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Moto & Scooter

Le 10 moto SPORTIVE più importanti della storia (recente)

Carlo Pettinato
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Dagli anni ’80 ad oggi evoluzioni e rivoluzioni, tecniche e di design, si sono susseguite e hanno portato il motociclismo dove è ora. Ecco le pietre miliari che secondo noi hanno tracciato la strada tra le sportive

Dici moto e pensi a una moto da corsa. Per molti il genere più affascinante, sinonimo di prestazioni, velocità ed emozioni forti. Il motociclista più noto dell’epoca moderna? Valentino Rossi. Il più vincente di sempre? Giacomo Agostini. Tutti piloti da Gran Premio, poco importa che il mercato delle sportive sia moribondo o che il trialista Toni Bou di campionati del mondo ne abbia vinti più di loro due messi assieme… Al di qua delle gare ci sono le moto di serie, in alcuni casi vere e proprio trasposizioni dei modelli che abbiamo potuto ammirare in TV, in molti altri solo ispirate a questi, ma altrettanto affascinanti. Nella storia si sono susseguite evoluzioni e rivoluzioni del modo di intendere la moto. Se negli Anni 80 bastava una forcella a steli rovesciati a destare scalpore, questa oggi è la norma e a farci rizzare i peli sulla schiena ci pensa altro. Tra un’innovazione e l’altra, abbiamo stilato la nostra personale – e sempre discutibile – lista delle 10 sportive più importanti della storia recente. Troppo lungo e complicato risalire agli albori delle due ruote a motore: siamo partiti dalle “youngtimer” degli Anni 80 e abbiamo analizzato a grandi linee i modelli più memorabili per soluzioni tecniche, design o successi sportivi. Ecco la nostra rassegna, in ordine rigorosamente cronologico.
Figlia dei titoli iridati in 500 di Marco Lucchinelli e Franco Uncini, 1981 e 82, la RG 500 Gamma è stata una vera race replica, ed è l’unica due tempi della nostra lista. Dalla moto da GP cui si ispirava prendeva tanto, a cominciare dallo schema del motore e del telaio. Il propulsore è un insolito 4 cilindri in quadrato, quindi con due alberi motore, con un basamento talmente simile a quello della moto da corsa che pare si possano efficacemente installare i gruppi termici da GP. I cavalli erogati dai 498 cc sono ben 95, con alimentazione fornita da quattro carburatori Mikuni da 28 mm e ammissione a disco rotante; la velocità massima dichiarata è dalle parti dei 240 km/h. Una 500 da GP travestita da stradale, sì, ma piuttosto trattabile anche per l’utente normale grazie alle valvole di scarico SAEC (Suzuki Automatic Exhaust Control). La ciclistica è composta da uno snello telaio perimetrale in alluminio, come la moto da gara, una forcella Kayaba tradizionale con steli da 38 mm e sistema anti-dive regolabile e una sospensione posteriore con leveraggio superiore Full-Floater. Il peso complessivo è di 156 kg. La RG 500 Gamma è una pietra miliare nella produzione di serie delle moto sportive proprio per il suo essere stata così vicina alla moto da corsa da cui derivava. Più potente e radicale delle coeve Yamaha RD 500 LC (bellissima ma meno potente e più pesante) e Honda NS400R (con 100 cc in meno e motore a 3 cilindri) aveva anche una ciclistica più indovinata, la raffinata ammissione a disco rotante e una fama da “dura e pura” che la rese immediatamente un’icona.
La nascita della mitologica VFR750R RC 30 seguì in un certo senso un percorso inverso a quello della Suzuki RG Gamma. Lei non era una replica di una moto da corsa, al contrario fu una delle prime, se non la primissima homologation special, ovvero un modello messo in produzione di serie nel numero minimo di esemplari richiesto per rispettare un dato regolamento. In questo caso quello del neonato mondiale Superbike (prima edizione nel 1988) “il Mondiale delle derivate di serie” che richiedeva che ogni moto al via fosse regolarmente in commercio. A dirla tutta, anche la RC 30 derivava, almeno concettualmente, da una moto da corsa: la RVF750 che partecipava al Campionato del Mondo TT-F1. Con essa condivideva numerose scelte progettuali, tra cui il motore V4 con angolo di 90° e le medesime misure vitali di alesaggio e corsa. Il telaio era anche in questo caso un pregiato perimetrale in alluminio e il forcellone uno scultoreo monobraccio. La scheda tecnica riporta 112 cavalli a 11.000 giri/min e un peso di 201 kg in ordine di marcia. Un valore di potenza non strabiliante, inferiore alle rivali Yamaha e Suzuki (120 cavalli dichiarati per entrambe), ma il peso, quello si, era per l’epoca il riferimento e la costruzione era da autentica “race replica”, con tante soluzioni pronto gara come mai si era visto prima. È infatti per la sua immagine e la sua tecnologia che la Honda RC 30 è passata alla storia, oltre ad essere stata la moto che ha conquistato i primi due titoli della storia del Mondiale Superbike. Sia nel 1988 che nell’89 lo statunitense Fred Merkel, ai comandi di una RC 30 non ufficiale ma allestita dal team italiano di Oscar Rumi, batté (di misura) la concorrenza composta da nomi quali Fabrizio Pirovano, Davide Tardozzi, Marco Lucchinelli, Raymond Roche e Stephane Mertens, con le loro Yamaha FZ750R, Bimota YB4 e Ducati 851.
Sono anni in cui il progresso tecnico e prestazionale è rapidissimo. Nel 1986 il mondo conosce la prima Yamaha FZR 1000, una maxi sportiva nata con l’obiettivo di battere, commercialmente, l’affermata Suzuki GSX-R 1100. La moto di Hamamatsu era arrivata sul mercato solo una stagione prima, ma in effetti al cospetto della FZR sembrava già vecchia, complici le linee più ispirate ai primi anni ’80 e alcune soluzioni come il raffreddamento del motore misto aria-olio o il telaio a doppio trave superiore. La Yamaha FZR fa il pieno di tecnologia per surclassare la rivale: motore “Genesis” inclinato di 45° in avanti e con distribuzione a 5 valvole per cilindro, telaio Deltabox e altre amenità. Il confronto dei numeri è impietoso: 135 CV contro i 116 della Gixxer e 204 kg a secco contro 215. Almeno sulla carta, l’impostazione della FZR è ben più racing e prende spunto dalle moto che corrono nel mondiale endurance (la SBK è in quegli anni riservata alle 4 cilindri 750). Il successo di vendite sarà buono nel biennio ’87-’88, tuttavia le prestazioni effettive si rivelano inferiori a quanto dichiarato e anche la ciclistica non è del tutto all’altezza delle aspettative. La Suzuki, insomma, è meno indietro del previsto e continua a vendere di più. Yamaha decide di correre ai ripari e già nel 1989 arriva un modello profondamente rivisto: la FZR 1000 EXUP. Non è solo un aggiornamento, la moto cambia sotto ogni aspetto, e migliora. Il telaio è più rigido e vengono variate le quote, l’angolo di sterzo è più aperto ma l’interasse è minore e si cerca una maggior compattezza complessiva. La novità più altisonante è comunque la valvola allo scarico Ex-Up, la prima su un motore a 4 tempi (Yamaha era già stata la prima a introdurla sul 2T con il sistema YPVS). Anche la Ex-Up lavorava sulle onde di pressione, e pur con un impatto minore rispetto alla YPVS, mirava a incrementare la coppia ai medi regimi. Anche stavolta il progresso è inferiore alle dichiarazioni, ma comunque sostanziale: ci sono 10 CV in più e più coppia; cresce anche il peso, di 5 kg. Alla prova pratica comunque si trovano una miglior distribuzione dei pesi e maggiore precisione in impostazione di curva. Le sospensioni sono a punto e il motore ha effettivamente un tiro sensibilmente accresciuto. Soprattutto, la FZR1000 Ex-Up è decisamente bella, e segna un nuovo punto di riferimento per gli sportivi.
Figlia del celebre ingegnere Tadao Baba (pare che proprio in suo onore fino al 2003 il nome si sia scritto FireBlade con la B maiuscola) la prima Honda CBR900RR nacque, tanto per cambiare, con l’obiettivo di rivoluzionare il mercato delle moto sportive di grossa cilindrata. Le più racing erano al tempo tutte di 750 cc, il limite imposto alle 4 cilindri dal regolamento Superbike. Tutto sommato quei 750 cc rappresentavano anche il giusto compromesso tra prestazioni, peso e ingombri. La prima FireBlade avrebbe dovuto inizialmente essere anche lei una 750 cc e prendere il posto della RC 30; poi però si decise di mantenere il motore V4 per la SBK, e quando partì lo sviluppo della futura RVF750R RC 45, l’ingegner Baba ebbe carta bianca per realizzare la sua CBR – motore 4 in linea – con una anomala cilindrata di 893 cc, a metà strada tra le 750 da SBK e le maxi da 1.000 o 1.100 cc. La nuova FireBlade doveva coniugare il meglio dei due mondi: l’agilità delle “piccole” 750 e la potenza dei motori da litro. E ci riuscì, grazie a un rapporto potenza/peso migliore rispetto alla gran parte della concorrenza: 125 cavalli per 198 kg con il pieno (vedete sopra il dato della Yamaha FZR 1000: oltre 204 kg a secco). La componentistica era di alto livello e una particolarità la si riscontra nel telaio in alluminio, con travi estruse saldate a piastre e canotto frutto di fusione, e nel forcellone con capriata superiore d’irrigidimento. Proprio la ciclistica, nelle prove dell’epoca, mostrò un nuovo livello in particolare per la maneggevolezza, paragonabile a quella di moto di cilindrata inferiore e in certi frangenti persino eccessiva, per effetto della atipica ruota anteriore da 16”. Anche il motore era al top, pronto e potente a tutti i regimi. Della prima FireBlade fu notevole anche la veste estetica, rimasta nel cuore di tanti appassionati e affascinante ancora oggi. Il frontale ricordava quello della zia RC 30, con i due fanaloni tondi, ma ai lati di questi e sul sotto carena erano presenti zone forate come si erano viste solo sulle moto da corsa. Storica anche la grafica fiammeggiante, con graffi rossi e blu/viola su fondo bianco.
La Ducati 916 non dovrebbe aver bisogno di presentazioni, ma eccoci qui. Questa rassegna è in ordine puramente cronologico, ma se fosse una vera classifica è probabile che sarebbe prima tra tutte. La creatura disegnata da Massimo Tamburini e Sergio Robbiano si vide ufficialmente per la prima volta a EICMA 1993 e sconvolse il mondo del motociclismo. Nel 1994 vinse tutti i premi disponibili per la “moto dell’anno” e tracciò una linea netta tra ciò che era stato prima e ciò che sarebbe stato dopo. Il primo elemento a colpire era evidentemente l’aspetto estetico. La sua linea senza precedenti, affilata e snella al punto da farla sembrare una 250, faceva di colpo invecchiare tutte le rivali, che apparvero gonfie e tradizionali. Era nuova in tutto, dal doppio faro sottile anziché tondo al forcellone monobraccio e allo scarico con i due terminali sotto il codone (già visti sulla Honda NR750, che era però poco meno di un prototipo). Un design che ha fatto epoca, talmente avanzato da rimanere attuale per anni, fino alle porte del nuovo millennio quando la nipote 998 fu sostituita dalla discussa 999. Sul piano tecnico la 916 era meno rivoluzionaria che su quello estetico, ma in ogni caso era un prodotto di alto livello, con la compattezza e la maniacale cura del dettaglio tipiche di Tamburini. Il motore era un’evoluzione del bicilindrico a L alimentato a iniezione della 888 portato a 916 cc e che arrivava a 114 cavalli, comunque meno rispetto a una 750 giapponese dell’epoca. La distribuzione era naturalmente desmodromica e la frizione era a secco. Il telaio era il fidato traliccio in tubi d’acciaio che prevedeva la possibilità di regolare l’apertura dell’angolo del canotto di sterzo per adattare la guida alle esigenze e all’uso. Oltre alla bellezza, la 916 divenne un'icona per quanto vinse. Lei e le sue eredi fecero strage nel Campionato del Mondo Superbike fu il terreno, dove tra il 1994 e 2002 si aggiudicarono 6 titoli iridati con ai comandi piloti leggendari come Carl Fogarty (4), Troy Corser (1) e Troy Bayliss (1). Nello stesso periodo, agli avversari, Kawasaki e Honda, rimasero poco più che le briciole, con il successo della RVF 750 R nel ’97 con Kocinski e quelli della VTR nel 2000 e 2002 con Edwards. Proprio le vittorie della Honda VTR hanno comunque un legame di sangue con la 916-996-998: per tornare a vincere, Honda dovette “copiare” la soluzione di Ducati e scese in pista con un bicilindrico a V di 90°.
Qualche anno dopo lo sconvolgimento dettato dall’arrivo della 916, fu Iwata a voltare pagina con la prima, storica, YZF-R1, accompagnata lo stesso anno dalla sorellina R6. Entrambi i modelli, ma soprattutto la R1, portavano in dote prima di tutto una presenza scenica senza precedenti, soprattutto se paragonate alle altre giapponesi. Radicale e sportiva senza compromessi, la linea della prima R1 è ancora attuale a quasi trent’anni di distanza: filante, affilata e aggressiva, avanti anni luce rispetto alla mesta Thunder Ace che la precedette, ma anche alla CBR FireBlade dello stesso anno o alle coeve Ninja e GSX-R. Il telaio era un nuovo Deltabox in alluminio, il forcellone era sempre in alluminio con capriata superiore di irrigidimento, la forcella era un’unità rovesciata con steli da 41 mm di diametro e l’impianto frenante contava su dischi da 298 mm. Ma il cuore del progetto era un motore come non se ne erano mai visti. Non tanto per la distribuzione a 5 valvole per cilindro e il motore con valvola EXUP allo scarico e alimentazione in capo ai classici carburatori, quanto per l’inedita architettura. L’albero motore e i due alberi del cambio non erano posizionati sullo stesso piano, ma disposti su tre assi diversi, con il primario del cambio rialzato rispetto agli altri due; ciò permetteva di ottenere un insieme nettamente più compatto, col motore più corto e il forcellone più lungo a parità di interasse, a tutto vantaggio della trazione. La scheda tecnica riporta una spaventosa potenza di 150 cavalli a 10.000 giri e una coppia di 108 Nm a 8.500 giri; uniti ad un peso di 205 kg in ordine di marcia, questi dati rendevano la R1 un vero missile. Pur non potendo con i regolamenti dell’epoca partecipare in Superbike (per quello Yamaha sfornò l’anno successivo la R7), la Yamaha R1 diede nuova linfa vitale al segmento delle 1.000 cc a quattro cilindri. Un po’ come la FireBlade sei anni prima, segnò un nuovo riferimento in quanto a prestazioni complessive, che riuscivano ad unire un tiro poderoso a una maneggevolezza e leggerezza sino allora sconosciute.
L’EICMA del 1997 fu un’edizione caldissima per gli appassionati di sportive. A fianco alla clamorosa Yamaha R1 furono presentate anche la bella Aprilia RSV Mille e, soprattutto, la MV Agusta F4 Serie Oro, un’altra motocicletta destinata a lasciare un solco nella storia. Anche lei figlia di Massimo Tamburini, la F4 fu l’arma del rilancio del marchio varesino dopo molti anni di oblio. La MV F4 Serie Oro, edizione limitata con parti in magnesio e titanio che anticipava la versione di serie dell'anno successivo, è un perfetto esempio di stile italiano immortale, al pari della 916 svelata pochi anni prima. L’odierna F3 che riprende ancora lo stesso design, con solo qualche ritocco, è perfettamente attuale. La linea con carene estese e perfettamente raccordate, il doppio faro sovrapposto a diamante, lo scarico a canne d’organo, il telaio misto traliccio-alluminio sono tutti colpi di genio postmoderno e insieme richiami alla classicità, così come la livrea rosso e argento ripresa direttamente dalle moto da gara dei tempi d’oro, quelli di Agostini e dei suoi mondiali. La genesi della F4 è probabilmente la parte più interessante. Il primissimo prototipo del motore fu sviluppato dalla Ferrari (ecco il motivo della F nel nome, 4 è il numero di cilindri) su commissione di Claudio Castiglioni, e cominciò a circolare già negli anni ’80. Adottava soluzioni come le valvole radiali usate in F1, e come esempio era stato preso un motore Yamaha 20 valvole. I primi due esemplari furono consegnati a Ducati, dove il progetto fu bloccato e sbloccato a più riprese, tra variazioni di cilindrata e modifiche di ogni genere. Dal 1993 fu finalmente incastonato in una serie di muletti che avevano le sembianze prima di una Ducati 888 e poi di una Cagiva C594 da GP, e in quello stesso periodo tutto il progetto passò di mano: da Ducati a Cagiva. Ancora una volta il propulsore F4 fu pesantemente rivisto per tanti motivi, tra cui una decisa riduzione degli ingombri pretesa da Tamburini. Del primo test in pista si occupò infine Pierfrancesco Chili, che però diede responso piuttosto negativo soprattutto sul carattere del motore, vuoto in basso e decisamente troppo appuntito in alto. Il progetto fu dunque messo in stand-by. Qualche anno più tardi, quando il programma Cagiva 500 GP fu archiviato e il gruppo acquistò il marchio MV Agusta, si decise di tirar fuori il quattro cilindri dal cassetto e di trasformarlo, con le dovute migliorie, nel gioiello che avrebbe dato nuova vita all’azienda. Di lì a breve la presentazione di quella che sarebbe poi stata definita come la moto più bella al mondo.
193 cavalli a 13.000 giri: fu così che la BMW S 1000 RR si presentò al mondo. Una sportiva tutta nuova che sanciva l’ingresso del marchio bavarese nel mondo delle superbike stradali con un progetto finalmente “convenzionale”, dopo anni di bislacche sportive “alla tedesca” con motori boxer o trasversali e ciclistiche alternative. Stavolta BMW puntò solo alle prestazioni: ciclistica alla giapponese e motore sviluppato con la consulenza del suo reparto F1, con una radicale distribuzione a levette oscillanti. Il risultato fu una moto strepitosa, ultra performante e che restava eccentrica solo nell’aspetto. Ha fatto storia la linea asimmetrica, coi fanali anteriori diversi (uno tondeggiante e l’altro più affilato) e le aggressivissime “branchie” sulla carenatura presenti solo sul lato destro, oltre al fanale posteriore che sembrava fare le corna a chi seguiva... Ma non sono stati il pur impressionante riscontro del banco prova, il peso di 184 kg a secco o l’insolito design a porre la S 1000 RR come pietra miliare nel mondo delle moto supersportive. Dopo 10 anni in cui nun succede nulla di veramente nuovo nel settore se non affinamenti dei progetti avviati a fine Anni 90, lei è la prima a fare ampio uso di aiuti elettronici alla guida, con effetti tangibili su sicurezza attiva e performance. Il lancio stampa di questo modello resta famoso per essere il primo nel quale nemmeno uno degli scalpitanti tester accorsi da tutta Europa è incappato in una scivolata. Questo grazie al corredo con quattro diverse mappe motore, il controllo di trazione, l’anti impennata, il quickshifter a salire e l’ABS multi-mappa. Nella nostra prova di allora si spiega bene la differenza tra le mappe: la Rain taglia la potenza a 150 cavalli e imposta un ABS conservativo, in Sport e Race la potenza è al 100% e l’intervento dell’ABS si riduce progressivamente, in Slick la potenza è piena, l’ABS si disattiva al posteriore e anche l’anti impennata diventa meno invasivo. La ciclistica, che definivamo come “sopraffina”, forse non era bella come quella di una Aprilia RSV4; ma il pacchetto S 1000 RR si rifaceva con gli interessi quando nell’equazione si inseriva la sua spaventosa cavalleria. La bontà della moto di serie la rese protagonista di tutte le comparative e una fra le supersportive più vendute in assoluto, ma purtroppo non ebbe mai altrettanto successo nel mondiale Superbike, dove pure BMW si impegnò ufficialmente fino al 2013. La S 1000 RR SBK raccolse diversi podi e vittorie, nel 2012 arrivò a giocarsi il titolo con Marco Melandri alla guida, che quell’anno vinse 6 manche ma verso fine stagione si infortunò e al termine fu terzo a meno di 30 punti dal vincitore Max Biaggi.
L’Aprilia RSV4 fu chiamata a raccogliere il testimone della bicilindrica RSV 1000, in produzione ormai da un decennio. La V-twin motorizzata Rotax era stata evoluta nel tempo, aveva vinto tanto ed era diventata un’icona, ma per tornare protagonisti in Superbike era ormai indispensabile ricorrere a un propulsore a 4 cilindri e Aprilia, meno legata di Ducati allo schema V2, fece il grande passo già nel 2009. Il progetto del motore era stato affidato all’ingegner Claudio Lombardi, già padre negli Anni 80 del leggendario 4 cilindri della Lancia Delta S4 a sovralimentazione mista, con compressore volumetrico e turbo. Il neonato V4 sarebbe stato, appunto, un progetto fatto e finito in casa Aprilia, il primo se parliamo di motori a 4 tempi visto che sino a quel punto Aprilia non costruiva motori ma li acquistava da altri, come il menzionato Rotax delle RSV, il Suzuki della RS 250 o il Piaggio di qualche scooter. Con la RSV4 ci fu la possibilità, per la prima volta, di far nascere e crescere assieme motore e ciclistica. E questa possibilità fo sfruttata a fondo. Lombardi ricorda “mai i motoristi avevano avuto tanti vincoli dai telaisti”, arrivando a sacrificare la prestazione massima rispetto ai vantaggi della compattezza e della integrazione nel telaio. Il motore Aprilia aveva una strettissima V di soli 65°, per i quali erano dichiarati (all’inizio un po’ ottimisticamente) 180 CV a 12.500 giri e 115 Nm a 10.000 giri, con un peso a secco di soli 179 kg e una ciclistica “made in Aprilia” con telaio perimetrale e forcellone bibraccio in alluminio come da tradizione di Noale. La moto impressionò subito per il feeling e le sue doti di guida, in particolare la pazzesca agilità. Nelle prime stagioni il motore non aveva la potenza dei giapponesi o del BMW, ma la ciclistica permetteva a chi la sapeva sfruttare di sopperire al gap di cavalli. In ogni caso, l’obiettivo dichiarato del management Piaggio era quello di mettere in produzione una moto di serie che fosse la miglior base possibile per vincere in Superbike: e l’obiettivo fu centrato ben presto. Al debutto in gara, nel 2009 e con Biaggi ai comandi, la RSV4 fu quarta e colse un successo di manche; nel 2010 il romano e la moto veneta dominarono, laureandosi campioni con 10 vittorie e 75 punti di vantaggio sul secondo. Nel 2012 l’accoppiata si ripeté e nel 2013 arrivo il terzo titolo piloti con Sylvain Guintoli. Ancora oggi la RSV4 è un riferimento per le qualità dinamiche.
Era EICMA 2017 quando Ducati mostrò al mondo la moto che avrebbe sancito l’inizio di una nuova era per l’azienda. Dopo essere stata dai tempi che furono sinonimo di bicilindrico a L, per la prima volta su un prodotto di serie (Desmosedici RR esclusa) veniva presentato un propulsore a 4 cilindri. L’esperienza in tema di V4 ormai c’era, grazie ad oltre un decennio di MotoGP, e i tempi erano maturi per una moto tutta nuova che potesse riportare in alto il nome Ducati in Superbike, dove la pur bellissima Panigale non era mai riuscita a vincere un titolo. La nuova arma si chiamava e si chiama Panigale V4, spinta da un propulsore con angolo tra le bancate di 90°, 1.103 cc di cilindrata per 214 cavalli a 13.000 giri e 124 Nm. I punti di contatto con il motore della Desmosedici da MotoGP sono numerosi, come la misura dell’alesaggio di 81 mm, la soluzione dell’albero motore controrotante, utile a diminuire l’inerzia complessiva del veicolo, e i perni biella sfalsati di 70° per ottenere la fasatura irregolare Twin Pulse che ricorda quella di un bicilindrico a V. La ciclistica sfrutta il V4 come elemento portante e si affida ad un telaietto frontale del peso di soli 4 kg. All’avantreno si trova, sulla moto standard prima versione, una forcella Showa da 43 mm, mentre il monoammortizzatore è firmato Sachs. C’è poi l’allestimento S con le più sofisticate sospensioni Öhlins semiattive. I freni si affidano a pinze Brembo Stylema e lavorano su dischi da 330 mm. Il peso a secco è di 175 kg. Sul piano estetico, il frontale e tutte le sovrastrutture mantengono il family feeling Panigale: la parentela con la 1299 è evidente ma il tutto è stato reso ancora più deciso e aggressivo. Quanto alla SBK, dopo un anno di attesa la Panigale V4 debutta nel 2019, perché la base è la V4 R da 998 cc presentata un anno più tardi della standard. Al primo tentativo sembrava che il titolo sarebbe arrivato facile per Alvaro Bautista, dopo tre triplette consecutive a inizio stagione. Qualche passo falso mandò però in crisi Alvaro che alla fine fu sopravanzato ancora da un Rea inarrestabile. Nel 2020 Ducati fu seconda e terza con Redding e Davies, nel 2021 terza con Redding e nel 2022 finalmente arrivò il titolo con Bautista, bissato alla grande nel 2023. 
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