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Moto & Scooter

Nate per STUPIRE: le concept indimenticabili

Redazione
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Futuristiche, uniche, estreme: le concept segnano una discontinuità e tracciano una direzione... oppure sono fatte solo per stupire e farsi notare. Ecco le moto più sperimentali di sempre

Negli Anni 70, 80 e 90 il futuro non faceva paura. C’era anzi tanta voglia di raggiungerlo, lasciarsi alle spalle le bruttezze e le miserie di un passato non troppo lontano. Le Case avevano voglia di strabiliare, e se per farlo servivano idee destinate a rimanere lontane dalla produzione, poco importava. Erano gli anni delle concept, ma concept per davvero. Moto pensate per sperimentare e per stupire, magari tracciare una direzione che sarebbe stata poi seguita, con più miti consigli, dalle moto di grande produzione. Il filone ha avuto un certo successo tra la metà degli Anni 80 e la metà degli Anni 90, poi si è un po’ prosciugato, lasciando posto soprattutto a qualche serie limitata degna di nota. i costi di sviluppo sono cresciuti così tanto che oggi le concept sono di solito prefigurazioni delle moto che arriveranno. Fatte per sondare la reazione della gente, sono le moto su cui si è investito, a meno in pochi dettagli: niente targa e specchietti, grafiche diverse, magari qualche telecamera o pannello TFT in più. Sono concept a basso impatto, che hanno ben poco a che vedere con quelle che vi proponiamo di seguito.
Millenovecentottantacinque: in televisione impazza Supercar, al cinema c’è Tron e Suzuki ha una propositività che oggi farebbe invidia a un costruttore cinese. Al Salone di Tokyo lascia tutti di stucco con la Falcorustyco, nome di sonorità italiana che indica il falco più grande del mondo (sì, l’Hayabusa era evidentemente già nell’aria). Le forme futuribili nascondevano una tecnologia rivoluzionaria a metà: il motore era un classico 4 cilindri 500 raffreddato a liquido, il cui tocco più insolito era la verniciatura in blu; era però usato con funzione portante per le sospensioni, a braccio oscillante sia dietro che davanti dove la sterzatura era affidata a due joystick con controllo idraulico. Anche la trazione era realizzata per via idraulica, e attiva su entrambe le ruote. Le sospensioni erano semiattive, come visto all’epoca solo su alcune top car, e la frenata elettromagnetica, come sui treni. Insomma, un concentrato di tecnologia che anche oggi farebbe stupire, e che avrebbe richiesto una messa a punto lunga e complessa. Non sembra infatti che la Falcorustyco fosse marciante: solo una show bike.
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Sullo slancio della Falcorustyco, nel 1987 Suzuki sempre al Salone di Tokyo presenta la Nuda: altro nome italiano per una moto in realtà vestitissima, ma sicuramente fascinosa. Nel frattempo è esploso il trend delle carene integrali (Honda CBR600F e CBR1000F, Ducati Paso, Bimota DB1) e Suzuki esplora la possibilità di arrivare a inglobare la ruota anteriore, con un risultato che sembra non essere invecchiato di un giorno ancora oggi. La tecnologia è un po’ più convenzionale: il motore è il 4 in linea della GSX-R 750 raffreddato ad aria e olio (forse un po’ in difficoltà, così sigillato dalle plastiche) e scompaiono sterzatura idraulica e freni elettromagnetici, ma le sospensioni diventano entrambe monobraccio e resta la trasmissione integrale, affidata a due alberi (controrotanti essendo orientati uno in avanti e uno indietro). Inoltre la gestione motore è elettronica, con iniezione e mappature motore. La chiave è una tessera magnetica, la strumentazione digitale (spettacolare per i tempi) e la sella segue il movimento laterale del corpo in curva. Anche i fari sono orientabili – cornering diremmo oggi – e insomma la Nuda, a due soli anni di distanza dalla Falcorustyco, è riuscita ad anticipare con molta più precisione le tecnologie che avremmo visto nei decenni successivi.
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Prima di decretare, come diceva il filosofo Occam nella sua teoria del rasoio, che la soluzione più semplice è spesso la migliore, le Case ce ne hanno fatte vedere di tutti i colori. Presentandoci come avveniristiche delle soluzioni che hanno poi dovuto scontrarsi con una realtà fatta di conti e numeri che, comunque, devono forzatamente tornare. Anche se sei una potenza come Yamaha. L’idea alla base del concept Morpho I, nato nel 1989, non era affatto male: una ciclistica in grado di adattarsi al pilota e un sistema di sospensione anteriore separato dalla funzione sterzante. Non era una novità in tutto e per tutto, ci avevano già provato Bimota e Elf-Honda una manciata di anni prima con la sua 500 da GP, ma comunque qualcosa di nuovo per il mass-market. La Morpho si presentò come un vero e proprio concept (anche se equipaggiato con il quattro cilindri derivato dalla FZR 1000), lontano dalla possibilità di produzione e con una linea fin troppo avveniristica. Ma il dado era tratto e alla prima versione del 1989, seguì la Morpho II del 1991. Linea ancora più avveniristica, ma una carenatura avvolgente che anticipava le linee della sport tourer che da lì a poco avrebbe preso davvero la strada produzione: la GTS 1000, con il telaio a omega e il monobraccio davanti. Una turistica dalle indubbie qualità che non ebbe però il successo sperato, pur rimanendo in produzione fino al 1999. In compenso, l’estetica della Morpho II fu in parte ripresa dalla TDM 850, una delle prime crossover di grande successo.
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Qui non parliamo di concept, perché Honda è Honda e vuole sempre dimostrare che le sue idee, anche le più estreme, lei le sa industrializzare. Dopo aver abbandonato il Mondiale 500 e aver provato a rientrare nel 1979 rifiutando il 2T e con un visionario V8 mascherato da V4, con le camere di combustione unite due a due dalla forma allungata, Tokyo getta la spugna in ambito racing ma regala ai collezionisti di tutto il mondo la versione stradale, pur se in edizione limitatissima, della tecnologia “a pistoni ovali”. La NR750 presentata nel 1989 e messa in vendita del 1992 è un vero e proprio laboratorio viaggiante. Su di essa Honda fa debuttare il forcellone monobraccio che era stato riservato alla RC30, l’iniezione elettronica PGM-F1, i radiatori laterali, il doppio scarico alto che verrà ripreso dalla Ducati 916 ma soprattutto il motore, si dice ispirato al V8 della Moto Guzzi ma rivisitato per sembrare un V4. Le due camere di scoppio fuse in forma allungata avevano 8 valvole, 2 candele e 2 bielle: il bilanciamento anche solo meccanico era complicatissimo, per non parlare della fluidodinamica; ma Honda era capace di tutto e voleva ribadirlo. La complessità meccanica aveva portato a un peso di 223 kg a secco, elevato per una 750 giapponese dell’epoca, e la prudenza aveva consigliato di limitare la potenza a 125 CV, anche qui niente di straordinario rispetto alle 4 cilindri jap. La raffinatezza tecnica e costruttiva (la sola vernice speciale costava 50 volte più di una vernice normale) fecero subito capire che la NR750 era destinata a restare unica, e nonostante il prezzo di quasi 100 milioni dell’epoca ci fu la fila per assicurarsene un esemplare.
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Anche in questo caso non stiamo parlando di un concept ma, se volete, di qualcosa di molto, molto, più romantico. La storia della Britten V1000, infatti, ha un che di fiabesco, e leggendario. Innanzitutto, perché fu convincente dal lato delle prestazioni e, anzi, fu per diversi anni protagonista nella combattutissima Battle Of The Twins. In secondo luogo, perché (ed ecco che la storia prende la forma di leggenda) nacque in garage. Ma in garage davvero, fra le mani dell’ingegner John Britten, un sorridente ragazzotto neozelandese che aveva iniziato ad interessarsi di moto poco tempo prima di costruire una delle più incredibili sportive di tutti i tempi. La V1000, di convenzionale, aveva solo il numero delle ruote: due. Il resto era frutto della vulcanica testa di John, a cominciare dal bicilindrico a V di 60° con distribuzione comandata da cinghia dentata, quattro valvole per cilindro, raffreddamento a liquido e radiatore posizionato sotto la sella. Motore con funzione portante, al quale era vincolata la forcella a quadrilatero (in carbonio) e il forcellone (stesso materiale). Il monoammortizzatore era posizionato proprio davanti al propulsore e azionato tramite un complicato sistema di tiranti e leveraggi. Ad incorniciare il tutto, un giro di scarichi che costò, da solo, oltre 60 ore di lavorazione. Motore portante, radiatore sottosella, forcella a quadrilatero… nel 1991! E non nell’antro magico della HRC, ma in un garage della Nuova Zelanda. Test sulle strade davanti casa e debutto in gara, non subito fortunato. Tuttavia, le potenzialità c’erano, a partire dai 170 cavalli sprigionati dal twin made in box. E con gli affinamenti arrivarono anche i successi. Purtroppo, John Britten venne stroncato prematuramente da un brutto male nel 1995, prima di poter festeggiare le numerose vittorie delle sue moto. Le sue idee, considerate tuttora un riferimento, gli sopravvivono, e in questo la V1000 ha seminato più di molte concept. Sopravvivono anche le pochissime V100 realizzate: appena 10, di cui 6 direttamente dalle mani di John e 4 postume, con i ricambi disponibili. Se ne possedete una, chiamateci: la proviamo con piacere.
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Gli appassionati di lunga memoria ricorderanno i primi Anni 90 come un momento di grande riscatto del propulsore monocilindrico. Prima dello straripante arrivo delle motard, erano molti gli appassionati che si cimentavano nella costruzione di moto sportive, da usare in pista, pescando componenti dalle endurone a singolo pistone e dalle sportive, magari 125. Oltre ai Frankenstein nati in cantina da improbabili (ma divertenti e affascinanti) ibridizzazioni che vedevano congiungersi quasi carnalmente Cagiva Mito e Yamaha Ténéré, anche le Case iniziavano a mostrare interesse nel settore. Chi non ricorda la Supermono di Ducati, ad esempio, può serenamente abbandonare questa pagina. La Casa bolognese non fu però la sola ad addentrarsi in questo mondo; Yamaha, ad esempio, affinò l’esperienza fatta con le stradali SR 500 e SR 600 (derivate direttamente dalle più fortunate XT 500 e XT 600) e presentò la più sportiva delle sue mono, la SZR 660. Linee futuristiche, prestazioni a misura di principiante e tanto divertimento. Ebbe poca fortuna, purtroppo. E Honda? Non stette a guardare e in occasione del 31° Tokyo Motor Show presentò una concept che si guadagnò svariati spazi sulle copertine delle riviste di moto, anche qui da noi. Era la Super Mono 644, una sportiva che strizzava l’occhio ai gusti europei e si rifaceva agli stilemi tipici di Ducati e Yamaha (nette le somiglianze con la TRX 850, a sua volta liberamente ispirata alla SS di Borgo Panigale). Il tutto era condito da soluzioni tecniche affascinanti che, probabilmente, contribuirono ad allontanare questo prototipo dalla produzione: telaio in acciaio a traliccio nella parte superiore, monoculla sotto, con il monoammortizzatore vincolato tramite piastre e leveraggi in alluminio nella zona inferiore del monocilindrico RFVC a valvole radiali. E i virtuosismi non finiscono qui: forcellone in tubi (in questo caso alluminio) con regolazione del gioco catena tramite eccentrico e semicarena che lascia scoperto il semplice ma affascinante mono, abbellito da cover lucidate. Per quanto realistica, con tanto di specchi e indicatori di direzione, la 644 fu accantonata fra le belle e (purtroppo) impossibili. Il motore da 644 cc, invece, equipaggiò la poco fortunata (almeno da noi) SLR 650.
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Negli anni più gloriosi della sua rinascita sportiva e commerciale, Ducati non si fa mancare le concept. Anche controcorrente, come la MHe che esplora per la prima volta, e con grande anticipo sui tempi, il filone del rétro, andando a ripescare la leggenda di Mike Hailwood e della sua vittoria al TT del 1978, e affidandosi alla base del “pompone” due valvole ad aria anziché al più moderno Desmoquattro. Presentata come concept nel 1998, a 20 anni da quella vittoria, è stata poi prodotta dal 2000 in soli 2.000 esemplari venduti, per la prima volta, solo su internet. La MH900e vuole celebrare il passato recente di Ducati collegandolo idealmente al presente. Le sinuose linee di Pierre Terblanche lasciano il motore in bella evidenza, e i dettagli come gli specchietti sostituiti da telecamere fanno immediatamente parlare, così come lo splendido monobraccio relalizzato da un traliccio di tubi, che verrà poi ripreso sulla Monster. La versione di serie perde alcune peculiarità come le frecce montate sullo scarico e gli specchietti a telecamera abbinati a un cruscotto con monitor. Anche il disegno delle ruote in lega è leggermente diverso, ma il fascino del modello resta lo stesso, tanto è vero che le vendite online, aperte il 1 gennaio 2000, si chiudono la sera stessa con un clamoroso sold out.
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Si parla di Honda, e anche stavolta non è una concept ma un’edizione limitata, degna però di menzione perché rappresenta la cosa più simile a una MotoGP che sia mai stata prodotta e in un certo senso erede della NR750. Stanca di venir criticata per le sue SBK-replica troppo educate, Honda risponde con un’operazione sulla carta impossibile, perché le MotoGP per regolamento devono essere prototipi privi di legami con la produzione di serie. Come per la NR750, la RC213V-S non strabilia per le prestazioni, quanto per la tecnologia; in questo caso, anche la guida è diversa da quanto le sportive dell’epoca riescono ad offrire, per effetto di un progetto nato per la pista e intrinsecamente estremo. Il motore è un V4 1.000, nato nell’epoca degli 800 per avere prestazioni più vicine al fratello da corsa e ingombri così compatti da poter entrare nello stesso telaio nonostante gli ammennicoli richiesti per l'uso stradale. Per apprezzare davvero la V4 Honda bisogna guardarne i disegni costruttivi, il modo in cui i cilindri sono integrati nel basamento e il basamento nel telaio. Le differenze più importanti rispetto alla RC213V da motoGP sono l’assenza delle valvole a controllo pneumatico e del cambio seamless, improponibili per una moto di serie; ma montando lo Sport Kit si aumentano le prestazioni del motore e del quickshifter, che diventa a cella di carico, si rovescia il cambio e si libera l’elettronica, la stessa della sorella da MotoGP. Un autentico gioiello da godere in pista… o in salotto.
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Ora guardate attentamente le precedenti proposte, in particolare la Morpho (ma troverete qualche assonanza anche nella Britten…). Bene, concept o one-off, lo abbiamo detto, ma con la voglia di portare qualcosa di davvero nuovo nel mondo delle due ruote. Un mondo perlopiù tradizionalista, lo sappiamo, che si muove a gran velocità ma a piccoli passi. Negli ultimi anni abbiamo anche assistito ad una sorta di scomparsa dei concept, che hanno lasciato spazio a quelle che sono vere e proprie anticipazioni delle moto che verranno, con una aderenza alla realtà pressoché totale, al di là delle suppellettili utili all’omologazione (in senso burocratico). Recentemente, solo BMW ha lanciato il sasso un po' più in là, quando ha deciso di mostrarci la sua idea sulla mobilità del futuro a due ruote. Si chiama Vision Next 100 e, chiaramente, si tratta di un prototipo che vuole, contestualmente, confermare i capisaldi della produzione teutonica di questi ultimi 100 anni e, in qualche modo, eternizzarli. Ecco allora che le forme del boxer si trasformano in un’unità motrice a zero emissioni (elettrica), attorniate da linee morbide che richiamano le essenziali moto degli albori della Casa di Monaco nel mondo a due ruote. Nei render la Vision Next 100 è in grado di stare in piedi da sola ed è guidata da una modella senza casco perché le moto del futuro, dicono, avranno il sapore dolceamaro dell’autoderminatezza. Ai posteri l’ardua sentenza ma, visto come è andata finora, non mettiamo limiti al domani, che potrebbe essere più semplice, più vicino e più tradizionalista di quanto pensiamo.
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Infatti nel 2019 BMW torna con una evoluzione della Vision Next 100 che è una presa di posizione meno concettuale sul futuro elettrico della moto (e del moto, se vogliamo…): la DC Roadster. Un concept vero e proprio che, tuttavia, va preso molto sul serio. Potrebbe infatti preannunciare il futuro del boxer o, almeno, una sua nemmeno troppo lontana deriva elettrica. Infatti, se è vero come è vero che ogni 10 anni la Casa tedesca rivoluziona le sue “R” (partendo dalla GS, come la neonata R 1300), la DC Roadster potrebbe anticipare la prossima generazione di maxi, attese alla rivoluzione a batteria attorno al 2035. Ecco allora che i cilindri contrapposti diventano “vezzo” estetico, con una funzionalità secondaria rispetto al moto: sono torrette di raffreddamento della batteria, che prende il posto del basamento. BMW ci sa fare con i concept perché la DC è tanto lontana dalla realtà quanto verosimile e, innegabilmente, perpetuatrice di un fil-rouge che lega tutte le due ruote bavaresi dell’ultimo secolo. Si nota guardando le linee sinuose, evidenziate da una la livrea che ne esalta le proporzioni. Anche dal punto di vista tecnico, i rimandi al passato (o al presente, se preferite) non mancano: su tutti, una rivisitazione dei sistemi Paralever-Telelever in chiave solo parzialmente futurista. Niente sofisticazioni esagerate, ma una meccanica che è parte stressata e sulla quale sono vincolati “normali” elementi ammortizzanti. Ma sono tanti i dettagli che la fanno sembrare una vera e propria anticipazione, svelata con largo anticipo. Una decina d’anni, a volerci credere.
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