Moto & Scooter
Honda Africa Twin, la storia di un mito
Le origini e lo sviluppo della maxi enduro stradale giapponese. Dalle radici nelle Dakar anni ’80 fino alle moderne CRF 1000 e 1100
Era il 1977 quando Thierry Sabine, pilota di auto e moto e organizzatore di eventi motoristici, rimase per giorni disperso nel deserto in Libia nel corso della Abidjan-Nizza, alla quale stava partecipando con una Yamaha XT 500. Sabine fu salvato quasi per miracolo, ma in quei momenti di smarrimento nacque in lui l’ispirazione: dar vita ad una corsa nel deserto che fosse la più difficile e selettiva al mondo, tra l’Europa e l’Africa. Detto, fatto.
Nemmeno due anni più tardi, era il 26 dicembre ’78, 182 concorrenti si ritrovarono a Place du Trocadéro, di fronte alla Torre Eiffel, per partire alla volta del Senegal. Era il via della prima Parigi-Dakar, l’edizione 1979. 80 automobili, 90 moto e 12 camion che vennero decimati drasticamente lungo i quasi 8.000 km di percorso, tra prove speciali e trasferimenti. Al traguardo sul Lago Rosa furono in 73 tra auto e moto; di queste ultime, appena 24 sulle 90 partite. Prima, una Yamaha, con un certo Cyril Neveu ai comandi. L’anno successivo, medesimo risultato: davanti a tutti a Dakar la Yamaha di Neveu. Nel frattempo, si andava diffondendo il fascino della corsa, benché per i primi anni rimase monopolio dei piloti francesi.
Nell’81 Auriol su BMW R80, poi di nuovo Neveu su Honda XR 550 e nell’83 ancora Auriol su BMW. Nel 1984 la prima vittoria di un non francese tra le moto, Gaston Rahier a bordo di un’altra boxer bavarese, che replicò nell’85. Proprio nel 1985 il numero dei partenti era stato di oltre 500 mezzi, a testimoniare il successo e l’eco mediatico internazionale che la Parigi-Dakar stava avendo.
Eco che era già arrivato fino a Tokyo, dove aveva e ha sede la più importante casa motociclistica al mondo, la Honda (l’XR 550 che vinse nell’82 era una moto ufficiale). Dopo tre vittorie di fila da parte di BMW, qualcuno laggiù in Giappone dovette pensare che fossero sufficienti e che era arrivato il momento di dimostrare che anche Honda avrebbe potuto vincere con una bicilindrica. È in quel momento, anzi, a dire il vero un po’ prima, che nacque il progetto NXR.
HONDA NXR 750, IN HRC L’ORIGINE DI TUTTO
Una sigla che da sola fa venire i brividi agli appassionati di road book e di deserto. Fu dunque nel 1986 che HRC (Honda Racing Corporation, il reparto corse) sfornò l’arma segreta a due cilindri da schierare al via della famigerata Parigi-Dakar. In sella, uno che le insidie della gara le conosceva ormai come le proprie tasche: Cyril Neveu, che all’epoca vantava già tre successi. Quell’anno Honda non si accontentò di vincere, ma fece doppietta con Neveu e Gilles Lalay ai primi due posti sulle NXR 750. Il successivo cambiò di poco, di nuovo Neveu davanti a tutti con il nostro Edi Orioli in scia, entrambi sulle NXR ufficiali. Ma cos’era questa NXR 750 ufficiale? Di fatto, un prototipo progettato appositamente per arrivare per primo a Dakar. Obiettivo, questo, centrato in pieno con quattro vittorie consecutive tra l’86 e l’89 (alle due di Neveu sarebbero succedute quella di Orioli nell’88 e quella di Lalay nell’89). Telaio monotrave con culla sdoppiata in acciaio, che ospitava al suo interno un propulsore bicilindrico a V di 50° da 780 cc, 4 valvole per cilindro, accreditato di oltre 75 cavalli. Peso a secco attorno ai 160 kg. Per l’epoca, un missile terra-terra perfetto per macinare chilometri di deserto a medie impressionanti. È qui che mise le radici il mito della Honda Africa Twin.DAL DESERTO ALLE NOSTRE STRADE: AFRICA TWIN 650 RD03
Forte dei successi in Africa, Honda decise di portare al Salone di Parigi del 1987 una trasposizione stradale della NXR. La prima Africa Twin, appunto. Comprendere l’origine del nome è semplice: Africa, il suo terreno di battaglia ideale, Twin, per il motore bicilindrico. Quella che si vide a Parigi e che debuttò sul mercato poco tempo dopo era solo lontana parente della moto di Neveu e compagnia, ma d’altro canto non si poteva produrre in serie una moto da corsa di quel tipo. Per diventare Africa Twin, la NXR era stata civilizzata e ingentilita non di poco. La prima versione prese il nome in codice di XRV 650 RD03 (la cilindrata della moto stradale era decresciuta fino a 647 cc). In effetti, in comune tra le due c’era poco al di là dell’estetica. Il bicilindrico di serie era una V di 52° con 3 valvole per cilindro alimentato da due carburatori Mikuni da 32 mm, una rivisitazione di quello della Transalp da 583 cc, rispetto alla quale l’Africa Twin guadagnava qualche cavallo e un po’ di coppia.
Lo scopo di Honda nel proporre l’Africa Twin, oltre a quello scontato e più importante di dar seguito commerciale agli investimenti fatti per la Dakar, era quello di proporre un’alternativa alla Transalp che era già a listino da una stagione. L’Africa Twin si distinse quindi per il carattere più votato al fuoristrada, con sospensioni a maggiore escursione, luce a terra più ampia, serbatoio più capiente per un’ideale traversata del Sahara ma anche grazie ad una componentistica di qualità superiore e all’impiego di materiali più pregiati. Diffuso l’uso di alluminio dove la Transalp si accontentava di lamiera stampata, ad esempio per il forcellone.
Il risultato fu una enduro stradale turistica che nell’estetica richiamava apertamente le moto ufficiali, grazie anche alla livrea bianco-rosso-azzurro HRC. Dinamicamente, un mezzo incredibilmente polivalente, capace di passare dall’asfalto allo sterrato senza battere ciglio, e se gommata adeguatamente di spingersi ben oltre la classica strada bianca. Tutto ciò grazie alla capacità dei progettisti Honda di dare alla nuova nata un bilanciamento invidiabile, forte di baricentro basso e di un telaio intuitivo e con il giusto grado di flessibilità, abbinato a sospensioni che copiavano di tutto. Una moto così capace che negli anni a venire la sua versione Marathon con serbatoi maggiorati sarebbe stata impiegata con successo, con la dovuta preparazione, da numerosi privati proprio alla Parigi-Dakar.
Adventure Sports, recano gli adesivi sulle fiancatine, noi la chiamiamo una ciambella col buco, perché fino ad allora di moto così propense all’avventura a lungo raggio e ad adattarsi a tutti i terreni non se ne erano ancora viste.
AFRCIA TWIN RD04 E 07, LA CRESCITA A 750
Nel 1990 arrivò la nuova versione: RD04, maggiorata fino a 750 (742 cc per l’esattezza). Molto simile nell’estetica alla RD03, è in realtà distinguibile ad una prima occhiata per il doppio disco freno anteriore, a differenza della 650 che ne aveva uno solo. E poi per il cupolino più alto e avvolgente, dalla vocazione un po’ più stradale. La crescita di cubatura dava alla RD04 qualche cavallo in più, 5 per l’esattezza (ora 59), ma soprattutto più coppia a bassi e medi regimi; il bicilindrico era alimentato da carburatori da 36,5 mm. Si registrarono 10 mm di escursione in meno per la forcella e un peso a secco dichiarato di 212 kg.
Nel 1993 ancora un importante aggiornamento, la RD07. Motore alimentato da nuovi carburatori a valvola piatta per un incremento di potenza fino a 62 cavalli; ma la più grossa novità fu la ciclistica che si basava su un nuovo telaio, con serbatoio e sovrastrutture ridisegnate. Filtro dell’aria spostato sopra il serbatoio, sella leggermente più bassa, larga e comoda. Peso a secco dichiarato di 202 kg. Nel complesso, un’impronta lievemente meno fuoristradistica e più votata al turismo; restò comunque una moto incredibilmente capace fuoristrada, se condotta con criterio da mani esperte.
Nel 1996 l’ultima versione, la RD07A, la cui produzione venne spostata dal Giappone all’Europa. Di fatto non presentava miglioramenti rispetto alla 07, anzi, venne fatta economia su alcuni componenti come le sospensioni che non erano più regolabili e sui cerchi che non erano più anodizzati oro. Anche le prestazioni andarono calando, questo però a causa delle norme antinquinamento che richiesero un sistema di scarico meno libero. La 07A migliorò comunque nei consumi e in alcune parti della dotazione, come ad esempio l’impianto d’illuminazione. Nel 2002, lo stop alla produzione. Ma non la fine della storia.
LE AFRICA TWIN DEL NUOVO MILLENNIO
Dopo voci insistenti sul suo ritorno, nel 2014, ad EICMA, allo stand Honda fece la sua apparizione il prototipo True Adventure, niente altro che una nuova generazione di Africa Twin. Nulla in comune con le vecchie XRV se non la vocazione avventuriera e la propensione ad adattarsi a tutti i terreni. Quel prototipo tassellato cattivo e sporco di fango ci mise un anno per trasformarsi nella CRF 1000 L Africa Twin che tutti conosciamo, di fatto l’Africona del nuovo millennio. La maxi CRF perdeva la V delle sue antenate in favore di un bicilindrico parallelo da 998 cc e 95 cavalli di più semplice realizzazione. Formato ruote 21-18 a raggi, capiente serbatoio da 19 litri, e generosa escursione ruote da 230-220 mm con forcella rovesciata Showa da 45 e mono sempre Showa entrambi pluri regolabili. Alla versione ‘base’ veniva affiancata la Adventure Sports, con serbatoio maggiorato, sospensioni con ancor più corsa e altri accessori.
Moderni concentrati di tecnologia, che però in fondo non tradivano di un millimetro lo spirito originario di moto solida, concreta, progettata per portarci da casa sino al cuore del deserto e ritorno.
Nel 2020 l’ultimo avvicendamento: la CRF 1000 diventa 1100, l’estetica è aggiornata ma non stravolta, meccanicamente è invece una moto nuova con un telaio ridisegnato. Nel complesso guadagna qualche cavallo (7) ma anche qualche chilo. Rimane la versione Adventure Sports, che si fa però più turistica della base, non più fuoristradistica.
Il resto, è storia recente.