esigenze del pilota ma segue una logica ben condivisibile: spostare il peso più in basso possibile, per abbassare il baricentro e lasciare la zona delle ginocchia relativamente stretta. Sul ponte di comando c’è tanto di quel ben di dio da far girare la testa. Sembra il cockpit di un caccia: torretta in carbonio, porta road book, trip master, cap, supporto per strumento gps, pulsanti e levette a profusione, manopole in spugna e ammortizzatore di sterzo.
Si arretra ancora e balza subito all’occhio il forcellone. Una specie di opera d’arte, un pezzo unico in alluminio ricavato dal pieno con una struttura tipo traliccio e realizzato secondo una serie di accurati studi per ottenere esattamente il grado di rigidità desiderato. È inoltre più lungo rispetto a quello di serie, anche se il perno ruota posteriore ha uno spostamento di 4 cm tra il tutto avanti e il tutto indietro, quindi giocando con la lunghezza della catena si può variare l’interasse in modo sensibile. Interasse che, in ogni caso, aumenta di parecchio.
Collegato senza leveraggi al forcellone sta un ammortizzatore Öhlins che garantisce alla ruota posteriore un’escursione di 285-295 mm in base al tipo di attacco inferiore che si sceglie. Paolo ci svela che per tutta la gara ha preferito l’opzione con meno corsa, questo per abbassare di un qualcosa il retrotreno e aprire di conseguenza l’angolo di sterzo, per scaricare la ruota anteriore e lasciarla più leggera e libera di galleggiare sulla sabbia.
Nei pressi del mono è interessante notare il collettore di scarico del cilindro posteriore: subito dopo l’uscita si sdoppia in due tubi più piccoli che si ricongiungono dopo una quindicina di centimetri. Questa soluzione limita la trasmissione di calore all’ammortizzatore, che da più “fresco” lavora meglio.
Alzandoci inquadriamo il serbatoio posteriore da 10 litri (capienza totale della moto 38 litri), un pezzo unico ottenuto saldando tra loro fogli d’alluminio che funge da struttura portante e quindi da telaietto posteriore, al posto del traliccio in acciaio originale. Dato del peso: 198 kg a secco, qualcosa in meno dei 202 dichiarati della Desert X standard, ma ci hanno garantito che si può scendere ancora.
Quello che, dicevamo, rimane sostanzialmente di serie è il motore. Non è stato toccato nulla all’interno in modo da non inficiare l’affidabilità garantita dalla casa madre. Quello che è stato modificato è ciò che ci sta attorno, sia a monte che a valle. In particolare l’elettronica è stata progettata ex novo, sia come hardware che come software. Ci sono diverse mappe, una grossomodo a potenza piena e le altre a potenza ridotta, utili nelle condizioni più difficili o magari quando ci si ritrova davvero a corto di energie. Sono interessanti alcune strategie messe a punto per situazioni estreme: grazie a sensori di temperatura, la centralina si accorge quando il motore oltrepassa una soglia preimpostata e toglie automaticamente potenza e coppia, sino a quando i valori non siano tornati entro i parametri.
Altra strategia è quella che permette di portare la moto a fine tappa anche in caso di rottura del comando del gas ride-by-wire. In base alla marcia inserita lei eroga una determinata quantità di potenza, sufficiente a procedere e a portare la moto all’arrivo o quanto meno in un luogo sicuro. Oltre all’elettronica e all’impianto elettrico, anche questo rifatto completamente, cambiano il coperchio frizione, che lascia i dischi a vista, e l’impianto di scarico, un SC Project in titanio con i collettori rivestiti da benda termica.
LA PROVA SU SABBIA: ECCO COME VA
Mina è alta, grossa, lunga. Lunghissima, addirittura, è forse la prima cosa che si nota. Tutta questa lunghezza serve inevitabilmente a dare stabilità, mentre l’angolo di sterzo molto più aperto dell’originale è utile, come anticipato, a scaricare l’avantreno e a renderlo più leggero quando si tratta di galleggiare sulla sabbia o bisogna alzarlo per superare ostacoli.
Sali a bordo e noti l’altezza: nonostante la sella scavata è più alta della moto di serie, io che sono 1 e 83 con indosso gli stivali tocco in punta. Per mantenere la sella piatta, che sarebbe più gradevole esteticamente, sospetto ci vorrebbe un pilota da almeno 1 e 90. Le pedane sono anch’esse rialzate e avanzate, oltre a essere decisamente più ampie. Il manubrio anche lui è stato rialzato e la posizione di guida, sia da seduto che in piedi, è ben distesa e confortevole. In ogni caso, per condurre un mezzo di simile stazza sono graditi piloti ben dotati fisicamente.
Con l’aiuto dei tecnici di Engines Engineering mi oriento tra tutti i comandi che ho di fronte. Per il momento mi basta avviare il motore. Premo il bottoncino e l’SC inizia a tuonare, è una moto da corsa. L’aura è quella lì, quella del prototipo da gara, con la sua perfetta imperfezione. È curata sin nel minimo dettaglio ma è vissuta, consumata in certe parti. Quando prende vita fa quasi venire i peli dritti sulla schiena.
Il terreno scelto per la prova è quello sabbioso del pistino da enduro di Pomposa, apparentemente non tra i più adatti, chi lo conosce sa che è un percorso impegnativo e tortuoso, ma in fin dei conti tra i luoghi “legali” è forse uno dei migliori. Ci sarebbe voluta una veloce sterrata sarda o il greto di un qualche fiume per apprezzarla a ritmi più sostenuti, ma per questa presa di contatto va bene così.
Prima, seconda, ti metti in piedi sulle pedane e senti che tra le gambe c’è del volume, dopotutto anche la Desert X di serie non è tra le più snelle con il suo cilindro posteriore che sta proprio in mezzo alle ginocchia. Comunque, le pedane sono larghe e grippose e la moto la si governa bene. La seconda cosa che noti è l’incredibile bilanciamento dato dai serbatoi che si sviluppano verso il basso. Te ne accorgi guidando in piedi e spostando il peso da una pedana all’altra, la moto risponde rapida ma sempre equilibrata, lo sterzo non tende mai a prendere sotto e il comportamento è piacevolmente neutro. Sulle buche più pronunciate, qui a Pomposa c’è una sezione di piccole wave, ti accorgi di quanto sia azzeccata la ripartizione dei pesi con una buona preponderanza verso il posteriore, la ruota davanti danza sul fondo molle e bastano i giusti movimenti di gambe e braccia per alzarla e riappoggiarla dopo l’ondulazione successiva.
Le sospensioni, dal canto loro, svolgono un lavoro egregio. Sono sensibili nella prima parte di escursione, ma poi diventano sostenute e mantengono sempre la moto piatta, evitando i trasferimenti di carico. Se riusciamo ad apprezzarlo a velocità di poco superiori ai 50-60 orari non oso pensare che goduria debba essere un simile equilibrio sopra i 100 chilometri l’ora. Certo, va guidata con il cervello ben acceso, perché farsi prendere la mano è un attimo e l’inerzia non è di certo quella di un 450.
D’altro canto, con questa stabilità generale e il motorone che Mina si ritrova, rapidamente si raggiungono velocità da allerta massima. Il bicilindrico, che del segmento è uno di quelli con più carattere, è ignorante quanto basta ma senza mettere in imbarazzo. Spinge forte, sia chiaro, ma la progressione è regolare e non esplosiva; tra tutti gli elementi della moto non è lui quello che mette soggezione. Se si ha un po’ di mestiere risulta gestibile, anzi, la sua bella schiena aiuta a far girare la moto di sovrasterzo. Grazie al lungo interasse, però, il traverso si innesca sempre con morbidezza, non scappa improvvisamente e lo si controlla con relativa facilità.
Le mappe più tranquille presentano una differenza sensibile e diventano utili quando si è a corto di energie o se si guida su terreni compatti e scivolosi; sulla sabbia, verosimilmente, si preferisce la potenza piena. La rapportatura del cambio è adeguata agli spazi aperti che si trovano in Africa, nel nostro percorso abbiamo girato solamente in seconda, con al limite qualche puntata in terza.
Di controlli elettronici qui nemmeno l’ombra, tutto è stato rimosso per semplificare al massimo e sono state lasciate o aggiunte solo funzionalità davvero essenziali. Se si sente il bisogno di un controllo di trazione sarà bene allenare il proprio piede destro a lavorare a dovere sul pedale del freno posteriore. Poco da dire sui freni, sulla sabbia si usano poco o niente, si sfiora giusto il posteriore quando si vuole rallentare, al resto ci pensa il terreno molle e “legante”.