Moto & Scooter
Quando al DESIGNER scappa la mano
Innovazione significa rottura... ma ogni rottura comporta un rischio. Tutti i designer ambiscono a cambiare l'estetica delle due ruote, ma solo in pochi casi ci riescono. Più spesso i loro ambiziosi tentativi finiscono per scontrarsi con i gusti del mercato. Ecco il nostro elenco dei tentativi falliti più famosi
Aprilia Motò 6.5
I primi Anni 90 sono la Golden Era di Aprilia. Le 50 e 125 2T spopolano, arrivano i primi titoli mondiali nei GP e nel Trial, e a Noale si inizia a pensare a come crescere nei volumi e nelle cilindrate. L’azienda è riconosciuta per la qualità e originalità del suo design, e il patron Ivano Beggio assume il francese Philippe Stark, uno dei designer più famosi al mondo, per guardare ancora più avanti. Stark, un simpatico egocentrico attivo un po’ dappertutto, dalle radio all’arredamento e dall’architettura agli oggetti da cucina, tira fuori diversi concetti di scooter che non vedranno mai la luce e la Motò (pronuncia alla francese) 6.5, basata sull’unica piattaforma 4T all’epoca disponibile a Noale, il motore Rotax della Pegaso 650. Rispetto alla quale la Motò è radicalmente diversa: poche plastiche, linee minimaliste e arrotondate (che fecero impazzire i progettisti), colorazioni semplici con accostamenti forti. Ha qualche difetto dinamico dovuto alla preminenza del puro design (il baricentro troppo alto, la scarsa luce a terra, il serbatoio benzina che non si svuota completamente), una destinazione d’uso poco chiara e uno stile decisamente troppo avanti, che ne determinano l’insuccesso. Oggi sarebbe una roadster urbana con il suo perché, e bisogna darle atto di essere il modello invecchiato meglio tra quelli di questa rassegna: era effettivamente troppo avanti.
Bimota DB3 Mantra
Terzo modello Bimota con motore Ducati, doveva essere una anti-Monster o più precisamente una Monster premium, ma a Rimini la magia della DB1 stavolta non riesce, per l’eccesso di fiducia riposto nel designer Sacha Lakic. Come sulla Monster c’è un telaio a traliccio, ma essendo in tubi ovali di alluminio risulta posticcio; come sulla Monster, l’impatto visivo è tutto all’avantreno, ma la scelta di integrare la zona faro con un proiettore dal sapore alieno rende l’insieme originale, ma sgraziato: troppo arzigogolata per essere una moto italiana e troppo “plasticosa” per essere una naked. Sono anni positivi per Bimota, trainata dai successi in Supersport delle YB9, e qualche Mantra in giro la si vede; ma di lei non rimane traccia nella produzione successiva Bimota: né della soluzione per il telaio, né della linea, né del nome. Qualcosa vorrà pur dire. Lakic fa notare come qualche anno più tardi lo stile della Mantra sia stato più o meno ripreso da BMW con la F 650 Scarver, che fu comunque un altro binario morto della storia motociclistica.
BMW R 1200 ST
Nei primi Anni 2000 BMW accelera enormemente sul lato del design e dopo un lungo periodo di conservatorismo imbocca la strada dell’avanguardia. Alla guida dello stile ci sono due americani, per le auto Chris Bangle e per le moto David Robb, che dopo aver tirato fuori il suo capolavoro con la R 1200 GS, decide di azzardare anche sul fronte delle sport tourer e in sostituzione della R 1150 RS fa uscire la R 1200 ST, tanto sinuosa quanto sgraziata con il piccolo codino, l’enorme parte anteriore che la fa sembrare un capodoglio e il bizzarro plexi maggiorato che avvolge il faro verticale. Nonostante le doti dinamiche venderà pochissimo, resterà in gamma soltanto due anni e con lei la sigla ST scomparirà per sempre dai listini di Monaco per far di nuovo posto alla dinastia RS.
Ducati 999
Per Ducati è stata una moto fondamentale, dovendo raccogliere la pesantissima eredità della 916-996-998 e segnando il passaggio dall’era “romantica” Castiglioni-Tamburini a quella successiva, in cui Borgo Panigale ha avviato la sua trasformazione in senso manageriale e industriale. A dirigere lo stile Ducati c’è in quegli anni il sudafricano Pierre Terblanche, a cui l’autostima non fa certo difetto e che vuole lasciare un segno del mondo della moto. Le sue creature sono sempre controverse, in parte affascinanti e in parte discutibili come la MHe o la prima Multistrada; ma è sulla 999 che si gioca tutto. La scommessa non funziona un granché: la 999 è piena di dettagli intriganti ma nel complesso disarmonica; e anche se fa impazzire i designer di professione, lascia tiepidi tutti gli altri. Vende bene perché vince tanto (3 titoli piloti e 3 costruttori in Superbike, con 63 vittorie di manche su 120 disputate), ma dal punto di vista stilistico viene accantonata: soprattutto perché per essere diversa a tutti i costi dalla 916, con le sue carene squadrate, il faro “robotico” e il codino orizzontale finisce per non sembrare nemmeno più una moto italiana. La sua erede 1098 riprende lo stile della 916 e la parentesi “di rottura” di Ducati si chiude così, senza troppi rimpianti.
Gilera CX 125
Gli Anni 80 in Italia sono soprattutto l’epoca d’oro delle 125. Sempre più belle e raffinate, scatenano una corsa al rialzo delle prestazioni, delle dotazioni e dello stile che sembra non doversi arrestare mai. Gilera, già da tempo parte del Gruppo Piaggio, affida in quegli anni il design delle sue moto al talento di Luciano Marabese, un designer esterno che realizza praticamente tutte le sportive e le enduro della Casa di Arcore, con risultati spesso memorabili come la KZ del 1986 e la SP01 del 1989. A fine 1990 arriva però la CX 125, che rappresenta l’interpretazione di Marabese di una sportiva (stradale) del futuro. Piena di innovazioni, con una carena integrale protesa verso la ruota anteriore che ricorda quella delle GP degli Anni 50, una sospensione monobraccio ispirata al carrello degli aerei, ruote semi-lenticolari con dischi freno collocati in asse per limitare il momento torcente, cruscotto in stile automobilistico, si scontra con l’intransigenza dei sedicenni dell’epoca, interessati unicamente alle supersportive. Viene prodotta in un migliaio di pezzi, che restano quasi invenduti anche perché il prezzo è allineato a quello delle ben più appetibili sorelle SP02 e GFR 125.
Honda DN-01
Salone di Tokyo, dove le Case giapponesi si sfidano a colpi di tecnologia e di idee. Nel 2005 Honda presenta la DN-01: sembra soltanto una concept, invece a sorpresa arriva in veste definitiva due anni dopo a Milano. Tecnicamente è basata sul motore V2 della Transalp abbinato però a un originale cambio a variazione continua idraulico (tipo Badalini, un brevetto italiano). Anche la frenata combinata (CBS) è inconsueta in quegli anni. Ci sono un forcellone monobraccio da sportiva, un motore da enduro stradale media, una linea mai vista: che moto è? Per Honda è la custom del futuro, e da custom sono in effetti la posizione di guida, l’interasse chilometrico (oltre 1.600 mm) e la sella a soli 690 mm da terra. La DN-01 punta a raccogliere interesse sia dal mondo moto che dal mondo scooter, ma come spesso accade in questi casi... non lo fa da nessuno dei due. Honda accantona sia il cambio Badalini che lo stile della DN-01: l’accoppiata vincente le riuscirà qualche anno dopo con l’Integra e il cambio DCT; consolidato il successo dei quali la Casa dell'ala dorata, che non ama ammettere di aver sbagliato, ci riprova con una impostazione in stile DN-01 con la Vultus NM4. Il risultato sarà lo stesso.
Kawasaki Versys 1000 2008
Quando negli Anni 2000 diventa chiaro che la nuova tendenza del mercato è quella delle grandi Adventure, Kawasaki si ritrova senza modelli adatti e anche senza motori adatti, visto che a differenza delle altre giapponesi non ha mai sviluppato bicilindrici di grande cilindrata. Akashi decide di giocare ugualmente la carta crossover con quella che è di fatto una tourer rialzata, basata sull’intramontabile 4 in linea da un litro di cilindrata della Z 1000. Nasce la “VERsatile SYStem” Versys 1000, che per rimarcare la sua originalità nella gamma Kawasaki e rispetto alla concorrenza viene realizzata con uno stile tutto suo, affidato al designer indipendente Shunji Tanaka, che si era fatto apprezzare per la Mazda MX-5. Il risultato però conferma la regola per cui disegnare auto e disegnare moto sono mestieri diversi: con le sue superfici morbide ma delimitate da linee squadrate e i fari sovrapposti, la Versys ha tante doti ma non quella della bellezza. Verrà infatti capita nel tempo, soprattutto con l’arrivo della seconda e della terza serie dal look “spaziale”, ma pur sempre meno disturbante rispetto alla prima serie.
KTM 690 Supermoto 2007
In pieno rilancio dopo il fallimento del 1992, KTM inizia un articolato percorso per arrivare dalla terra alla strada. La cosa più semplice è passare per il punto di congiunzione tra i due mondi: la Supermoto; e così, dopo il buon successo ottenuto con la Duke (che però nel frattempo si è sempre più avvicinata a una naked convenzionale) a Mattighofen ci riprovano con la 690 Supermoto. Più che di Mattighofen, a dire il vero bisognerebbe parlare di Salisburgo dove ha sede Kiska Design, lo studio di Gerald Kiska che dal 1992 ha in mano lo stile di tutte le KTM. E con la 690 Supermoto si lascia decisamente andare: “becco” integrato con la mascherina portafaro che sembra un naso alla Cyrano ed enorme doppio terminale che punta verso l’alto come il tubo di una stufa delle montagne austriache. È veramente troppo anche per l’anticonformista pubblico delle Supermoto, che non la digerisce e non la compra. Kiska accetta il giudizio e accantona per sempre lo stile della 690 Supermoto, pur continuando a sperimentare intensamente con le Duke e le Adventure.
Suzuki B-King
Anno 2001, le naked ormai vanno per la maggiore e il terreno di scontro si sposta sulle maxi cilindrate. Suzuki decide di tentare la fuga in avanti con una streetfighter mossa dal motore da 1300 cc della Hayabusa sovralimentato, ispirata alle moto usate nei video che immortalano le gesta clandestine di Ghost Rider. Denominata B-King per mettere subito le cose in chiaro, è caratterizzata da un design estremo: “testa” piccolissima ed enormi scarichi nel codino, sembra un Transformer rimasto bloccato a metà trafromazione. Dopo parecchi anni di riflessione, arriva in forma definitiva nel 2007: non è più sovralimentata ma la linea resta quella, non esattamente equilibrata, da culturista a cui qualcosa sia andato storto. Dal punto di vista ingegneristico è una Suzuki: bella da guidare e con una potenza (181 CV) che ancora oggi la metterebbe di diritto nel novero delle hypernaked. Dal punto di vista stilistico… rappresenta il lato più folle e strillato del Giappone, quello che normalmente i giapponesi non fanno vedere.
Yamaha Niken
Cosa fai quando devi fare la prima moto al mondo con 3 ruote? Devi per forza inventarti qualcosa di nuovo, di diverso, di anticonvenzionale. Se sei giapponese, uno dei tuoi riferimenti visivi è il mondo dei robottoni, e Yamaha da quello prende spunto per la Niken (nome che significa “due spade”). Qui non è tanto questione di design, perché vestire una meccanica così ingombrante e originale (lasciata volutamente in vista) non era facile. A bordo, secondo la definizione di un collega, “sembra di stare su una moto d’acqua” mentre al passaggio tende a spaventare i bambini per strada con il suo aspetto da Alien, un po’ in contrasto con la destinazione da sport-tourer stradale di questa moto unica nel suo genere.
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