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Top & Flop: i gioielli e i modelli meno riusciti della storia Suzuki

Carlo Pettinato il 23/08/2024 in Moto & Scooter
Top & Flop: i gioielli e i modelli meno riusciti della storia Suzuki
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Dalle leggendarie GSX-R alla sfortunata Gladius 650, tentativo mal riuscito di sostituire la SV, passando per l’immortale V-Strom e l’improbabile B-King. Ecco la nostra selezione delle moto più e meno azzeccate uscite dagli stabilimenti di Hamamatsu

Concretezza, leggerezza, prestazioni reali: nella sua storia, Suzuki ha saputo raccogliere in tutto il mondo schiere di fedelissimi appassionati grazie alla totale fedeltà alla sua filosofia. Un'azienda dalla forte connotazione tecnica, che soprattutto negli Anni 80 e 90 fu sinonimo di sportività con le pluricilindriche 2 tempi RG e le 4 cilindri GSX-R, ma che anche nella storia recente ha sfornato grandi successi.

Questo è il periodo che analizziamo nella puntata odierna della nostra rubrica Top & Flop, a partire proprio dalla nascita di una sigla che sarebbe diventata leggendaria: GSX-R. Balziamo poi agli anni 2000 con un’altra supersportiva che ha lasciato il segno, la GSX-R 1000 K5, poi con una crossover media particolarmente longeva, ma anche qualche fallimento bruciante che vi lasciamo scoprire.

Insomma, un po’ per tutti i gusti. Ecco la nostra selezione delle moto migliori e peggiori progettate in casa Suzuki.

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I MODELLI TOP DI CASA SUZUKI

Tra le punte di diamante di casa Suzuki non si può non menzionare la stirpe GSX-R, che ha raccolto l'impegnativa eredità delle RG Gamma 250 e 500 2T portando le sportive di Hamamatsu nel nuovo millennio. Nata nell’84 con la 750 che è di fatto la prima vera Superbike stradale, assieme alla potentissima 1100 raffreddata ad aria e olio, si è evoluta passando per la "SRAD" con prese dinamiche di fine Anni 90 e poi per la micidiale 1000 K5, vincitrice del Mondiale Superbike e il cui motore resta tutt'oggi al centro della gamma Suzuki. Ma non solo supersportive, perché merita il podio la versatile e longeva enduro stradale V-Strom 650, arrivata nel 2004 e tutt’oggi in produzione senza veri stravolgimenti. 

<div class='descrGalleryTitle'>GSX-R 750</div><div class='descrGalleryText'><p>Se si pensa ad un <b>modello simbolico della storia Suzuki</b>, alla fine è difficile che non sia la GSX-R 750. È considerata la prima moto supersportiva del marchio, e più in generale <b>la prima supersportiva moderna. </b>Con lei&nbsp;inizia la leggendaria stirpe delle GSX-R. La prima generazione nacque nel 1984: quattro cilindri in linea <b>raffreddato ad aria e olio da 100 cavalli</b>, telaio doppia culla alta in alluminio, impianto frenante con doppio disco anteriore. Numerosi aggiornamenti negli anni successivi, anche importanti, tra cui <b>un nuovo telaio e un motore rivisto</b>, aprirono la strada ad una moto tutta nuova per il 1992: la seconda generazione di GSX-R 750 vide l’introduzione del raffreddamento a liquido, assieme ad una ciclistica e ad un’estetica completamente riviste. Ma è del 1996 la GSX-R più amata dagli appassionati, <b>l’indimenticata SRAD</b>. Acronimo di Suzuki Ram Air Direct, lo SRAD altro non era che un sistema di alimentazione disegnato per aumentare la velocità d’ingresso dell’aria nell’airbox, e ottenere maggiore potenza. La filante SRAD ottenne discreti risultati sportivi in Superbike: con Pierfrancesco Chili, nel 2000 fu quarta in campionato. Pur non uscendo dal listino, nel nuovo millennio la 750 <b>ha perso prestigio in favore della 1000</b>, in produzione dal 2001 e dal 2003 ammessa in SBK.</p>
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GSX-R 750

Se si pensa ad un modello simbolico della storia Suzuki, alla fine è difficile che non sia la GSX-R 750. È considerata la prima moto supersportiva del marchio, e più in generale la prima supersportiva moderna. Con lei inizia la leggendaria stirpe delle GSX-R. La prima generazione nacque nel 1984: quattro cilindri in linea raffreddato ad aria e olio da 100 cavalli, telaio doppia culla alta in alluminio, impianto frenante con doppio disco anteriore. Numerosi aggiornamenti negli anni successivi, anche importanti, tra cui un nuovo telaio e un motore rivisto, aprirono la strada ad una moto tutta nuova per il 1992: la seconda generazione di GSX-R 750 vide l’introduzione del raffreddamento a liquido, assieme ad una ciclistica e ad un’estetica completamente riviste. Ma è del 1996 la GSX-R più amata dagli appassionati, l’indimenticata SRAD. Acronimo di Suzuki Ram Air Direct, lo SRAD altro non era che un sistema di alimentazione disegnato per aumentare la velocità d’ingresso dell’aria nell’airbox, e ottenere maggiore potenza. La filante SRAD ottenne discreti risultati sportivi in Superbike: con Pierfrancesco Chili, nel 2000 fu quarta in campionato. Pur non uscendo dal listino, nel nuovo millennio la 750 ha perso prestigio in favore della 1000, in produzione dal 2001 e dal 2003 ammessa in SBK.

<div class='descrGalleryTitle'>V-Strom 650</div><div class='descrGalleryText'><p>Nata nel 2004, è uno dei rari casi di motocicletta che dopo vent’anni è ancora <b>equipaggiata con lo stesso motore</b>, pur debitamente aggiornato per far fronte alle normative antinquinamento. La V-Strom 650, sorella minore della 1000 arrivata due anni prima, era ed è spinta dal riuscitissimo <b>bicilindrico a V da 645 cc </b>che nella versione odierna eroga 70 cavalli e 62 Nm inserito in un telaio perimetrale in alluminio. Un progetto così longevo può significare solo due cose: funziona davvero bene, e ai tempi era piuttosto avanti. La V-Strom 650 sta inoltre vivendo oggi una seconda giovinezza: in un periodo storico estremamente <b>favorevole per le maxi enduro e le crossover</b>, lei c’era già in tempi non sospetti e si è fatta se non altro trovare prontissima e iper collaudata. Anche se rimasta oggettivamente ferma a un’estetica che non viene aggiornata dal 2017 e a componenti come la forcella a steli tradizionali o il cruscotto analogico, <b>la V-Strom 650 è sempre una grande viaggiatrice</b>. La versione standard con ruote in lega è affiancata dalla XT, con cerchi sempre da 19 e 17” ma a raggi e tubeless, sicuramente preferibili se si strizza l’occhio alle divagazioni su sterrato. Il suo limite è il peso, oltre 210 kg in ordine di marcia.</p>
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V-Strom 650

Nata nel 2004, è uno dei rari casi di motocicletta che dopo vent’anni è ancora equipaggiata con lo stesso motore, pur debitamente aggiornato per far fronte alle normative antinquinamento. La V-Strom 650, sorella minore della 1000 arrivata due anni prima, era ed è spinta dal riuscitissimo bicilindrico a V da 645 cc che nella versione odierna eroga 70 cavalli e 62 Nm inserito in un telaio perimetrale in alluminio. Un progetto così longevo può significare solo due cose: funziona davvero bene, e ai tempi era piuttosto avanti. La V-Strom 650 sta inoltre vivendo oggi una seconda giovinezza: in un periodo storico estremamente favorevole per le maxi enduro e le crossover, lei c’era già in tempi non sospetti e si è fatta se non altro trovare prontissima e iper collaudata. Anche se rimasta oggettivamente ferma a un’estetica che non viene aggiornata dal 2017 e a componenti come la forcella a steli tradizionali o il cruscotto analogico, la V-Strom 650 è sempre una grande viaggiatrice. La versione standard con ruote in lega è affiancata dalla XT, con cerchi sempre da 19 e 17” ma a raggi e tubeless, sicuramente preferibili se si strizza l’occhio alle divagazioni su sterrato. Il suo limite è il peso, oltre 210 kg in ordine di marcia.

<div class='descrGalleryTitle'>GSX-R 1000 K5</div><div class='descrGalleryText'><p><b>180 cavalli per 166 kg</b>. Due dati che da soli bastano a classificare la Gixxer modello 2005, da cui la sigla K5, come una superbike dirompente che ambiva, per stessa ammissione dei vertici Suzuki, <b>ad alzare l’asticella prestazionale</b> in tema di supersportive. La K5 era tutta nuova già a partire dalla veste estetica, completamente ridisegnata rispetto al modello del biennio 2003-2004. La resa dinamica dell’intero pacchetto era poi eccellente: come da tradizione Suzuki, la GSX-R 2005 sfoggiava una <b>leggerezza da primato</b>, addirittura superiore a quella della sorella da 750 cc, con un avantreno comunque stabile e precisissimo e un assetto davvero consistente senza risultare troppo rigido. La parte del leone la faceva in ogni caso il motore, pieno e godibile a tutte le andature se tenuto entro i 10.000 giri, <b>una furia devastante</b> superata questa soglia e fino ai 13.500, quando il precedente modello murava attorno ai 12.000. La GSX-R 1000 K5 portò in casa Suzuki anche importanti soddisfazioni sportive, che con i modelli precedenti non erano nemmeno mai state avvicinate: <b>nel 2005 trionfò nel Mondiale Superbike</b> piloti con Troy Corser.</p>
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GSX-R 1000 K5

180 cavalli per 166 kg. Due dati che da soli bastano a classificare la Gixxer modello 2005, da cui la sigla K5, come una superbike dirompente che ambiva, per stessa ammissione dei vertici Suzuki, ad alzare l’asticella prestazionale in tema di supersportive. La K5 era tutta nuova già a partire dalla veste estetica, completamente ridisegnata rispetto al modello del biennio 2003-2004. La resa dinamica dell’intero pacchetto era poi eccellente: come da tradizione Suzuki, la GSX-R 2005 sfoggiava una leggerezza da primato, addirittura superiore a quella della sorella da 750 cc, con un avantreno comunque stabile e precisissimo e un assetto davvero consistente senza risultare troppo rigido. La parte del leone la faceva in ogni caso il motore, pieno e godibile a tutte le andature se tenuto entro i 10.000 giri, una furia devastante superata questa soglia e fino ai 13.500, quando il precedente modello murava attorno ai 12.000. La GSX-R 1000 K5 portò in casa Suzuki anche importanti soddisfazioni sportive, che con i modelli precedenti non erano nemmeno mai state avvicinate: nel 2005 trionfò nel Mondiale Superbike piloti con Troy Corser.

… E I FLOP DEL MARCHIO GIAPPONESE

Da contraltare alle mitiche GSX-R e V-Strom fanno moto e scooter quasi dimenticati, tentativi anche legittimi di innovare o di dare una scossa al mercato. La Gladius avrebbe voluto sostituire la SV 650, il Sixteen tentò di spodestare sua maestà SH. E poi l’eccentrica B-King.

<div class='descrGalleryTitle'>Gladius 650</div><div class='descrGalleryText'><p>Fu il maldestro tentativo, una quindicina di anni fa, di <b>dare seguito all’apprezzata SV 650</b>, svecchiandola nelle forme ma non nel contenuto. La Gladius 650 era, meccanicamente parlando, un modello aggiornato di SV 650, con nuova ciclistica (telaio in acciaio anziché in alluminio) e motore migliorato, <b>ma anche con estetica rivista... in peggio.</b> Abbandonava il classico fanale tondo della SV in favore di un gruppo ottico vagamente ovoidale e con una protuberanza inferiore. Nuovi anche il serbatoio, le inedite fiancatine ai lati del radiatore e tutto il gruppo sella codone. Con la Gladius, Suzuki <b>tentò di ammorbidire le linee spezzate della SV</b>, ma il pubblico dimostrò di apprezzare maggiormente l’estetica della 650 originale, tanto che dopo qualche anno (la Gladius fu sul mercato dal 2009 al 2015), fece ritorno la SV in una veste coerente con quella con cui era uscita di scena. A livello di piattaforma meccanica, la Gladius e la SV successiva sono sostanzialmente la stessa cosa: il <b>bicilindrico da 645 cc</b> è lo stesso della già citata V-Strom 650, il telaio è un bel traliccio in acciaio abbinato a forcellone scatolato sempre in acciaio e ad una forcella a steli tradizionali. Pur con una dotazione economica, pensata per avere un prezzo aggressivo, SV e Gladius sono motociclette <b>dinamicamente ben riuscite</b>, che animarono anche un monomarca.</p>
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Gladius 650

Fu il maldestro tentativo, una quindicina di anni fa, di dare seguito all’apprezzata SV 650, svecchiandola nelle forme ma non nel contenuto. La Gladius 650 era, meccanicamente parlando, un modello aggiornato di SV 650, con nuova ciclistica (telaio in acciaio anziché in alluminio) e motore migliorato, ma anche con estetica rivista... in peggio. Abbandonava il classico fanale tondo della SV in favore di un gruppo ottico vagamente ovoidale e con una protuberanza inferiore. Nuovi anche il serbatoio, le inedite fiancatine ai lati del radiatore e tutto il gruppo sella codone. Con la Gladius, Suzuki tentò di ammorbidire le linee spezzate della SV, ma il pubblico dimostrò di apprezzare maggiormente l’estetica della 650 originale, tanto che dopo qualche anno (la Gladius fu sul mercato dal 2009 al 2015), fece ritorno la SV in una veste coerente con quella con cui era uscita di scena. A livello di piattaforma meccanica, la Gladius e la SV successiva sono sostanzialmente la stessa cosa: il bicilindrico da 645 cc è lo stesso della già citata V-Strom 650, il telaio è un bel traliccio in acciaio abbinato a forcellone scatolato sempre in acciaio e ad una forcella a steli tradizionali. Pur con una dotazione economica, pensata per avere un prezzo aggressivo, SV e Gladius sono motociclette dinamicamente ben riuscite, che animarono anche un monomarca.

<div class='descrGalleryTitle'>Sixteen</div><div class='descrGalleryText'><p>Arrivò nel 2008 puntando senza mezzi termini a togliere quote di mercato al re di categoria, l’Honda SH. Il Suzuki Sixteen, chiamato così in riferimento alle <b>ruote da 16”</b>, dell’SH era diretto concorrente; era disponibile come 125 e 150 cc e ne replicava le caratteristiche tecniche principali mirando a fare ancora meglio: <b>per gli ingegneri di Hamamatsu, era un punto d'onore. </b>E in effetti il risultato era soddisfacente: il peso di 135 kg era in linea con quello del rivale, l’alimentazione era affidata a un moderno <b style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;">sistema di iniezione</b><span style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;">, le prestazioni erano brillanti sia nell’uso cittadino che in quello extraurbano e l</span><b style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;">’impianto frenante era addirittura superiore,</b> con freno a disco anche posteriore quando l’SH montava un semplice tamburo. Sportiveggiante l’assetto, forse troppo, con una forcella ben sostenuta in frenata ma che per contro risultava poco sensibile su dossi e asperità più pronunciate. <b>Le finiture erano ottime così come l’abitabilità </b>a bordo. Ma per sfidare la corazzata SH, divenuta ormai un fenomeno di costume, non bastava l'eccellenza tecnica: dopo un lustro poco fortunato, <b>il Sixteen uscì di produzione quando Suzuki chiuse lo stabilimento spagnolo </b>dove veniva costruito. Come è chiaro, non si può imputare il fallimento a particolari difetti del mezzo in sé; piuttosto, va osservato come sia difficile, pur con un prodotto valido, <b style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;">contrastare i (pre)giudizi del mercato</b>. Per la serie “Honda SH è una garanzia, perché cercare altro?”</p>
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Sixteen

Arrivò nel 2008 puntando senza mezzi termini a togliere quote di mercato al re di categoria, l’Honda SH. Il Suzuki Sixteen, chiamato così in riferimento alle ruote da 16”, dell’SH era diretto concorrente; era disponibile come 125 e 150 cc e ne replicava le caratteristiche tecniche principali mirando a fare ancora meglio: per gli ingegneri di Hamamatsu, era un punto d'onore. E in effetti il risultato era soddisfacente: il peso di 135 kg era in linea con quello del rivale, l’alimentazione era affidata a un moderno sistema di iniezione, le prestazioni erano brillanti sia nell’uso cittadino che in quello extraurbano e l’impianto frenante era addirittura superiore, con freno a disco anche posteriore quando l’SH montava un semplice tamburo. Sportiveggiante l’assetto, forse troppo, con una forcella ben sostenuta in frenata ma che per contro risultava poco sensibile su dossi e asperità più pronunciate. Le finiture erano ottime così come l’abitabilità a bordo. Ma per sfidare la corazzata SH, divenuta ormai un fenomeno di costume, non bastava l'eccellenza tecnica: dopo un lustro poco fortunato, il Sixteen uscì di produzione quando Suzuki chiuse lo stabilimento spagnolo dove veniva costruito. Come è chiaro, non si può imputare il fallimento a particolari difetti del mezzo in sé; piuttosto, va osservato come sia difficile, pur con un prodotto valido, contrastare i (pre)giudizi del mercato. Per la serie “Honda SH è una garanzia, perché cercare altro?”

<div class='descrGalleryTitle'>B-King</div><div class='descrGalleryText'><p>Nel momento delle prime hypernaked, e <b>sull'onda del mito della Hayabusa, </b>Suzuki fece parlare di sé con la concept B-King presentata al Salone di Tokyo 2001: <b>il 4 cilindri 1340 della Busa di seconda generazione era sovralimentato ed erogava 240 CV: </b>roba da film di fantascienza. Il pubblico impazzì, ma Suzuki ci mise poi 6 anni per presentare le versione di serie: e la versione di serie non era come la si aspettava. Intanto non c'era più il turbo, ma quello ce lo si poteva aspettare. L'estetica però era&nbsp;difficile da digerire, con quelle&nbsp;<b style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;">sovrastrutture sproporzionate</b>, in particolar modo il fanale anteriore e il codone, quest’ultimo abbinato a due terminali oggettivamente fuori misura. Anche senza sovralimentazione le prestazioni del motore non erano in dubbio, <b>183 cavalli e ben 146 Nm di coppia, </b>ma il pacchetto si trovava a fare i conti con un <b style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;">peso di 235 kg a secco</b>, lontano dagli standard di leggerezza Suzuki, e con <b>la totale mancanza di ausili elettronici </b>alla guida. Erano in realtà disponibili due mappature, una delle quali aiutava a calmare il quattro cilindri, ma rimanevano un carattere difficile da trattare e un marcato effetto on-off in prima apertura. Insomma, oltre che sgraziata, la B-King non era <b style="font-size: 0.8125rem; background-color: transparent;">nemmeno una moto così piacevole da guidare</b>, se non per piloti davvero esperti. I due elementi, messi assieme e uniti al prezzo non certo popolare, ne decretarono l’insuccesso commerciale e una vita decisamente breve: la B-King rimase in produzione solamente dal 2007 al 2012.</p>
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B-King

Nel momento delle prime hypernaked, e sull'onda del mito della Hayabusa, Suzuki fece parlare di sé con la concept B-King presentata al Salone di Tokyo 2001: il 4 cilindri 1340 della Busa di seconda generazione era sovralimentato ed erogava 240 CV: roba da film di fantascienza. Il pubblico impazzì, ma Suzuki ci mise poi 6 anni per presentare le versione di serie: e la versione di serie non era come la si aspettava. Intanto non c'era più il turbo, ma quello ce lo si poteva aspettare. L'estetica però era difficile da digerire, con quelle sovrastrutture sproporzionate, in particolar modo il fanale anteriore e il codone, quest’ultimo abbinato a due terminali oggettivamente fuori misura. Anche senza sovralimentazione le prestazioni del motore non erano in dubbio, 183 cavalli e ben 146 Nm di coppia, ma il pacchetto si trovava a fare i conti con un peso di 235 kg a secco, lontano dagli standard di leggerezza Suzuki, e con la totale mancanza di ausili elettronici alla guida. Erano in realtà disponibili due mappature, una delle quali aiutava a calmare il quattro cilindri, ma rimanevano un carattere difficile da trattare e un marcato effetto on-off in prima apertura. Insomma, oltre che sgraziata, la B-King non era nemmeno una moto così piacevole da guidare, se non per piloti davvero esperti. I due elementi, messi assieme e uniti al prezzo non certo popolare, ne decretarono l’insuccesso commerciale e una vita decisamente breve: la B-King rimase in produzione solamente dal 2007 al 2012.

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