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Ducati 916 VS Honda RC45: la terza guerra mondiale

Redazione
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Ducati 916 VS Honda RC45: la terza guerra mondiale
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Sul finire del 1993, a distanza di poche settimane, escono la Ducati 916 e la Honda RVF750R. Entrambe puntano al titolo di moto più bella, tecnologica e performante del mondo (e del Mondiale SBK) e la storia, per la prima volta da decenni, vedrà l’italiana prevalere sulla giapponese

Ha visto contrapporsi due moto rare e costose, ma non è stata una battaglia di nicchia. Anzi è stata probabilmente la sfida più significativa degli Anni 90, i cui riflessi e conseguenze hanno condizionato i due decenni a venire e le cui conseguenze si vedono ancora oggi. Parliamo della battaglia a tutto campo (tecnologica e prestazionale, in pista e mediatica) tra la Ducati 916 e la Honda RVF750R, più nota come RC45, entrambe presentate a fine 1993. In quel momento sul massimo campionato di velocità, la 500, regnano incontrastate le quattro cilindri a 2 tempi giapponesi, ma nel campionato Superbike da poco lanciato dal promoter Maurizio Flammini le cose sembrano poter andare diversamente. Alla doppietta dell'americano Fred Merkel con la Honda RC30 nelle prime due edizioni (1988-1989) fa infatti seguito la clamorosa affermazione del francese Raymond Roche con la Ducati 851 (1990), consolidata dai successi di Doug Polen con la 888 (1991-1992).
Fred Merkel con la Honda VFR750R RC30 del team Rumi
Doug Polen con la Ducati 888 SBK

Campo di battaglia: la Superbike

Proprio l'affermazione della lillipuziana Ducati contro i colossi giapponesi anima l'interesse per il nuovo campionato, che ha per di più l'attrattiva di veder correre le stesse grosse 4T che gli appassionati possono comprare (a meno di qualche decina di CV e di kg, di differenza, ovviamente) con un intelligente regolamento tecnico che differenzia cilindrate e pesi per riequilibrare le prestazioni delle quattro cilindri, motori all’epoca esclusiva dei giapponesi, alle due e tre cilindri europee. Per capire appieno la portata del confronto bisogna ricordare che nonostante i tre titoli SBK consecutivi, il prestigio di Ducati 30 anni or sono non era lontanamente paragonabile a quello odierno. La 916, la Monster e la Desmosedici erano di là da venire, i successi di Hailwood e Lucchinelli erano ormai remoti e il livello tecnico delle bicilindriche bolognesi restava lontano da quello delle concorrenti giapponesi, tanto è vero che trovare un top rider disposto a correre per le insegne di Borgo Panigale non era facile (e quasi impossibile in 500, dove il gap era tale che Honda era arrivata a cedere a Cagiva una partita di carburatori racing Mikuni in magnesio pur di animare la competizione nella categoria).
Randy Mamola portò in dote alla Cagiva 500 GP del 1988 il numero 2. Qui è al GP del Belgio dove conquisterà il primo podio della Casa varesina

Gli anni d'oro Cagiva

Il gruppo Cagiva di quegli anni era comunque animato da tecnici geniali e dai metodi altrettanto “creativi” dei fratelli Castiglioni, che nel 1987 erano riusciti a portarsi a casa due top come Randy Mamola e Raymond Roche, con l’aiuto non solo di un corposo ingaggio ma anche, secondo la leggenda, ricorrendo ai servigi di alcune professioniste bolognesi la notte prima della firma del contratto.   Dopo pochi mesi, vittima di un grave incidente a Imola, Roche non riesce più a guidare le 500 e i Castiglioni lo dirottano alla nascente categoria Superbike dove, sulla meno estrema Ducati 851, il francese rinasce arrivando come detto a vincere il mondiale nel 1990. Mentre la 851 diventata 888 continua il suo ciclo vincente con l’americano Doug Polen, tra il 1990 e il 1993 in Ducati si lavora alacremente allo sviluppo di una moto che porti la nuova piattaforma con raffreddamento a liquido e iniezione elettronica al livello delle moto giapponesi. Il risultato va oltre ogni aspettativa, perché il gruppo guidato da Massimo Tamburini tira fuori, al termine di un lunghissimo lavoro di sviluppo, quella che è probabilmente la più bella moto sportiva mai realizzata: la 916.
Massimo Tamburini, al centro, e il suo gruppo di lavoro ristretto per la Ducati 916

Si muove la Honda

La popolarità del Mondiale intanto è alle stelle, in quella che sarà considerata l’epoca d’oro della Superbike. Honda, protagonista in 500, in SBK resta fuori dalle posizioni che contano: il rapidissimo ritmo di evoluzione impresso alla categoria dalla competizione tra italiani e giapponesi ha reso obsoleta la VFR750R / RC30, e urge rispondere a Ducati (ma anche a Kawasaki) sul piano non solo delle prestazioni, ma anche del prestigio tecnologico. Dello sviluppo dell’erede della RC30 viene ancora una volta incaricata la HRC, che ne aggiorna gli ingredienti in un pacchetto tutto nuovo, siglato RVF750R / RC 45. Il motore 750 4 cilindri a V di 90° mantiene la distribuzione a cascata di ingranaggi (con il comando però spostato dal centro della V a un estremo dell’albero motore, come sulla NR 750, e un perno di banco in meno) ma diventa più superquadro (72 x 46 mm contro 70 x 48,6 mm), con valvole più larghe e verticali e condotti di aspirazione più rettilinei. Soprattutto, guadagna l’iniezione elettronica PGM-FI, con 4 corpi farfallati da 46 mm al posto dei carburatori da 38 mm. Ha la fasatura a 360° e non più a 180° (quindi suona diversamente), pistoni alleggeriti e a basso attrito che scorrono dentro cilindri con riporti in ceramica e grafite, bielle sempre in titanio ma ridisegnate, un cambio a rapporti ravvicinati servito da una innovativa pur se rudimentale frizione anti-saltellamento, un radiatore separato dell'olio, numerosi elementi in lega di magnesio.
La Honda NR750 a pistoni ovali era lunare, ma la RC45 voleva essere non meno fantascientifica

RVF750R: la moto più tecnologica del mondo

Il V4 è ospitato da un telaio a doppio trave in alluminio più generoso nel dimensionamento, il forcellone monobraccio più curato nelle lavorazioni, le ruote sono da 16”-17” anziché da 17”-18” e con un enorme (per l’epoca) cerchio posteriore con canale da 6” e pneumatico 190/50-17. L’impianto frenante fornito da Nissin prevede dischi anteriori da 310 mm (gli stessi della NR750) con pinze a quattro pistoncini e pastiglie prive di amianto (la VFR750F era stata la prima a montarle). Le sospensioni sono Showa, con forcella a steli rovesciati da 41 mm e monoammortizzatore con leveraggio progressivo.  Nel complesso ben più predisposta agli alti regimi della RC30, la RC45 vanta in concreto pochi CV in più (118 contro 110), almeno nella versione stradale; è però tutto il pacchetto ciclistico ad essere più corsaiolo rispetto alla RC30 – peraltro nei fatti già una SBK omologata. Compattissima e vistosamente più “densa” della RC30, la RC45 mostra il meglio che Honda sappia fare a livello motoristico a inizio Anni 90, ma anche una concezione nettamente più moderna rispetto alla RC30, con un concetto di integrazione tra motore e telaio che vedremo sviluppare da Honda fino a “esplodere” sulle RC-V da MotoGP. Un vero gioiello tecnologico, con un’estetica maschia e corsaiola come non si vedeva dalla CBR900RR del 1991, a cui però non corrispondono i risultati sportivi sperati. La RC45 fa bene negli USA, vincendo il campionato AMA Superbike nel 1995 e la 200 Miglia di Daytona del 1996 con Miguel Duhamel, poi ancora l’AMA Superbike del 1998 con Ben Bostrom. Nel Mondiale, però, la RC45 fatica parecchio, nonostante i propositi dichiaratamente bellicosi visto che con questa moto Honda debutta in prima persona in SBK, mettendoci la faccia dopo che negli anni precedenti aveva semplicemente dato supporto ai team privati che utilizzavano la RC30.
Aaron Slight (111) davanti a un giovanissimo Colin Edwards (5) sulla RC45 nel 1999, la sua ultima stagione ufficiale di gare

Il primo problema della RC45: le difficoltà sportive

Problemi iniziali di affidabilità e scelte ciclistiche rivelatesi poco azzeccate offuscano purtroppo l’immagine della RVF, solo parzialmente riscattata dalla vittoria del Mondiale 1997, tardiva e ottenuta dopo aver strappato alla Ducati i suoi top rider: Carl Fogarty, arrivato nel 1996 e tornato all’ovile dopo una sola stagione chiusa al quarto posto e poi John Kocinski, finalmente riuscito a vincere con la V4 giapponese al quarto anno di impegno. Non aiuta inoltre il prezzo stellare della nuova creatura HRC: per quanto costosa sia la 916 (quasi 24 milioni di lire nel 1994), la RC45 costa quasi il doppio (oltre 46 milioni dell’epoca), e il triplo di una normale 750 giapponese, dalle prestazioni non troppo diverse: i tempi della RC30 sono ormai lontani, e anche le altre Case con i loro modelli hanno fatto un salto tecnico e concettuale in direzione della efficacia in pista. Alla fine ne verranno prodotte molte meno delle 2.500 o 3.000 (sulle versioni speciali giapponesi i numeri sono sempre incerti) RC30: forse 500, forse addirittura meno. Non aiuta nemmeno il fatto che, a fine carriera, la RC45 venga sostituita dalla RC51, la VTR1000SP con la quale Honda ammaina il vessillo del motore V4 per dimostrare di essere più brava di Ducati anche giocando ad armi pari, quindi con un bicilindrico a V di 90°. La RVF750R resta così l’ultima V4 racing Honda fino alla specialissima (e rarissima: solo 213 esemplari) RC213V-S del 2016.

Il secondo problema della RC45: la 916

Ma torniamo dal Giappone all’Italia. Massimo Tamburini, il designer Sergio Robbiano, gli ingegneri Massimo Bordi e Massimo Parenti, oltre ai giovanissimi Claudio Domenicali, Filippo Preziosi e molti altri: se i nomi dei tecnici che lavorano alla RC45 restano avvolti nell’anonimato come vuole la tradizione giapponese – quel che conta è il lavoro di squadra – del “dream team” che tra Bologna e San Marino (sede del CRC, il reparto ricerca del Gruppo Cagiva) dà vita alla 916 conosciamo bene l’identità e il valore, anche se il contributo dei singoli resta più sfumato. Sappiamo che il metodo di lavoro e il perfezionismo arrivano di Tamburini, ma a contribuire sono veramente tutti. La Ducati 916 è la moto che rivoluziona il mondo delle supersportive, perché se la 851/888 era larga come una quattro in linea giapponese, la 916 è piccola come una 250 2T (cosa che era, come si direbbe oggi, un “brief di progetto”): carene attillate, integrazione spinta, l’attenzione maniacale ai dettagli tipica di Tamburini: dal blocchetto chiave inglobato nel serbatoio alla posizione brevettata dell’ammortizzatore di sterzo, dalla forma del monobraccio a quella della piastra superiore di sterzo; resteranno famosi i 24 stampi di prova per le pedane, che in anni in cui non esisteva la prototipazione virtuale costarono ai Castiglioni un capitale e qualche mese di ritardo nella presentazione del modello. I due fari sottilissimi e integrati nelle linee del cupolino fanno invecchiare di colpo tutte le giapponesi, RC45 inclusa.

Continuità e rivoluzione in casa Ducati

Dal punto di vista tecnico, la 916 è una 888 estremizzata: il telaio a traliccio ancora più snello consente di variare l’inclinazione dell’asse di sterzo tra 24° o 25°, per un’avancorsa di 94 o 100 mm rispettivamente. Il bicilindrico bialbero con distribuzione desmodromica, iniezione e quattro valvole per cilindro è quello sviluppato da Massimo Bordi: nato da 748 cc, dopo essere cresciuto a 851 e 888 cc approda alla soglia dei 916 cc grazie all’alesaggio portato da 92 a 94 mm, sempre con 66 mm di corsa, e viene rinforzato nelle parti soggette a maggior stress meccanico. Il forcellone monobraccio ispirato a quello della Elf 500 e della stessa RC30 sembra una dichiarazione frontale di guerra a Honda, così come il doppio scarico sottosella che cita la NR750. La componentistica è al top, con una forcella rovesciata Showa con steli da 43 mm e mono sempre Showa abbinato a leveraggi, due elementi studiati appositamente per questo modello, e impianto frenante Brembo con due dischi da 305 mm e pinze a quattro pistoncini. Se sul suo fascino non ci sono dubbi, nonostante l'acclamazione al Salone di Milano del 1993 e i tanti premi delle riviste di settore sulle prime la 916 non convince tutti, in particolare i tantissimi fan della tecnologia giapponese che la giudicano scomoda, troppo radicale per la guida su strada e con prestazioni che, nonostante l’aumento di cilindrata, non paiono ancora a livello delle 750 a 4 cilindri del Sol Levante, pur se la guida appare particolarmente efficace (proprio perché i CV non sono poi così tanti, dicono sempre i detrattori).

Ducati 916: speciale o "SP"ecialissima

Le varie versioni racing allestite per la SBK, comunque, non paiono avere problemi di potenza e la striscia rossa, dopo la battuta d’arresto verde del 1993 (Scott Russell con la Kawasaki ZXR 750) riprende: Carl Fogarty porta all’iride la 916 già al debutto, realizzando anzi la doppietta 1994-1995; poi Troy Corser vince nel 1996, con la Honda RC45 di Aaron Slight due volte terza e una volta seconda. Anche se è un po’ più “grezza” nel feeling e ha meno cavalli delle 4 cilindri, con la sua erogazione piena e malleabile, la 916 è terribilmente efficace: sono gli anni in cui il bicilindrico fa ancora il bicilindrico, spinge forte ai medi senza inseguire l’allungo a tutti i costi (le cose cambieranno con il Testastretta e il Superquadro). Per prestazioni ed esclusività, comunque, la vera rivale della RC45 è comunque la 916 SP, che offre più potenza e meno peso. La sigla all’epoca popolare, che sta per “Sport Production” e indica le moto nate per le corse per derivate dalla serie, identifica la versione più sportiva (poi ridefinita SP1) presentata nel 1994: ha il motore modificato da 126 CV contro i 114 CV della prima 916 “base”, il mono Öhlins, i dischi in acciaio flottanti, tante parti in carbonio, il codone monoposto con tabelle portanumero bianche e gli scarichi Termignoni. Ne vengono prodotti circa 300 pezzi, subito bruciati con il traino decisivo dell’Inghilterra di “King Carl”.
Carlo Fogarty tra la sua 916 SBK e la Panigale V4 del 2019 che celebra il 25° anniversario, tirata in soli 500 esemplari. A distanza di 30 anni, il binomio fra il pilota inglese e la rossa italiana resta fra i più amati dai tifosi di tutto il mondo.

L'Italia al suo meglio

Seguono la 916 SP2 nel 1995 (400 pezzi) e la 916 SP3 nel 1996 (500 pezzi) e nel 1999 arriva la 996, con alesaggio aumentato a 98 mm e motore profondamente rivisto con doppio iniettore sequenziale. È affiancata dalla SPS da 123 CV e più tardi dalla 996R (2000) con il primo propulsore Testastretta: ormai però è cambiato il millennio, Colin Edwards rompe l’incantesimo interrompendo il dominio Ducati con la nuova Honda VTR1000SP mossa da un V-Twin a 90° (2000 e 2002) e l’epoca d’oro della Superbike sta per finire, complice l’affacciarsi sulla scena mondiale della MotoGP. La Ducati 916 è da una parte il prodotto irripetibile di un gruppo di uomini eccezionali capitanati dalla visione, dalla personalità e dalla determinazione straordinarie di Massimo Tamburini. È in un certo senso un prodotto quasi artigianale, tipicamente italiano; ma è anche decisiva perché non resta confinata a una nicchia di appassionati ma vince e vende moltissimo, divenendo paradigmatica e proverbiale.
Nel gruppo di lavoro della 916 racing si riconoscono, al centro, Claudio Domenicali e Filippo Preziosi

L'Italia al suo meglio

La 916 (insieme alla Monster) è decisiva perché sposta il baricentro del motociclismo mondiale dal Giappone all’Italia, almeno in termini di prestigio. Anche la RC45 rappresenta il vertice tecnologico di Honda, che non ha certo lesinato gli sforzi ma non si aspettava un salto in avanti così netto da parte di Ducati. Alla fine Ducati ha dominato per quasi due decenni la SBK affermandosi come protagonista sulla scena mondiale, mentre Honda ha continuato a vendere centinaia di volte più di Ducati e a vincere di più in MotoGP. Ma lo scontro frontale tra 916 ed RC45 ha mostrato come l'estro e la determinazione possano a volte avere la meglio sulle risorse e l'organizzazione ed è stato, quello sì, il vero "miracolo italiano" degli Anni 90.
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