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Fin dalla sua nascita il motore turbo ha fatto sognare tutti con le sue potenze mostruose e oggi ha ancora un grande fascino. Ma perché tutto questo? Ripercorriamo insieme la sua storia e lo scoprirete

La sovralimentazione è un’idea vecchia quasi quanto il motore, ma è dalla fine degli Anni 70 che si è stabilmente insediata nell’immaginario collettivo. Dopo aver colonizzato la F1 (grazie al fiuto e alla tenacia di un ingegnere Renault) e poco dopo i Rally, il “turbo” ha fatto sognare tutti con le sue potenze mostruose – anche oltre i 1000 CV dai 1.500 cc di F1 e in anni in cui 100 CV su un 1.500 di serie erano già tanti. È stata quindi l’applicazione racing del turbocompressore a togliere il sonno agli appassionati, nonostante negli Anni 70 la sovralimentazione fosse una tecnica già consolidata.
La sovralimentazione è un’idea vecchia quasi quanto il motore, ma è dalla fine degli Anni 70 che si è stabilmente insediata nell’immaginario collettivo. Dopo aver colonizzato la F1 (grazie al fiuto e alla tenacia di un ingegnere Renault) e poco dopo i Rally, il “turbo” ha fatto sognare tutti con le sue potenze mostruose – anche oltre i 1000 CV dai 1.500 cc di F1 e in anni in cui 100 CV su un 1.500 di serie erano già tanti. È stata quindi l’applicazione racing del turbocompressore a togliere il sonno agli appassionati, nonostante negli Anni 70 la sovralimentazione fosse una tecnica già consolidata.

L’aviazione e i primi motori sovralimentati

I motori sovralimentati con compressore erano già comuni dopo la Prima Guerra Mondiale, quando i primi aerei si trovarono a dover fronteggiare il problema della scarsità di aria in quota. Un motore endotermico, infatti, è una macchina che estrae potenza da fenomeni di combustione, per ottenere i quali serve miscelare un combustibile (sempre benzina nelle moto) e un comburente (l’ossigeno presente nell’aria). La potenza disponibile è quindi limitata da tre fattori: la disponibilità di combustibile, la disponibilità di comburente e la capacità del motore di completare e sfruttare la combustione (per la quale esistono una serie di misure che generalmente vanno sotto il nome di rendimento). Gli aerei della Prima Guerra Mondiale, oltre ad avere un rendimento piuttosto basso, avevano problemi di potenza perché salendo di quota la densità dell’aria diminuisce (a 5.000 metri di quota è circa la metà di quella al livello del mare), e quindi diminuisce la disponibilità di comburente. Per ovviare a questo problema, si ricorse appunto al compressore. Di compressori ce ne sono di tantissimi tipi; ma qualunque sia il principio di funzionamento, la cosa essenziale è che si tratta di un’altra macchina, inserita a monte del motore endotermico per comprimere l’aria che questo aspira. Comprimere significa aumentarne la densità, per cui un compressore può prendere l’aria che si trova in quota e avvicinarla al valore di densità a terra, riportando la potenza erogata dal motore vicino ai livelli nominali.
 
Il motore aeronautico BMW 801D degli Anni 40: 14 cilindri radiali a doppia stella, sovralimentato (fonte: Wikimedia/Nimbus227)

nati per i cieli, i sistemi di sovralimentazione hanno costruito la loro leggenda nelle applicazioni terrestri

Dal cielo alla terra

Su un aereo si tratta di una questione vitale, ma i tecnici riconvertiti ai motori civili al termine della guerra non tardarono a rovesciare il ragionamento: usando un compressore su un motore a scoppio “terrestre”, questo avrebbe funzionato con una densità dell’aria superiore a quella ambiente. Avrebbe cioè avuto a disposizione una maggiore portata d’aria, e aumentando adeguatamente la portata di combustibile si sarebbe prodotta una maggiore potenza anche a parità di rendimento del motore. Per questo iniziano gli esperimenti, prima in campo auto e poi in campo moto: inglesi, tedeschi e italiani ci danno dentro. Douglas, BMW, Garelli e poi Moto Guzzi, Gilera, NSU fanno incetta di vittorie, titoli e record. Il motivo è semplice, ed è lo stesso che porta la FIM a vietare la sovralimentazione nel secondo Dopoguerra: i motori sovralimentati in linea teorica funzionano come un motore di cilindrata maggiore. Ovvero, ragionando in maniera grossolana ma semplice da capire, un motore di 1.000 cc sovralimentato con 0,2 bar (pressione in ingresso = 1 bar ambiente + 0,2 bar di sovralimentazione) ha le prestazioni di un motore tecnicamente identico di 1.200 cc (1.000 cc alimentati da 1,2 bar = 1.200 cc alimentati da 1 bar). In realtà, però, le cose non vanno esattamente così; ed è paradossalmente in questo “disallineamento” rispetto alla teoria che si annida il fascino della sovralimentazione. Se davvero il motore sovralimentato fosse esattamente equivalente a un motore di cilindrata maggiore, a malapena ci se ne accorgerebbe: ed è quello che succede sui moderni sovralimentati automobilistici, che hanno come obiettivo dichiarato il “downsizing”, cioè far sembrare un 1.000 equivalente a un 1.600 o a un 1.800. Il risultato è un motore con una spinta dolce e corposa… ma anche ben poco affascinante.

Il disallineamento

Per rendere un motore sovralimentato indistinguibile da un aspirato c’è voluta la più evoluta tecnologia del controllo degli ultimi anni. Per mezzo secolo, però, le differenze sono rimaste marcate per molti motivi. Torniamo al nostro motore da 1.000 cc: tanto per cominciare, ha dimensioni più piccole di un 1.200 e quindi tendenzialmente ha attriti più bassi – il che va a suo favore – ma anche una densità di potenza più alta, che fa sì che il calore da smaltire sia in proporzione maggiore – il che è un problema. Soprattutto, il compressore ha in un certo senso una sua “personalità” che si sovrappone a quella del motore endotermico. Ha una portata d’aria che può produrre, un regime ottimale di funzionamento e un assorbimento netto di potenza, perché essendo una macchina e dovendo impiegare lavoro per comprimere l’aria, questo lavoro qualcuno lo deve pur fornire: e questo qualcuno è ovviamente il motore, di solito tramite cinghie o meccanismi che “trascinano” il compressore. Ecco, insomma, che le cose si complicano. Perché la portata e la pressione che il compressore è in grado di fornire possono non crescere linearmente con il numero di giri. Perché inviare in camera di combustione un volume d’aria così grande rispetto a quella aspirata “naturalmente” può richiedere modifiche fluidodinamiche e meccaniche. Perché altre modifiche possono essere richieste dalla maggior quantità di calore prodotta per unità di volume. Perché, infine, la potenza assorbita dal compressore va sottratta all’aumento di potenza del motore legata alla sovralimentazione, e il bilancio può non essere sempre favorevole: per cui il comportamento di un motore sovralimentato può essere molto diverso rispetto al motore di partenza.

geometria sofisticata, lavorazioni raffinatissime, materiali speciali: il mondo del turbo è uno dei vertici della meccanica motoristica

Il turbo

Nei motori racing questo problema è relativo, visto che quello che conta è soprattutto la potenza. Ma è chiaro che il compressore introduce quella che gli ingegneri chiamano una “non-linearità”: per effetto del compressore, il motore tende ad erogare una potenza che non cresce linearmente con il numero di giri. Tra tutti i sistemi di sovralimentazione, quello che presenta al massimo grado questo fenomeno è il turbo: e pur avendo molte caratteristiche interessanti, il turbo è diventato “il” sistema di sovralimentazione per eccellenza proprio per questo motivo. È proprio la sua proverbiale non linearità (il famoso “calcio nella schiena”) che ha fatto entrare i motori turbocompressi nei sogni erotici di tanti appassionati: fin dai tempi dei cow-boy e del rodeo, un’erogazione repentina e da domare è sempre sinonimo di virilità: e quando negli Anni 80 il turbo passò dalla pista alla strada, fu un successo immediato.  “Turbo” è l’abbreviazione di “Turbocompressore”: è infatti sempre un compressore che si occupa di aumentare la densità e quindi la portata dell’aria in ingresso. La grossa differenza sta nel fatto che il lavoro della compressione non viene sottratto al motore: anziché la solita cinghia o cascata di ingranaggi, a far ruotare il compressore provvede una turbina azionata dai gas di scarico. Il turbo è quindi capace di recuperare parte dell’energia dei gas di scarico, che il motore altrimenti butterebbe via. Per riuscirci, il turbocompressore colloca su uno stesso albero una turbina, inserita nel condotto di scarico, e un compressore inserito in quello di aspirazione: in questo modo l’espansione dei gas di scarico mette in rotazione la turbina, che a sua volta aziona il compressore che aumenta la densità dell’aria aspirata. E dal momento che viene recuperato lavoro, il rendimento del motore turbocompresso è nominalmente più alto: cioè non solo viene bruciato più carburante, ma questo viene fatto in modo più efficiente: bingo!
Anni 80: Honda CX 650 Turbo
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La Honda CX 650 Turbo, che nel 1983 era una delle più potenti moto in circolazione: sprigionava 100 CV tondi tondi, esattamente la metà della odierna Kawasaki Z H2

Nessuno ti regala niente

Come ammonisce il detto, però, al mondo nessuno ti regala niente: e anche l’aumento di prestazioni di un motore turbo avviene a caro prezzo. Non solo perché bisogna prevedere un giro tubi (scarico e aspirazione) adatto ad accogliere il turbocompressore; ma anche perché questo deve tenere ben separati i gas di scarico e i gas freschi: se l’aria si scaldasse infatti si espanderebbe, vanificando in larga parte il lavoro del compressore. La compressione è peraltro una operazione che di per sé scalda l’aria, il che può rendere necessario raffreddarla prima di inviarla alla combustione: questo viene fatto da uno scambiatore (aria-aria, aria-olio, aria-liquido) detto “intercooler”, che è un altro elemento da prevedere e inserire nell’impianto. Non è finita: la turbina è un componente geometricamente complesso, che richiede lavorazioni molto precise; per di più, è immersa in gas di scarico che su un motore a benzina possono raggiungere i 1.000 °C, rendendo praticamente obbligatorio il ricorso a materiali sofisticati e costosi (superleghe) per garantirne la stabilità. In più, è una macchina piuttosto “rigida”, che ama funzionare in un condizioni ben definite. È per esempio necessario salvaguardarla da situazioni in cui la pressione di partenza è troppo bassa o troppo alta, il che richiede l’introduzione di valvole di sfiato (pop-off, waste-gate) che complicano ulteriormente il circuito. Si può correggere in parte questa rigidità passando a turbine o compressori a geometria variabile, che però aumentano ancora – e di parecchio – i costi e la complessità del sistema. Ai quali vanno aggiunti, non dimentichiamolo, quelli relativi all’elettronica di controllo.

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Nel 2013 al Salone di Tokyo Suzuki svela la Recursion si tratta di una semicarenata compatta dal design futuristico, con telaio a doppio trave, che monta un nuovo motore bicilindrico in linea da 588 cc, raffreddato a liquido, dotato di turbo e intercooler

Se il gioco non vale la candela

Insomma: non è difficile capire quale sia la domanda di fondo che i tecnici affrontano quando pensano a un motore sovralimentato: vale la pena spendere soldi per turbina, compressore, valvole di regolazione ed elettronica di controllo se basta salire un po’ di cilindrata per ottenere le stesse prestazioni? La risposta a questa domanda è generalmente “no”, e questo spiega la scomparsa dei motori turbo dal mondo motociclistico. Sono rimasti in ambito auto ma in una forma diversa – uniti a sistemi di iniezione diretta e a un downsizing aggressivo, anche nel numero di cilindri – per aumentare il rendimento e ridurre consumi ed emissioni su veicoli dal chilometraggio importante: centinaia di migliaia di km. E comunque non tutti hanno seguito questa strada – Mazda ad esempio non ha mai fatto downsizing, eppure ha valori di emissioni fra i migliori del mercato auto. Tornando al nostro motore da 1.000 cc, un incremento di cilindrata del 20% ha un costo quasi trascurabile, mentre un turbocompressore con il relativo impianto può costare diverse centinaia o migliaia di euro. Quindi diventa competitivo solo se c’è un vincolo normativo (ad esempio forti tasse sopra una certa cilindrata) o un motivo di immagine. Dobbiamo qui ricordare che l’immagine a cui il turbo deve la sua fama è quella trasgressiva e ribelle dei primi sistemi Anni 80. Una fama legata, come abbiamo visto, alla intrinseca “non linearità” di erogazione di quei motori: per effetto della loro “rigidità” e dei sistemi di intercettazione, erano motori bruschi, nei quali la turbina restava a lungo inattiva (con un ritardo così evidente da meritarsi un nome: “turbo-lag”) per poi entrare in scena in modo a volte brutale. Ma se sulle auto una certa dose di brutalità poteva essere accettabile, nelle moto era troppo pericolosa, e difatti le poche moto turbo dei primi Anni 80 rinunciarono a erogare tutto il loro potenziale: la Honda CX 500 del 1980 aveva 78 CV contro i 50 della aspirata, e la Kawasaki GPz 750 Turbo arrivava a 112 CV. Tanti, ma non tantissimi. L’illusione di avere la potenza di una maxi con un motore medio fu presto evidente, perché le moto turbo costavano tutte più delle equivalenti maxi aspirate; la Moto Morini 500 Turbo non arrivò neppure mai in produzione. Il bilancio sfavorevole tra costi e benefici diede il colpo di grazia a una tecnologia complessa da mettere a punto su una moto, portandola rapidamente al tramonto. E bisogna dire senza troppi rimpianti.
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Esteticamente le due moto di differenziano solamente per la carenatura e il frontale: quello della "R" e` in carbonio ed e` ornato da due coppie di deflettori che creano deportanza alle alte velocita`. Scenografico il telaio a traliccio, progettato anche per favorire la dissipazione del calore. Splendidi i dettagli tra i quali segnaliamo il bel monobraccio, le pompe al manubrio e i cerchi
Pregiata la componentistica: l'impianto frenante (uguale per entrambe) sfoggia esclusive pinze monoblocco Brembo. Scenografica la forcella, con tutti i registri sulla sommita`, raffinato l'ammortizzatore di sterzo
Il magnifico scarico "racing" della H2R
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Poche ma determinanti le differenze tecniche tra le due moto, relative all'elettronica, all'impianto di scarico, agli alberi a camme, al rapporto di compressione e al valore della trasmissione finale
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Nel 2015 Kawasaki alza l'asticella presentando la H2 e la sorella H2R

Il turbo nelle moto e negli scooter (di ieri) e di oggi

Lo sviluppo portato avanti dal settore auto nei decenni successivi è stato comunque così vertiginoso che anche qualche Casa moto ha pensato di approfittarne, sempre per i due motivi che abbiamo indicato sopra: o normativi o di immagine. La prima in tempi moderni è stata Peugeot, che forte anche del know-how della sua divisione auto ha pensato di rilanciare l’immagine sportiva e alternativa dei suoi scooter con il Jet-Force Compressor e successivamente del Satelis Compressor, dotato di compressore volumetrico. Era un 125 4T che nella versione a piena potenza raggiungeva i 20 CV; peccato che per questioni di patente dovesse essere limitata a 15 CV, per cui a parte la bella schiena, le prestazioni erano simili a quelle di un buon 125 aspirato (un esempio di risposta sbagliata a un vincolo regolamentare). Per giunta, per godersi i pochi Nm aggiuntivi del compressore ai medi bisognava accettare oltre all’aumento di costo anche il sacrificio del sottosella, occupato per intero da un intercooler aria-aria. Il fascino esotico del “turbo” (che in realtà non c’era) non bastò a giustificarne l’esistenza, e il Jet Force Compressor sparì dopo aver venduto poche unità. L’altro caso eclatante è rappresentato dalla serie H2 di Kawasaki, operazione eminentemente di immagine. Sfruttando competenze all’interno del gruppo e guardandosi bene dal fare un sistema turbo, Kawasaki ha introdotto un compressore centrifugo che rende comunque uniche le sue moto. Soprattutto con la prima Ninja H2, la Casa ne ha approfittato per rinnovare la sua immagine, addirittura con un nuovo logo e stilemi (come il telaio a traliccio in tubi verdi) ripresi poi con successo in tutta la gamma. A “fare rumore” ci pensa soprattutto la versione H2R (solo uso pista) dove la sovralimentazione non “castrata” porta alla bellezza di 326 CV, peraltro forse anche più godibili dei 200 CV “autolimitati” delle H2 stradali (Ninja H2, Ninja H2 SX, Z H2). L’averci costruito una gamma, e soprattutto il ritorno di immagine effettivamente ottenuto hanno senz’altro giustificato l’investimento, che ha avuto ragioni tutt’altro che tecniche. Quanto alla Suzuki Recursion, bicilindrica 650 turbo presentata a Tokyo nel 2013 e mai concretizzata, può darsi che veda un giorno la luce; ma per quanto abbiamo visto sarebbe sicuramente un caso di cattiva applicazione della sovralimentazione, come la Honda CX 500, la Suzuki XN 85 Turbo e la Yamaha XJ 650 Turbo del 1980-1981: non farà immagine e avrà prestazioni allineate a una attuale 800 o 900… a un costo nettamente più alto. Alla fine, nel caso delle moto è difficile dar torto agli ingegneri americani quando dicono “There’s no replacement for displacement”: non c’è niente di meglio di qualche cc in più.
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