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Le incomprese: 12 moto che non hanno raccolto quanto meritavano

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Sottovalutate e poi rivalutate, in anticipo sui tempi o semplicemente sfortunate: ecco le moto che secondo noi hanno raccolto meno di quanto meritassero

Era in anticipo sui tempi e nasceva in un momento aziendale complicato. Con queste premesse, la Gilera Nordwest 600 non poteva che avere la strada in salita, nonostante due genitori fuoriclasse come Federico Martini (tecnica) e Luciano Marabese (design). La progenitrice delle motard stradali fu un vero e proprio esperimento, realizzato sulla base della enduro RC 600 C da cui riprese telaio, forcellone e tutte le plastiche, oltre al monocilindrico bialbero Bi 4 accreditato di 53 CV, il più potente dell’epoca. Sempre per contenere i costi di sviluppo, il parafango anteriore era quello della SP-02 e la forcella rovesciata quella della Saturno 500. Ad hoc i cerchi a tre razze e le inedite Pirelli MT-60RR, stradali ma con un accenno di tassello. L’esperienza per far convivere due ruote da 17” con geometrie da enduro ancora non esisteva, ma ad Arcore riuscirono a trovare la quadra e il risultato fu quello che la Nordwest portava scritto sui fianchetti: “Sound on the road”, perché su strada di moto ne suonò davvero parecchie. Sui passi di montagna sapeva tenersi dietro fior di supersportive e si creò ben presto un alone di leggenda, anche perché in giro nonostante tutto se ne videro poche: in quegli anni una moto sportiva italiana di media cilindrata era un affare da appassionati un po’ alternativi, e nonostante la fama la Nordwest non riuscì a rompere gli schemi dei motociclisti, che non furono convinti da quello strano ibrido tra mondo stradale e mondo off-road. In più finì nel tritacarne della chiusura della fabbrica di Arcore, e relativi progetti, dopo soli tre anni di vita. Si gode oggi, in compenso, una gloria postuma come iniziatrice di un filone piuttosto fortunato.
Già l’idea di chiamarla Junior, nel mondo dei machismo sportivo degli Anni 90, figurarsi; e infatti dalla seconda serie sparì subito la dicitura. Che poi era proprio l’opposto della realtà, perché la SuperSport 350 era letteralmente grande come le sorelle 600, 750 e 900, con le quali condivideva telaio, plastiche, sospensioni (Showa, ma non regolabili), carburatori (Mikuni) e gommatura. Le differenze stavano nel disco singolo anteriore, comunque Brembo, e nel basamento piccolo, in comune con la 600 mentre 750 e 900 avevano quello più grande col radiatore dell'olio. Era rossa, era una Ducati: ma la Ducati del 1992 non era quella di oggi, aveva appena iniziato a vincere in SBK e a porre le basi della propria leggenda; gli smanettoni intanto guardavano soprattutto la 500, dove lei era assente. Poi si vedeva che era fatta con poche risorse, con quella mezza carena (l’intera era riservata alle sorelle maggiori) e quel faro quadrato che sembrava rubato da un cantiere edile. Ma Miguel Galluzzi aveva lavorato bene: linee pulite, frecce integrate, parafango avvolgente e uno dei primi tralicci a vista. Era bicilindrica ad L, era Desmo, e dopo la “cura Mikuni” allungava bene fino a 11.500 giri; la solida ciclistica bolognese la rendeva un’ottima palestra, e con i suoi 42 CV e 180 km/h di velocità massima si difenderebbe bene ancora oggi tra le moto per patenti A2. Allora però la patente A2 non c’era, anzi il vincolo dei 350 cc dai 18 ai 21 anni era caduto da poco e i ragazzi bramavano di saltare quanto prima su una 4 cilindri 600 giapponese, enormemente più performante. Così, anche se tra risparmi ed economie di scala la SS 350 costava meno di una Cagiva Mito 125 (mentre la SS 900 da 73 CV costava come una delle citate 600 giapponesi da oltre 100 CV), alla fine vendette poco, e quel poco quasi tutto all’estero. Oggi resta però un caposaldo della Ducati piccola ma eroica di quel periodo.
Quando batti un giapponese, non è che la prenda benissimo: come minimo, prova a ribattere sul tuo terreno. E così dopo che Ducati aveva dimostrato di poter sconfiggere le quattro cilindri con la sua ricetta bicilindrica, fu tutto un fiorire di V-twin sportivi: Honda con le VTR e Suzuki con le TL, che ebbero entrambe un certo successo. Yamaha invece tirò fuori a sorpresa un twin parallelo che funzionava come un V di 90° (o a L se preferite). Il motore della TRX 850 derivava dal motore nato (con manovelle a 360°) per la Super Ténéré 750 e cresciuto a 850 cc per la TDM, un bialbero 5 valvole per cilindro come Yamaha usava allora. L’altra cosa che la distingueva era di essere, per usare un eufemismo, molto somigliante alla Ducati SS 900: telaio a traliccio, mezza carena, doppio scarico basso, codino corto. E siccome se copi un italiano, non è che la prenda benissimo, in Italia vendette quasi nulla, e poco anche nel resto del mondo. Forse una linea diversa le avrebbe reso più giustizia, perché tecnicamente era azzeccata: meno costosa di una Ducati, più leggera e potente e forte della allora inarrivabile qualità giapponese, funzionava complessivamente meglio di una Supersport… ma aveva ovviamente meno personalità, anche per via del twin parallelo che non è mai stato sexy. La scelta tecnica di Yamaha ha però dato origine al filone dei bicilindrici paralleli fasati a 270°, più compatti e meno ingombranti dei V2 e oggi largamente prevalenti rispetto a questi ultimi. Il manovellismo a 270° è infatti una scelta che, se apparentemente dà origine a scoppi irregolari, consente in realtà di non avere mai i due pistoni contemporaneamente a un punto morto, migliorando la regolarità di funzionamento e riducendo le vibrazioni. E insomma, nonostante l’esperimento TRX sia fallito, la sua eredità comunque vive oggi il suo momento di maggior successo.
Il successo sportivo e commerciale della Ducati 916 scatena un’ondata di fiducia nelle Case europee, che capiscono di poter sfidare le evolutissime quattro cilindri giapponesi con ricette alternative, purché di forte personalità. La prima a provarci è Triumph (seguiranno Benelli e Moto Morini), con la sportiva a tre cilindri Daytona T595 che appare a fine 1996. Il triple a iniezione nella sua versione più sportiva, con pistoni forgiati e cilindrata di 955 cc eroga 130 CV e la ciclistica si basa su un telaio doppio trave in acciaio, abbinato a un bel forcellone monobraccio e a sospensioni regolabili. Un pacchetto decisamente riuscito, che non a caso fa da base alla Speed Triple T509, quella che crea il mito della Speed: via le carene, su il doppio faro e (ma solo sulla prima serie) motore da 895 cc con pistoni fusi e 110 CV. Ma torniamo alla Daytona, figlia di una Triumph giovane e ancora un po’ acerba sul piano tecnico, ma senz’altro di grande eleganza estetica, che le guadagna subito attenzioni. Non leggerissima e poco a suo agio in pista, ma di grande soddisfazione in strada, la Daytona ha una carriera lunga e rispettabile, e nonostante il prezzo piuttosto elevato e la concorrenza della Ducati riesce a trovare estimatori anche in Italia. Per le serie successive Triumph lavora sul piano tecnico, togliendo peso e migliorando l’efficacia, ma perde la magia di quel look così intrigante e la Daytona, anziché crescere commercialmente, perde progressivamente quota fino a spegnersi. Peccato.
A un certo punto, le Case iniziarono ad affiancare alle loro race replica dei modelli meno esasperati, con specifiche tecniche inferiori ma forse ancora più gratificanti su strada. Stranamente questo discorso valeva quasi solo per le due cilindri: Ducati aveva la 916 e la 900 Super Sport, Suzuki la TL 1000 R e la TL 1000 S, Honda la VTR1000SP e la VTR1000F, Aprilia la RSV Mille e la SL 1000 Falco. Che aveva avuto in sorte un nome anche intrigante, e pur non essendo forse sexy da morire era comunque gradevole alla vista, e bellissima da guidare. Con un motore appena depotenziato (118 CV contro 128 CV) e una ciclistica tutta sua – telaio compreso – la Falco aveva i semimanubri 50 mm più alti e la sella 20 mm più bassa rispetto alla RSV. Era una stradale leggera all'italiana: appena 190 kg a secco, una potenza che oggi sarebbe da classe media ma una ciclistica ancora attuale, con tanto di sospensioni regolabili. Poco a suo agio soltanto in pista, su strada fu una delle moto più belle da guidare di quegli anni, probabilmente più efficace della stessa RSV 1000 nella maggior parte delle situazioni. Non ebbe successo perché la formula “la virtù sta nel mezzo”, oggi finalmente compresa, allora era decisamente fuori dal coro e prematura rispetto ai gusti della maggioranza dei motociclisti. E poi non costava poco, anche perché Aprilia scontava ancora lo scarso blasone nelle grosse cilindrate e tra i motori 4T, tanto che la stessa RSV Mille vendette meno delle aspettative nonostante le indubbie qualità. Peccato.
Un’altra Yamaha: del resto Yamaha è forse l’azienda più incline a sperimentare degli ultimi 30 anni e non tutti gli esperimenti, si sa, riescono col buco. O comunque piacciono, perché la ciambella della MT-01 il buco ce l’aveva: ricca di personalità, originalissima nel mettere un enorme V-twin da 1.670 cc in un telaio in alluminio pressofuso, racchiuso tra l’avantreno della R1 e un lunghissimo forcellone pure in stile R1. Erano anni in cui Yamaha voleva rimarcare la sua originalità, cercare strade nuove e il concetto “Monster Torque” (coppia mostruosa) era una di queste: tanta coppia (140 Nm), più che la solita potenza. Lanciata a furor di popolo dopo il successo della concept del 1999, è la dimostrazione che degli umori del popolo è meglio non fidarsi troppo: finì su un binario morto, o meglio rinominato “Master of Torque” (signore della coppia) quando nella famiglia MT iniziarono ad arrivare anche le 125 e le 300, non proprio dei mostri di coppia. La MT-01, invece, aveva un motore tutto per lei: quello della cruiser Warrior, alleggerito però di ben 20 kg e completamente rivisitato – albero motore, bielle, corpi farfallati, airbox, eccetera – per regalarle tutt’altra reattività. Strana da vedere, tutto sommato bella da guidare con quel motore che ti lasciava contare i giri a orecchio, quell’interasse oltre 1.500 mm ma la forcella rovesciata tanto in piedi e il forcellone con capriata, era l’equivalente su due ruote di una “muscle car” americana. Costruita benissimo, costava cara e questo non l’aiutò oltre all’essere, come tutte le altre moto di questa rassegna, fuori dagli schemi consueti. Resta comunque viva nel nome della serie più fortunata di Yamaha, che pesa oggi per l’80% di tutte le moto a tre diapason vendute in Europa.
La madre di tutte le incomprese. Lodatissima da noi giornalisti quando apparve, snobbatissima dal pubblico. Scrambler dieci anni prima della Ducati Scrambler (fu presentata nel 2004) ma senza essere rétro, aveva le ruote a raggi da 18” e un peso di appena 162 kg grazie al motore monocilindrico Yamaha-Minarelli 660 da 47 CV. La ciclistica poteva contare su una forcella rovesciata Marzocchi da 43 mm, un monoammortizzatore laterale ma montato con biellette, dischi Wave dal profilo dentato con pinza e pompa radiali Brembo. Grazie all’interasse cortissimo (1.386 mm) era agilissima nel misto, morbida di sospensioni per l’uso in città e con la capacità, tipicamente scrambler, di avventurarsi lungo qualche sentiero sterrato. Il suo punto forte era la linea, assolutamente originale, che doveva rilanciare Derbi tra le grosse cilindrate: caratterizzata dal grosso scarico e dalle plastiche rastremate dall’andamento orizzontale, era veramente riuscita ma non riuscì a convincere abbastanza persone a scegliere una moto comunque costosetta e di un genere che allora era confinato in un remoto passato, aveva meno versatilità di una enduro e sembrò quasi solo un capriccio da bar: un po’ la stessa sorte che toccò alla Aprilia Motò 6.5.
Parliamo di una moto quasi dimenticata, nonostante già nel 2012 avesse superato (con l’airbox in pressione) la soglia dei 200 CV: come dire, persino in Italia la potenza non è tutto. La serie ZZ-R nacque nel 1990 come moto sportiva (250 e 600 a 4 cilindri), succedendo alla mitica GPZ negli anni delle carenature integrali. Dotata di una sua personalità ma non proprio bellissima, più performante e confortevole delle rivali dirette, si è poi evoluta nel tempo puntando su queste due caratteristiche, sopravvivendo fino ai giorni nostri soprattutto nelle grandi cilindrate, molto amate più nel nord Europa che dalle nostre parti. Chi l’ha guidata la ricorda comunque come un autentico missile, capace di rivaleggiare con la Suzuki Hayabusa ma più comoda, meno stravagante nella linea e meno strillata nel marketing: e per questo, forse, rimasta anonima anziché entrata nel mito come la rivale. Una bizzarra “super-sport-tourer” bassa e lunga, “tanta” in ogni senso ma efficace oltre ogni previsione nell’uso stradale e soprattutto autostradale, dove detiene numerosi record dell’epoca pre-tutor. Ecco: il tutor. Se le normative Euro 4 ed Euro 5 sono responsabili della scomparsa di diversi modelli troppo inquinanti, la diffusione del tutor ha determinato il calo di interesse verso moto come la ZZR 1400, perlomeno in Italia. Anche la sua cugina compiutamente granturistica con meno CV e il cardano, la GTR 1400, subì lo stesso destino e rimase ingiustamente trascurata.
Non fu proprio un flop, ma certamente faticò a far capire le sue qualità. In anni in cui ancora i nostalgici pensavano che Moto Guzzi dovesse essere l’anti-BMW, quando apparve la Stelvio si pensò subito: GS. E invece Moto Guzzi non era l’anti-BMW e la Stelvio non era l’anti-GS, ma un’altra cosa. Una moto senz’altro più pesante (oltre 250 kg in ordine di marcia per tutte le versioni), senz’altro più semplice, ma con una dinamica su asfalto assolutamente gratificante – del resto la Casa dell’aquila era ormai stabilmente in orbita Aprilia. Era, diremmo oggi, una crossover: altina sulle sospensioni e di sella (840 mm), ma non fatta per mettere le ruote (da 19” anteriore e 17” posteriore) fuori dall’asfalto. Allora però la parola crossover non c’era, e si faticò a inquadrarla per quel che era: una ottima turistica, specie nella seconda serie col serbatoio portato da 18 a 32 litri. Anche la linea era originale, con quei fari condivisi con la Norge che da vincolo tecnico finirono per diventare uno “sguardo” caratteristico. Peccato che il motore 1200 (montato sia in versione a due che a quattro valvole) non fosse riuscito altrettanto bene, non tanto per l’erogazione e la spinta quanto dal punto di vista dell’affidabilità, in particolare lato distribuzione. Quella Stelvio restava tecnicamente molto fedele alla tradizione Guzzi, che ci riprova ora con la V 100 Stelvio: un modello che viceversa di quella tradizione salva praticamente soltanto la disposizione a V trasversale dei cilindri e il cardano. Vedremo se andrà meglio.
Indubbiamente la più matura delle Morini della breve gestione di Maurizio Morini, nipote del fondatore, nacque purtroppo quando le sorti dell’azienda ormai volgevano al peggio. La Corsaro e la 9 ½ non erano infatti riuscite a sfondare nel pur fiorente mercato delle bicilindriche premium, nonostante l’appeal del potente motore Bialbero Corsa Corta dello storico progettista Franco Lambertini e della riuscita linea dovuta a Rodolfo Frascoli. La Granpasso 1200 sembra sulle prime poter riuscire a far meglio, ma la sua corsa è fermata dalla messa in liquidazione dell’azienda a settembre 2009, a 18 mesi dalla presentazione; la Granpasso verrà tenuta in vita dalla gestione successiva fino al 2020, ma senza aggiornamenti e con numeri di vendita trascurabili. Un vero peccato, perché se valutata come endurona da viaggio la Granpasso non offriva lo stesso comfort della migliore concorrenza, valutata come attrezzo da divertimento poteva tranquillamente giocarsela con il meglio della produzione Ducati o KTM di allora. L’originale twin a V 87° e molto superquadro (alesaggio 107 mm, più di un Ducati Testastretta 1200) erogava 118 CV con un’erogazione tanto dolce ai bassi quanto vigorosa dai medi, un peso relativamente contenuto (210 kg a secco) e una ciclistica azzeccata la rendevano un fenomenale animale da curva. Lambertini aveva finalmente trovato “la quadra”, come si dice, tra l’esplosività della Corsaro e il tiro della 9 ½; e la ruota anteriore da 19” rendeva la guida meno nervosa e più rassicurante. Ricca di personalità e con dotazioni di livello, la Granpasso aveva pochi difetti tra cui la sella piuttosto alta e qualche vibrazione che filtrava dal suo motorone, più che compensati dal divertimento che sapeva regalare su strada. Un frutto gustoso, a cui è stato troppo presto tagliato il ramo.
Altro modello finito nel tritacarne di una liquidazione aziendale: la Nuda 900 era la moto che avrebbe dovuto rilanciare definitivamente la Husqvarna della gestione BMW tra le stradali, ma che arrivò pochi mesi prima della cessione del marchio a KTM. Gli austriaci decisero di non salvare alcuna delle piattaforme tecniche allora esistenti a Schiranna; e così anche la Nuda, costruita attorno alla base tecnica della F 800 R, finì in liquidazione. Un vero peccato, perché la sua linea minimal e aggressiva teneva fede al nome, e la dinamica di guida era veramente da urlo: tutto il buono del bicilindrico BMW con una reattività che all’epoca le ciclistiche di Monaco non potevano (probabilmente non volevano) offrire. Aveva un bel telaio a traliccio, il serbatoio sotto la sella, nella versione R anche mono Öhlins e pinze Brembo radiali; il motore della serie F aveva alesaggio e corsa aumentati, ma anche la fasatura portata a 315° e un ruggito tutto suo. “Un assaggio di ciò che verrà”, la definirono a Monaco, e invece arrivò tutt’altro; ma la Nuda così compatta, leggera (174 kg a secco) e con un colpo d’occhio da motardona stradale, aveva il potenziale per diventare l’idolo di una generazione di teppisti come lo era stata la Triumph Speed Triple. Invece il suo essere il progetto più nuovo di Husqvarna ma già vecchio rispetto ai programmi di KTM la strangolò letteralmente nella culla.
Doppietta Husqvarna: dopo che la sua prima stradale dell’era BMW era stata un flop, anche la prima dell’era KTM ha seguito lo stesso destino, nonostante le sue qualità. Prima del recente arrivo di Ducati, per due decenni KTM era rimasta praticamente da sola a portare avanti lo sviluppo dei monocilindrici. Provando a inserirli nei contesti più ovvi, come le Enduro e Motard a marchio sia KTM che Husqvarna, ma anche con qualche interessante esperimento come le Husqvarna 701 Vitpilen e Svartpilen. La seconda era più comoda e globalmente godibile, la prima di una bellezza mozzafiato – forse il meglio che Kiska abbia espresso negli ultimi anni – e bellissima da guidare nel misto stretto. La combinazione tra le qualità del motore LC4, dall’allungo inebriante e vibrazioni ridotte, e la leggerezza complessiva della moto rendevano l’esperienza di guida della Vitpilen davvero unica. Per non parlare del design minimal ma modernissimo e con il caratteristico “split”, la linea che sembrava dividere la moto a metà tra sella e serbatoio. Un’altra di quelle moto che sulla carta piacevano a tutti ma che all’atto pratico, essendo una Husqvarna ed essendo costruita con componentistica ed elettronica al top, risultava costosa (quasi quanto una twin di pari caratteristiche) e per di più un po’ limitata nella varietà di utilizzo: bellissima da guardare e da guidare in tuta di pelle, non altrettanto per viaggiare o per il semplice commuting. Alla fine il successo è arrivato con la bicilindrica Norden 901, e a quanto pare anche le Vitpilen e Svartpilen potrebbero tornare con quella base motoristica.
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