Moto & Scooter
Nomi entrati nel mito: ecco come sono nati e cosa significano
Quando una moto passa alla storia, lo fa sempre con il suo nome: spesso originali, a volte più scontati ma sempre mitici, ecco la storia e il significato dei più famosi della storia recente
Gli italiani e gli inglesi amano i nomi propri, ma per qualche decennio la regola è stata imposta dai giapponesi e in misura minore dai tedeschi, due popoli affezionati alle sigle. E così fino all’ultimo scorcio del secolo scorso la tradizione dei nomi si era un po’ persa, finché a partire dalla metà degli Anni 80 viene recuperata con una serie di modelli che entrano nel mito.
Abbiamo privilegiato - con una sola eccezione che vi lasciamo scoprire - i nomi di modelli che esistono ancora, diventati quindi vere e proprie dinastie. Ecco i più importanti.
Africa Twin
Il successo della Transalp e la necessità di ribattere alla BMW R 80 GS convincono Honda ad andare oltre: nella cilindrata, che parte da 650 contro i 600 della Transalp, e nelle dotazioni tecniche, che rendono la XRV 650 molto più “off” rispetto alla sorellina: non a caso è una XR, non una XL. Motore maggiorato e più prestante, ciclistica più orientata al fuoristrada ma soprattutto colori unicamente HRC e un nome che è un tributo alla grande corsa nel deserto.
Un nome che nella sua semplicità si fissa immediatamente nella memoria: Africa Twin, il bicilindrico per l’Africa. Che volere di più? Sarà successo immediato e duraturo, per tanti anni e tante generazioni il riferimento nelle maxienduro e la prima moto, insieme alla BMW GS, a iniziare a rubare clienti alle moto turistiche.
Bonneville
Oggi è una tranquilla classic col motore bicilindrico, ma negli Anni 60 e 70 la “Bonnie” era una vera purosangue, con il meglio della tecnologia Triumph per tirare fuori grandi prestazioni e un nome ripreso dal lago salato di Bonneville, nello Stato statunitense dello Utah, dove Triumph (come del resto altri) ogni tanto provava e spesso riusciva a stabilire nuovi record di velocità. Rinata nel 2001 e declinata in numerose varianti, la Bonneville è uno dei modelli più longevi della Casa inglese: senz’altro nel gradimento.
Brutale
Ducati ha la 916 e la Monster, sigla per la supersportiva e nome per la naked. Forse non è un caso che MV Agusta, negli anni del rilancio e della prima contrapposizione alla ex compagna di Gruppo ormai rivale, scelga una sigla (F4) per la sua supersportiva e un nome per la sua naked.
Brutale, tutto un programma; anche se poi l’erogazione del 4 in linea varesino è più sportiva che brutale – lo diventerà indiscutibilmente negli anni, con la crescita di cilindrata – e lo stile sviluppato dal geniaccio di Tamburini è più sofisticato che maleducato, col faro anteriore allungato come se fosse stirato dalla velocità della corsa e i dettagli impeccabili in qualunque punto della moto. Esposta al Moma come esempio di bel design italiano, ha contribuito a definire MV Agusta come “motorcycle art” e a imporre questa parola italiana nell’immaginario motociclistico di tutto il mondo.
Caballero
Una storia italiana che inizia nel 1968, l’anno delle grandi contestazioni. Tra i giovani si fa largo il desiderio di libertà, la voglia di ribellarsi, di evadere di possedere una motocicletta. A Barzago, in provincia di Lecco, Mario Agrati e Henry Keppel fondano la Fantic Motor. L’azienda guarda subito all’America ma trova successo in Italia con un 50 cc da Regolarità, come si chiamava allora l’Enduro.
Il Caballero arriva al Salone del ciclo e del motociclo di Milano del 1969, con misure da moto grande, tanta luce a terra, parafanghi alti, ruote tassellate. Il prezzo è aggressivo, le campagne pubblicitarie audaci e il nome, che entra direttamente nel mito, pare derivi dal vizio del fumo di Keppel, appassionato delle sigarette olandesi "Caballero".
Duke
Siamo a metà degli Anni 90, nel momento in cui Ducati sta mostrando al mondo come rispondere ai giapponesi. KTM, che si sta risollevando dal fallimento del 1991, decide di mettere le ruote sull’asfalto con un’anti-Monster fatta a modo suo, ovvero una specie di motardona monocilindrica pepatissima, che usa per l’80% componenti delle sue moto da enduro.
Disponibile col motore LC4 in versione da 400 o 600 cc, ruote da 17”, colori arditi (arancio, giallo, nero) e un caratteristico cupolino con due fari, si chiama Duke. Il designer Gerald Kiska aveva optato per il più aggressivo “Terminator” (Honda Dominator, spostati), ma al project manager Wolfgang Felber venne in mente “Duke”, che piacque per i suoi riferimenti al leggendario pilota Geoff Duke (6 volte campione del mondo di Velocità) e per la sua allure nobiliare. Da allora, nel mondo moto, l’accezione della parola “Duke” è un po’ meno regale e un po’ più maleducata.
Fireblade
Qui bisogna spostarsi dall’altra parte dell’Oceano, dove spesso chiamano a modo loro i modelli giapponesi dalle fredde sigle. È il caso della FireBlade, la “lama di fuoco”, come gli americani battezzano subito la CBR900RR uscita dal tavolo da disegno del geniale Tadao Baba (pare che la “B” maiuscola in FireBlade fosse proprio un omaggio al grande progettista).
Leggerissima, cortissima, arrogante nell’aspetto con la carena forata e le fiamme nei colori HRC che la avvolgono, la ‘Blade toglie immediatamente il sonno a una generazione di motociclisti. Verrà seguita da tante evoluzioni e il nome Fireblade resterà inevitabilmente appiccicato alle sportive migliori di casa Honda fino al giorno d’oggi. Ma con la b minuscola, da quando a occuparsene non è più Baba.
Hornet
Con la… pardon, il Monster Ducati inventa la naked sportiva, e Honda ribatte dopo poche stagioni con la Hornet. La ricetta è simile: motore di penultima generazione (là 900 SS ad aria, qua CBR600F ad acqua), telaio e ciclistica semplificati. Honda si spinge ancora più in là nel limare le dotazioni pur di mantenere a un prezzo competitivo il motore 4 in linea bialbero, che grazie anche allo scarico singolo alto dà alla moto una sonorità unica, quella di un calabrone - ancor più sulla prima versione, la 250 sempre a 4 cilindri, nata per il mercato giapponese. Da qui il nome: Hornet, che trova un richiamo sulla paratia anticalore applicata sullo scarico la cui traforatura ricorda l’interno di un alveare.
Leoncino
Il definitivo rilancio di Benelli risale a pochi anni fa: tempi recenti, ma voglia di recuperare il legame col proprio passato. Passata in mani cinesi, l’azienda per qualche anno si limita a proporre repliche di moto asiatiche; poi però rialza la testa, l’R&D e il centro stile tornano a popolarsi e nasce un modello che si riallaccia al passato più brillante dell’azienda riprendendo in modo moderno tanti stilemi, e anche un nome usato fin dagli Anni 50: Leoncino, in omaggio al leone simbolo dell’azienda - ripreso anche nella canonica posizione sul parafango anteriore.
Mito
Ci sarebbero tantissime 125 italiane da ricordare, tra dakariane e supersportive; ma di esse si è persa ogni traccia, e così l’unica per cui facciamo un'eccezione - visto che non ha lasciato discendenti, anzi al momento nemmeno un brand attivo - è la Cagiva Mito. Che quando apparve parve ad alcuni un po’ troppo ambiziosa nel nome, ma che fu effettivamente capace di vincere la sfida del tempo e fissarsi nell’immaginario collettivo come emblema delle bellissime ottavo di litro di quegli anni.
La linea disegnata da Massimo Tamburini superava di slancio quella delle precedenti Freccia C9, C10 e C12, e pur se venduta in versione forzosamente naked nei primi mesi per un ritardo nella consegna delle carene, piacque indistintamente a tutti. Negli stessi mesi gli 883 facevano ballare l’Italia cantando “sei un mito”, e l'identificazione col modello varesino fu immediata. Tuttora molto ricercata dai sedicenni, questa moto un mito lo è ancora oggi.
Ninja
Nome che più giapponese non si può, appropriatissimo per una saga di supersportive, iniziata (come spesso accade per le Case giapponesi) dalla filiale americana con la GPZ900R del 1984, e divenuta celebre in Europa e nel mondo soprattutto con le ZX nate per la SBK e salite nell’olimpo del motorsport grazie anche all’accesissima rivalità con Ducati, partita negli Anni 90 e proseguita per tre decenni da Scott Russell a Jonathan Rea.
Il nome Ninja fa ovviamente riferimento ai misteriosi guerrieri mercenari del periodo feudale giapponese, con la fama di avere poteri semi-magici come l’invisibilità e la capacità di camminare sull’acqua.
Monster
Al Motor Show di Bologna del 1992 Ducati porta la sua prima nuda, originale e piena di personalità fin dal nome. Abituati alle carene e a proporzioni più classiche, gli operai di Borgo Panigale quando vedono passare il prototipo disegnato da Miguel Galluzzi, tutto serbatoio e faro, lo apostrofano “eccolo lì, il Mostro”, che in dialetto bolognese diventa Monster e rimane appiccicato, per una intuizione geniale, a un modello che altrimenti si sarebbe chiamato solamente M 900.
In Francia per un po’ Ducati lo chiama “Monstro”, per mantenere la musicalità della lingua italiana, ma dopo poche stagioni il successo del Monster dilaga, e il nome diventa lo stesso in tutto il mondo – mentre Ducati sottolinea che un modello così maschio va necessariamente declinato al maschile: “il” Monster.
MT
Come MT? Sì, la ammettiamo d'ufficio perché questa sigla non indica la famiglia o la disposizione dei cilindri, ma è l'acronimo di Monster of Torque, Master of Torque, Mega Torque... Sul significato della M c’è a dire il vero un po’ di incertezza, sulla T invece non ci sono dubbi: sta per Torque, coppia. Siamo nel 1999, in piena febbre da supersportive, quando Yamaha decide di tentare una sterzata verso il mondo delle grandi coppie, ficcando un motore da cruiser (rivisto) in una ciclistica sportiva, la reazione è tra lo sconcerto e il batticuore.
La MT-01 risulta divisiva, o la ami o la odi: acclamata come concept, quando arriva (molti anni dopo, nel 2005) non riscuote il successo sperato; ma traccia una rotta, ripresa con enorme successo una decina di anni dopo dalle MT-09, MT-07 ed MT-10, che rendono la serie MT la più venduta di Yamaha e al cuore di tutta la produzione della Casa dei tre diapason.
Panigale
Qui siamo sul versante opposto rispetto al Monster: il versante delle supersportive... e dei nomi femminili. Dopo una lunga serie di sigle di grande successo (851, 888, 916, 996, 998, 999, 1098, 1099), Ducati decide di celebrare la propria città natale anche per spingere sul parallelismo con la Ferrari, che aveva chiamato due suoi modelli "Maranello" e "Fiorano".
Nel 2011 nasce la 1199 Panigale, per tutti la Panigale, probabilmente la sportiva più sexy e iconica dai tempi della 916, con un motore pazzesco (il Testastretta Superquadro) e un nome talmente identificativo che viene mantenuto non solo per la 1299, ma anche per la V4 che ne mantiene le proporzioni stilistiche, ma con una base tecnica e uno stile piuttosto diversi. Oggi è uno dei nomi più celebri del mondo moto.
Speed Triple
Casa dal grande passato, Triumph aveva in gamma una Speed Twin già nel 1938. Il nome stava per "bicilindrico da velocità", perché quella era una sportiva fatta e finita, mossa da un twin parallelo da 500 cc. Ma quando negli Anni 90 John Bloor decide di rilanciare il brand inglese, punta su motori modulari a 3 e 4 cilindri: e il bicilindrico inizialmente non c’è. Le sportive, per di più, ormai sono solo carenate e per quel filone si è già usato il nome Daytona, senz’altro iconico.
Quando (su consiglio del nostro Carlo Talamo) si decide di spogliare la Daytona per fare una naked sportiva, come del resto stanno facendo un po’ tutti, la soluzione per il nome è però bell’e pronta: Speed Triple, che in Italia per due decenni tutti pronunciano tràipol anziché trìpol, ma non cambia la sostanza di una moto che sconvolge le convenzioni ed entra nel cuore degli appassionati col suo animo hooligan e la personalità inedita del primo tre cilindri dell’era moderna. Il "tricilindrico da velocità".
Ténéré
I primi anni della Parigi-Dakar sono una faccenda a tre: BMW, Honda e Yamaha, che con la XT550 e Cyril Neveu vince le prime due edizioni, 1979 e 1980. La XT diventa l’emblema della Dakar degli esordi, in cui le monocilindriche potevano ancora dire la loro, e per celebrarla Yamaha a fine 1982 presenta accanto alla nuova XT600 anche una versione con qualche ritocco a motore e ciclistica e soprattutto un serbatoio maggiorato a 34 litri (contro gli 11,5 della XT600) per renderla più adatta al deserto.
Magari a quello del Ténéré, la parte più meridionale e sabbiosa del Sahara abitata dai Tuareg. Un posto dove a parte i concorrenti della Dakar nessuno in quegli anni va veramente, ma il sogno basta e avanza: la linea e il nome della Ténéré diventano iconici, Yamaha li tiene in vita anche negli anni del declino della Dakar e li rilancia, con grandissimo successo, quando la grande corsa ritrova il suo appeal.
Tesi
Nome mitico, tecnologico eppure semplicissimo nell’idea, perché la ciclistica alternativa della Bimota Tesi nasce proprio dalla tesi di laurea di due studenti in ingegneria dell’Università di Bologna, Pierluigi Marconi e Roberto Ugolini, e trova terreno fertile nella vulcanica Bimota di quegli anni, incline a sperimentare e votata alla ricerca della perfezione ciclistica.
Continuamente sviluppata nonostante la cronica carenza di risorse, negli ultimi anni la Tesi ha trovato una nuova solidità grazie al sostegno di Kawasaki, che ha acquisito la maggioranza di Bimota e rilanciato i modelli dotati di sospensione anteriore a braccio oscillante (la Tesi H2 e la Tera), una soluzione che continua a lasciare tutti a bocca aperta.
Tornado
Fine Anni 90, il successo di Ducati fa sognare gli italiani, anche gli imprenditori. Mentre Moto Morini e Moto Guzzi provano a rivitalizzare la propria gamma, la famiglia Merloni rileva il marchio Benelli e parte da una supersportiva con un inedito motore a 3 cilindri. La chiama Tornado, un po’ perché la T ricorda il numero 3 e un po’ perché l’ingegner Rosa ha pensato di collocare il radiatore sotto il codino, affidando l’estrazione dell’aria a due enormi estrattori nel codone con ventole che il designer Adrian Morton valorizza dipingendole di giallo. Il nome richiama la potenza distruttiva del vento.
Questo nome continua a designare le sportive Benelli, e se non vi sembra abbastanza mitico, bisogna tenere a mente che ha dato origine alla serie di nomi con la "T" che in origine indicavano la gamma a tre cilindri di Pesaro e che ancora oggi sono centrali nell'offerta Benelli. Bellissima l'idea di abbreviare la sigla destinata alla bellissima Tornado Naked Tre (disegnata sempre da Morton) in TNT, come l'esplosivo; peccato che poi la sia stata abbandonata per problemi di copyright. Anche la prima Adventure pesarese avrà una sigla evocativa: TRK, la T per il motore a 3 cilindri e il resto per evocare il mondo del “trekking”.
Transalp
Siamo nel 1986 e Honda è praticamente onnipotente. Vince nella velocità (con la memorabile doppietta 250 e 500 di Freddie Spencer del 1985), nel Supercross (Jonny O’Mara, Ricky Johnson) e alla Dakar (Ciryl Neveu). Ai tantissimi appassionati della grande corsa sulla sabbia offre però la costosa e sgraziata XLV750R o la XL600 Paris-Dakar, variante della tranquilla monocilindrica XL 600 con serbatoio maggiorato. Tutti però sognano alle navi del deserto, le maxi-enduro bicilindriche.
Tokyo sonda il terreno con la XL600V Transalp, in realtà una crossover ante litteram che fin dal nome riporta immediatamente all’Europa, ma che nel contesto di allora appare immediatamente dakariana: carena abbondante e motore bicilindrico, con una originalissima architettura a V di 52° che segna come al solito il distacco dalle concorrenti. Nonostante l’arrivo la stagione successiva della replica legittima della NXR750 ufficiale, la Africa Twin, la più tranquilla e abbordabile Transalp conserva un successo fenomenale ed è giustamente stata riproposta da Honda a grande richiesta.
Tuareg
Nel pieno della febbre del deserto, a metà Anni 80, le dakariane spopolano: poco importa se mosse da improbabili monocilindrici 2T da 125 o addirittura 50 cc. Anche i nomi che richiamano il deserto vanno a ruba: Honda ha già usato Paris-Dakar e Yamaha Ténéré, ma arriveranno anche Sahel (Garelli), Oasis (Fantic) e molti altri. Nel 1986, Aprilia è fra le prime a lanciarsi nel filone con la Tuareg, che fin lì era soltanto il nome di un popolo nomade che vive nel deserto.
La prima serie è soltanto una RX da enduro con il serbatoio maggiorato, ma ben presto la Tuareg prende la sua fisionomia – doppio faro tondo e cupolino raccordato al serbatoio – ed entra nel mito, anche con le versioni 4T di 350 e 600 cc. Bellissime anche le versioni Rally, più potenti e tecniche nella componentistica. Aprilia ha riportato in vita la Tuareg poche stagioni fa con la bicilindrica 660.