Moto & Scooter
La Bianchi 350 di Tazio Nuvolari
Pagina principale
Con questo test, Cathcart può dire di aver davvero provato tutto in campo motociclistico. La Freccia Celeste infatti ha segnato un'epoca, non solo per la tecnica avanzata, ma per le gesta del "Nivola"
Al di fuori dai confini italiani, le gesta del marchio Bianchi sono poco conosciute. L'azienda lombarda, infatti, è principalmente nota per aver prodotto, all'inizio degli anni Sessanta, una serie di 250, 350 e 500 bicilindriche da Gran Premio con le quali hanno corso con discreto successo Silvio Grassetti e Remo Venturi, ma anche alcuni piloti britannici, tra cui Bob McIntyre, Derek Minter e Alistair King. Tuttavia, questa rappresenta solo una parte di una realtà storica che ha avuto un ruolo pionieristico nella produzione motociclistica, oltre ad aver dominato l'ambito sportivo verso la fine degli anni Venti grazie a un'innovativa 350, con la quale ha ottenuto ben 95 vittorie tra il 1925 e il 1930.
In realtà, la Bianchi si era già impegnata sul fronte agonistico sia prima che subito dopo la prima guerra mondiale, ma è stato solo a partire dal 1924 che la fama della Casa milanese si è diffusa in tutta Europa, ovvero da quando ha introdotto la monocilindrica di 350 cc denominata Freccia Celeste.
Quest'ultima, così chiamata per via della livrea azzurra che caratterizzava tutte le realizzazioni del marchio Bianchi, ha rappresentato un esempio molto importante per l'evoluzione tecnica del motociclismo perché si è trattato del primo esemplare italiano con distribuzione DOHC (doppio albero a camme in testa) comandata attraverso ingranaggi a coppie coniche.
Quest'ultima, così chiamata per via della livrea azzurra che caratterizzava tutte le realizzazioni del marchio Bianchi, ha rappresentato un esempio molto importante per l'evoluzione tecnica del motociclismo perché si è trattato del primo esemplare italiano con distribuzione DOHC (doppio albero a camme in testa) comandata attraverso ingranaggi a coppie coniche.
Motore innovativo
Il progetto di Mario Baldi, tecnico della Bianchi, impiegava all'epoca una misura della corsa particolarmente contenuta (81 mm) per un monocilindrico verticale con 74 mm di alesaggio. La canna del cilindro era in ghisa, mentre la testa era sormontata da una struttura in alluminio all'interno della quale c'erano gli organi della distribuzione, compresi tre grandi ingranaggi. Quelli esterni erano imbullonati direttamente agli alberi a camme, che a loro volta agivano direttamente sulle due valvole, caratterizzate da un angolo incluso di 90°. L'ingranaggio centrale, invece, possedeva una serie di denti sulla circonferenza che trasmettevano il moto a quelli esterni, mentre un'altra serie di denti conici nella parte interna veniva a sua volta azionata da un alberello proveniente dal basamento (alla cui estremità opposta c'era un'altra coppia conica).
In pratica, questo motore ha rappresentato il primo esempio storico di ciò che in futuro sarebbe diventato il classico schema dei motori motociclistici ad alte prestazioni. Un layout che, tra i monocilindrici, ha trovato una delle sue massime espressioni sul Norton Manx, mentre tra i bicilindrici va senz'altro citata la Ducati desmodromica che ha permesso a Paul Smart di vincere la 200 Miglia di Imola nel 1972, dando così vita a un'intera generazione di moto stradali, antenate dell'odierna 1198 R.
Il resto della 350 progettata dall'Ingegner Baldi era altrettanto innovativo per l'epoca, con l'albero motore supportato da due cuscinetti e caratterizzato da due piccole masse volaniche, mentre la biella in acciaio forgiato con sezione ad H disponeva di un cuscinetto a rulli privo di gabbia e il pistone Borgo in lega leggera, nonostante la pronunciata bombatura del suo cielo, determinava un rapporto di compressione abbastanza basso (5,5:1).
La lubrificazione automatica (importante innovazione tecnologica rispetto a quella manuale in voga fino a quel momento) era garantita da una pompa meccanica dalla Best & Lloyd posta sul lato destro del basamento, comandata dalla coppia conica inferiore, mentre dall'altra parte del motore c'era un generatore Bosch, comandato tramite catena direttamente dall'albero motore.
In pratica, questo motore ha rappresentato il primo esempio storico di ciò che in futuro sarebbe diventato il classico schema dei motori motociclistici ad alte prestazioni. Un layout che, tra i monocilindrici, ha trovato una delle sue massime espressioni sul Norton Manx, mentre tra i bicilindrici va senz'altro citata la Ducati desmodromica che ha permesso a Paul Smart di vincere la 200 Miglia di Imola nel 1972, dando così vita a un'intera generazione di moto stradali, antenate dell'odierna 1198 R.
Il resto della 350 progettata dall'Ingegner Baldi era altrettanto innovativo per l'epoca, con l'albero motore supportato da due cuscinetti e caratterizzato da due piccole masse volaniche, mentre la biella in acciaio forgiato con sezione ad H disponeva di un cuscinetto a rulli privo di gabbia e il pistone Borgo in lega leggera, nonostante la pronunciata bombatura del suo cielo, determinava un rapporto di compressione abbastanza basso (5,5:1).
La lubrificazione automatica (importante innovazione tecnologica rispetto a quella manuale in voga fino a quel momento) era garantita da una pompa meccanica dalla Best & Lloyd posta sul lato destro del basamento, comandata dalla coppia conica inferiore, mentre dall'altra parte del motore c'era un generatore Bosch, comandato tramite catena direttamente dall'albero motore.
Ciclistica convenzionale
La trasmissione primaria prevedeva una frizione a secco e un cambio a tre marce che, essendo alloggiato in una struttura separata, era montato in una sorta di tunnel all'interno del basamento, garantendo così maggiore rigidità all'insieme e permettendo al tempo stesso di regolare la tensione della catena primaria. La possibilità di rimuovere la scatola del cambio senza "toccare" il resto del motore rappresentava senza dubbio una caratteristica innovativa (sulla falsa riga dei moderni cambi estraibili impiegati in MotoGP), pur prevedendo, in linea con gli standard dell'epoca, un comando manuale disposto sul lato destro del serbatoio del carburante.
Il motore a carter secco rendeva necessaria la presenza di un piccolo serbatoio dell'olio, posizionato sul tubo verticale del telaio, dietro al motore, con un'ulteriore riserva di lubrificante in un altro recipiente più piccolo, disposto trasversalmente sulla parte superiore del serbatoio, con una pompa manuale sulla sinistra che, negli anni successivi, sarebbe stata destinata alla lubrificazione manuale della catena primaria.
Il telaio della Freccia Celeste era viceversa relativamente convenzionale per l'epoca, con una struttura monoculla originariamente abbinata a un lungo serbatoio del carburante, incastonato tra i tubi della parte superiore, e a una forcella a parallelogramma di tipo Webb con ammortizzatore della Andre, mentre il retrotreno era rigido e le ruote avevano entrambe un diametro di 21".
Rispetto alla progettazione particolarmente avanzata del motore, la Bianchi attingeva anacronisticamente alla propria esperienza nel campo delle biciclette per l'impianto frenante, adottando un sistema a pattini sia all'anteriore che al posteriore (che agiva su piste di piccolo diametro vincolate direttamente ai mozzi ruota) del tutto inadatto a fermare un moto capace di raggiungere una velocità massima di circa 140 Km/h.
Al momento del suo debutto, nel 1924, con una configurazione a singolo albero a camme in testa, la Freccia Celeste veniva accreditata di una potenza pari a 20 CV a 5.000 giri, valore oltremodo promettente per l'epoca, confermato poi dalle effettive prestazioni della moto nelle mani di uno dei più grandi piloti della storia degli sport motoristici, sia a due che a quattro ruote: il mantovano Tazio Nuvolari.
Il motore a carter secco rendeva necessaria la presenza di un piccolo serbatoio dell'olio, posizionato sul tubo verticale del telaio, dietro al motore, con un'ulteriore riserva di lubrificante in un altro recipiente più piccolo, disposto trasversalmente sulla parte superiore del serbatoio, con una pompa manuale sulla sinistra che, negli anni successivi, sarebbe stata destinata alla lubrificazione manuale della catena primaria.
Il telaio della Freccia Celeste era viceversa relativamente convenzionale per l'epoca, con una struttura monoculla originariamente abbinata a un lungo serbatoio del carburante, incastonato tra i tubi della parte superiore, e a una forcella a parallelogramma di tipo Webb con ammortizzatore della Andre, mentre il retrotreno era rigido e le ruote avevano entrambe un diametro di 21".
Rispetto alla progettazione particolarmente avanzata del motore, la Bianchi attingeva anacronisticamente alla propria esperienza nel campo delle biciclette per l'impianto frenante, adottando un sistema a pattini sia all'anteriore che al posteriore (che agiva su piste di piccolo diametro vincolate direttamente ai mozzi ruota) del tutto inadatto a fermare un moto capace di raggiungere una velocità massima di circa 140 Km/h.
Al momento del suo debutto, nel 1924, con una configurazione a singolo albero a camme in testa, la Freccia Celeste veniva accreditata di una potenza pari a 20 CV a 5.000 giri, valore oltremodo promettente per l'epoca, confermato poi dalle effettive prestazioni della moto nelle mani di uno dei più grandi piloti della storia degli sport motoristici, sia a due che a quattro ruote: il mantovano Tazio Nuvolari.
Il mantovano volante
Anche se John Surtees rimane l'unico pilota ad aver vinto un titolo mondiale sia con le moto che con le auto, i cui campionati furono istituiti solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, non c'è dubbio che Nuvolari meriti pari considerazione. Il suo esordio nel mondo automobilistico, prima al volante di una Chiribiri, poi dell'Alfa Romeo e, successivamente, dell'impressionante Auto-Union da 600 CV, sono entrati di diritto nella leggenda di questo sport, mentre è meno noto che, nel 1920, Nuvolari vinse una serie di gare motociclistiche in tutta Europa, contro la crema del motociclismo britannico e non, sempre in sella alla Bianchi Freccia Celeste 350. Ciò non gli impedì comunque di aggiudicarsi due volte due volte il titolo italiano della classe 500 anche guidando una Sunbeam.
Inoltre, a differenza di Surtees, ma anche di personaggi apparsi successivamente, come Mike Hailwood e Johnny Cecotto, per molti anni Nuvolari portò avanti contemporaneamente la carriera nelle auto e nelle moto con successi ai più alti livelli, senza che le sue prestazioni in gara ne risentissero.
Nuvolari è stato pilota di moto per circa cinque anni, guidando soprattutto Garelli, Norton e Indian prima di approdare alla Bianchi. Il suo debutto su due ruote avvenne nel 1920, all'età (piuttosto avanzata per gli standard odierni) di 28 anni. Il motivo di questo "ritardo" è naturalmente dovuto al primo conflitto mondiale che, insieme al secondo, ha in effetti "accorciato" la carriera agonistica di Nuvolari di circa 6 anni.
Nel 1922, "Nivola" fece registrare la sua prima vittoria sul Circuito di Parma, in sella a una Garelli 350 a due tempi, dopo che l'anno precedente aveva conseguito il suo primo successo su quattro ruote a bordo di una Ansaldo. A partire da quel momento, Nuvolari unì le due attività per circa un decennio con uguale successo, diventando l'unico pilota a potersi fregiare di un'impresa del genere.
Fu così che, nel 1924, "il mantovano volante" fece la conoscenza di Enzo Ferrari sul Circuito del Savio, a Ravenna, dove il Drake vinse per la seconda volta consecutiva la classifica assoluta a bordo della sua Alfa Romeo e Nuvolari terminò alle sue spalle, vincendo comunque la categoria di cilindrata inferiore, al volante di una Chiribiri. Tra l'altro, questa impresa valse a Ferrari l'onore, concessogli direttamente dalla vedova di Francesco Baracca, di applicare sulla propria vettura il Cavallino Rampante che caratterizzava gli aerei dell'eroe di guerra caduto
. L'amicizia e il rispetto reciproco tra Enzo Ferrari e Tazio Nuvolari nacquero proprio quel giorno, con il primo che di lì a poco si sarebbe ritirato dalle corse per fondare la propria Scuderia (inizialmente impegnata in ambito motociclistico con le monocilindriche della inglese Rudge) con Nuvolari come pilota di punta.
Nel frattempo, però, Nuvolari aveva ormai preso accordi con il commendator Tommaselli, direttore della Bianchi, per la stagione 1924, incentivato dalla vittoria assoluta dell'inglese emigrato in Italia Edward Self nella Milano-Napoli a bordo del prototipo della Freccia Celeste. Il risultato di questa scelta si tradusse in una serie quasi ininterrotta di vittorie per il resto del decennio, che terminò solo quando Nuvolari abbandonò definitivamente le due ruote per le quattro, nel 1930, dopo aver vinto la Mille Miglia con l'Alfa Romeo.
Inoltre, a differenza di Surtees, ma anche di personaggi apparsi successivamente, come Mike Hailwood e Johnny Cecotto, per molti anni Nuvolari portò avanti contemporaneamente la carriera nelle auto e nelle moto con successi ai più alti livelli, senza che le sue prestazioni in gara ne risentissero.
Nuvolari è stato pilota di moto per circa cinque anni, guidando soprattutto Garelli, Norton e Indian prima di approdare alla Bianchi. Il suo debutto su due ruote avvenne nel 1920, all'età (piuttosto avanzata per gli standard odierni) di 28 anni. Il motivo di questo "ritardo" è naturalmente dovuto al primo conflitto mondiale che, insieme al secondo, ha in effetti "accorciato" la carriera agonistica di Nuvolari di circa 6 anni.
Nel 1922, "Nivola" fece registrare la sua prima vittoria sul Circuito di Parma, in sella a una Garelli 350 a due tempi, dopo che l'anno precedente aveva conseguito il suo primo successo su quattro ruote a bordo di una Ansaldo. A partire da quel momento, Nuvolari unì le due attività per circa un decennio con uguale successo, diventando l'unico pilota a potersi fregiare di un'impresa del genere.
Fu così che, nel 1924, "il mantovano volante" fece la conoscenza di Enzo Ferrari sul Circuito del Savio, a Ravenna, dove il Drake vinse per la seconda volta consecutiva la classifica assoluta a bordo della sua Alfa Romeo e Nuvolari terminò alle sue spalle, vincendo comunque la categoria di cilindrata inferiore, al volante di una Chiribiri. Tra l'altro, questa impresa valse a Ferrari l'onore, concessogli direttamente dalla vedova di Francesco Baracca, di applicare sulla propria vettura il Cavallino Rampante che caratterizzava gli aerei dell'eroe di guerra caduto
. L'amicizia e il rispetto reciproco tra Enzo Ferrari e Tazio Nuvolari nacquero proprio quel giorno, con il primo che di lì a poco si sarebbe ritirato dalle corse per fondare la propria Scuderia (inizialmente impegnata in ambito motociclistico con le monocilindriche della inglese Rudge) con Nuvolari come pilota di punta.
Nel frattempo, però, Nuvolari aveva ormai preso accordi con il commendator Tommaselli, direttore della Bianchi, per la stagione 1924, incentivato dalla vittoria assoluta dell'inglese emigrato in Italia Edward Self nella Milano-Napoli a bordo del prototipo della Freccia Celeste. Il risultato di questa scelta si tradusse in una serie quasi ininterrotta di vittorie per il resto del decennio, che terminò solo quando Nuvolari abbandonò definitivamente le due ruote per le quattro, nel 1930, dopo aver vinto la Mille Miglia con l'Alfa Romeo.
La vittoria più bella
Nonostante che la Bianchi avesse certamente dimostrato di avere i numeri per competere ai massimi livelli, è indubbio che i risultati migliori li abbia comunque ottenuti proprio insieme a Nuvolari, il quale con grinta, abilità e determinazione regalò alla Casa italiana numerosi successi. Tra questi, il più significativo fu senza dubbio quello ottenuto in occasione del Gran Premio d'Italia del 1925, sul circuito di Monza, che vide contrapposti i migliori piloti europei delle classi 350 e 500 (che correvano insieme su una distanza di oltre 300 Km), tra cui Wal Handley sulla Rex Acme vincitrice del Tourist Trophy, Jimmy Simpson e Frank Longman sulle AJS 350, e Freddie Dixon sulla Douglas 500 bicilindrica.
In quell'occasione, nonostante disponesse di una nuova versione della Freccia Celeste in grado di erogare 28 CV a 6.200 giri grazie ad alcune migliorie interne, Nuvolari non era accreditato come favorito, anzi, non avrebbe dovuto neppure prendere parte alla gara. Sette giorni prima, infatti, in occasione del suo debutto sulla Alfa Romeo ufficiale, sempre sul circuito di Monza, si era schiantato ad alta velocità per la foratura di un pneumatico, riportando numerosi ferite e contusioni, oltre a diverse fratture, tra cui quella di alcune costole. Tuttavia, grazie a una forza di volontà assolutamente fuori dal comune, Nuvolari si era presentato al Gran Premio d'Italia indossando un corsetto di cuoio sopra il bendaggio che gli era stato applicato. In pratica, la metà superiore del suo corpo risultava completamente avvolta dalle fasciature, cosa che lo limitava nei movimenti e lo aveva costretto a farsi aiutare sia per salire in moto, che per partire dal fondo dello schieramento al momento del via!
Fatto sta che, in circa due ore e mezzo di gara, Nuvolari non solo stabilì il nuovo record del circuito alla media di 135,44 Km/h, ma riuscì anche a recuperare dall'ultima posizione fino alla prima, superando uno dopo l'altro tutti i suoi avversari, compresi quelli in sella alle ben più potenti 500 e regalando alla Bianchi un trionfo sensazionale, completato dai suoi compagni di squadra Maffeis e Self, rispettivamente secondo e terzo assoluti. Una volta tagliato il traguardo, Nuvolari crollò a terra, per poi essere portato in trionfo dalla folla.
Allo stesso modo, nel 1926, Nuvolari si ruppe la mano sinistra andando a sbattere con il manubrio della sua Bianchi contro il muro di una casa al Circuito del Savio, ma, nonostante il dolore, proseguì la sua corsa andando addirittura a vincere, prima di svenire tra le braccia dei meccanici…
A smentire poi che le Bianchi fossero particolarmente competitive solo sulle piste veloci come Monza, dove dominò il GP d'Italia dal 1925 al 1929, pensarono i successi della Freccia Celeste sul Circuito del Lario (il cosiddetto Tourist Trophy italiano), caratterizzato dai tortuosi saliscendi che circondano il lago di Como. La Bianchi si aggiudicò questo estenuante appuntamento per ben sei volte di fila, con Nuvolari protagonista nel 1925, 1926, 1927, 1929 e 1930, facendo segnare in quest'ultima occasione una media più elevata rispetto al vincitore della classe 500. Ciò fu reso possibile anche grazie alla rinnovata versione della Freccia Celeste, apparsa nel 1927, con telaio, sella e serbatoio rivisti, freni a tamburo e doppio scarico, pur conservando la distribuzione a due valvole.
Un esemplare del genere è apparso qualche anno fa durante il tradizionale meeting per moto storiche che si svolge a Misano e, grazie alla disponibilità del proprietario, Carlo Montevecchi, ho avuto la straordinaria possibilità di provare non solo quello che è considerato come l'unico esemplare di Freccia Celeste bialbero attualmente esistente, ma anche la moto che quasi certamente è stata portata in gara da Nuvolari nel 1927, come testimonia il motore punzonato con il n° 15.507. La stessa Bianchi, infatti, produceva anche una versione "clienti" della Freccia Celeste, ma quest'ultima era caratterizzata dalla distribuzione a singolo albero a camme in testa.
In quell'occasione, nonostante disponesse di una nuova versione della Freccia Celeste in grado di erogare 28 CV a 6.200 giri grazie ad alcune migliorie interne, Nuvolari non era accreditato come favorito, anzi, non avrebbe dovuto neppure prendere parte alla gara. Sette giorni prima, infatti, in occasione del suo debutto sulla Alfa Romeo ufficiale, sempre sul circuito di Monza, si era schiantato ad alta velocità per la foratura di un pneumatico, riportando numerosi ferite e contusioni, oltre a diverse fratture, tra cui quella di alcune costole. Tuttavia, grazie a una forza di volontà assolutamente fuori dal comune, Nuvolari si era presentato al Gran Premio d'Italia indossando un corsetto di cuoio sopra il bendaggio che gli era stato applicato. In pratica, la metà superiore del suo corpo risultava completamente avvolta dalle fasciature, cosa che lo limitava nei movimenti e lo aveva costretto a farsi aiutare sia per salire in moto, che per partire dal fondo dello schieramento al momento del via!
Fatto sta che, in circa due ore e mezzo di gara, Nuvolari non solo stabilì il nuovo record del circuito alla media di 135,44 Km/h, ma riuscì anche a recuperare dall'ultima posizione fino alla prima, superando uno dopo l'altro tutti i suoi avversari, compresi quelli in sella alle ben più potenti 500 e regalando alla Bianchi un trionfo sensazionale, completato dai suoi compagni di squadra Maffeis e Self, rispettivamente secondo e terzo assoluti. Una volta tagliato il traguardo, Nuvolari crollò a terra, per poi essere portato in trionfo dalla folla.
Allo stesso modo, nel 1926, Nuvolari si ruppe la mano sinistra andando a sbattere con il manubrio della sua Bianchi contro il muro di una casa al Circuito del Savio, ma, nonostante il dolore, proseguì la sua corsa andando addirittura a vincere, prima di svenire tra le braccia dei meccanici…
A smentire poi che le Bianchi fossero particolarmente competitive solo sulle piste veloci come Monza, dove dominò il GP d'Italia dal 1925 al 1929, pensarono i successi della Freccia Celeste sul Circuito del Lario (il cosiddetto Tourist Trophy italiano), caratterizzato dai tortuosi saliscendi che circondano il lago di Como. La Bianchi si aggiudicò questo estenuante appuntamento per ben sei volte di fila, con Nuvolari protagonista nel 1925, 1926, 1927, 1929 e 1930, facendo segnare in quest'ultima occasione una media più elevata rispetto al vincitore della classe 500. Ciò fu reso possibile anche grazie alla rinnovata versione della Freccia Celeste, apparsa nel 1927, con telaio, sella e serbatoio rivisti, freni a tamburo e doppio scarico, pur conservando la distribuzione a due valvole.
Un esemplare del genere è apparso qualche anno fa durante il tradizionale meeting per moto storiche che si svolge a Misano e, grazie alla disponibilità del proprietario, Carlo Montevecchi, ho avuto la straordinaria possibilità di provare non solo quello che è considerato come l'unico esemplare di Freccia Celeste bialbero attualmente esistente, ma anche la moto che quasi certamente è stata portata in gara da Nuvolari nel 1927, come testimonia il motore punzonato con il n° 15.507. La stessa Bianchi, infatti, produceva anche una versione "clienti" della Freccia Celeste, ma quest'ultima era caratterizzata dalla distribuzione a singolo albero a camme in testa.
La moto di Tazio
Montevecchi si è impegnato per ricostruire la storia della sua Bianchi fino dall'inizio. Bisogna infatti sapere che la Casa italiana si è ritirata dalla classe 350 nel 1930 e che alla Freccia Celeste è subentrata la nuova Bianchi Tipo 170 di 500 cc con doppio albero a camme, portata in gara da un altro grande pilota dell'automobilismo italiano, Alberto Ascari (campione del mondo di Formula 1 nel 1952 e nel 1953), che come Nuvolari ha iniziato la propria carriera agonistica in sella alle moto azzurre.
Montevecchi ha comprato questo esemplare nel 1950 a Mantova, per l'appunto città natale di Nuvolari, dove il fuoriclasse ha vissuto fino alla sua morte, nel 1953. Al di là di qualche aggiornamento e del fatto che il motore è stato rifatto negli anni Trenta, la Bianchi di Montevecchi è per lo più originale, eccezion fatta per la sostituzione del carburatore Binks da 1 3/16" di diametro previsto di serie con un più moderno Dell'Orto da 28 millimetri. Lo stato di conservazione comprende perfino i pneumatici, nonostante la moto sia regolarmente marciante e partecipi ad alcune rievocazioni come quella di Misano, dove è stata guidata niente meno che da Amilcare Moretti. Quest'ultimo ha infatti vinto il Gran Premio d'Italia nel 1929 a bordo di una moto simile, interrompendo così la striscia vincente di Nuvolari, che si protraeva ormai da 4 anni…
La posizione di guida della Bianchi ricorda quella della Garelli 350 a due tempi degli Anni Venti, che non a caso costituiva una delle principali rivali della Freccia Celeste. Tuttavia, il monocilindrico bialbero a quattro tempi ha un aspetto decisamente più moderno, nonostante impieghi ancora il comando del gas a leva, anziché a manopola. L'acceleratore è infatti posizionato sul lato destro e sopra di esso c'è il manettino dell'aria, mentre la leva dell'anticipo è sul lato sinistro. La sella Terry, bassa e piuttosto allungata, determina una sistemazione abbastanza comoda, anche se le pedane risultano piuttosto avanzate. Curiosamente, il pedale del freno posteriore è sul lato sinistro. A rigor di logica, infatti, quest'ultimo si dovrebbe trovare dalla stessa parte del resto dell'impianto, ovvero sul lato destro, ma in realtà la prima versione della Freccia Celeste destinava al pedale destro il comando della frizione e solo sulla versione del 1927 quest'ultima è stata "spostata" sul manubrio.
Il cambio manuale si trova invece sul lato destro del serbatoio (con quest'ultimo dotato di due tappi per il rifornimento), in modo tale che non vi è alcuna possibilità di cambiare con la mano sinistra, come si usava fare su alcune Indian, Sunbeam e altre moto dell'epoca. Non che ce ne sia bisogno: con la Bianchi, infatti, è possibile lasciare la leva dell'acceleratore "aperta", con il motore che prende giri, e azionare il cambio con la mano destra mentre con la sinistra si tira la leva della frizione. Certo è, però, che su un mezzo di questo tipo è sempre meglio cercare di salvaguardare il più possibile la parte meccanica, evitando di sottoporre gli ingranaggi interni a stress eccessivi.
Montevecchi ha comprato questo esemplare nel 1950 a Mantova, per l'appunto città natale di Nuvolari, dove il fuoriclasse ha vissuto fino alla sua morte, nel 1953. Al di là di qualche aggiornamento e del fatto che il motore è stato rifatto negli anni Trenta, la Bianchi di Montevecchi è per lo più originale, eccezion fatta per la sostituzione del carburatore Binks da 1 3/16" di diametro previsto di serie con un più moderno Dell'Orto da 28 millimetri. Lo stato di conservazione comprende perfino i pneumatici, nonostante la moto sia regolarmente marciante e partecipi ad alcune rievocazioni come quella di Misano, dove è stata guidata niente meno che da Amilcare Moretti. Quest'ultimo ha infatti vinto il Gran Premio d'Italia nel 1929 a bordo di una moto simile, interrompendo così la striscia vincente di Nuvolari, che si protraeva ormai da 4 anni…
La posizione di guida della Bianchi ricorda quella della Garelli 350 a due tempi degli Anni Venti, che non a caso costituiva una delle principali rivali della Freccia Celeste. Tuttavia, il monocilindrico bialbero a quattro tempi ha un aspetto decisamente più moderno, nonostante impieghi ancora il comando del gas a leva, anziché a manopola. L'acceleratore è infatti posizionato sul lato destro e sopra di esso c'è il manettino dell'aria, mentre la leva dell'anticipo è sul lato sinistro. La sella Terry, bassa e piuttosto allungata, determina una sistemazione abbastanza comoda, anche se le pedane risultano piuttosto avanzate. Curiosamente, il pedale del freno posteriore è sul lato sinistro. A rigor di logica, infatti, quest'ultimo si dovrebbe trovare dalla stessa parte del resto dell'impianto, ovvero sul lato destro, ma in realtà la prima versione della Freccia Celeste destinava al pedale destro il comando della frizione e solo sulla versione del 1927 quest'ultima è stata "spostata" sul manubrio.
Il cambio manuale si trova invece sul lato destro del serbatoio (con quest'ultimo dotato di due tappi per il rifornimento), in modo tale che non vi è alcuna possibilità di cambiare con la mano sinistra, come si usava fare su alcune Indian, Sunbeam e altre moto dell'epoca. Non che ce ne sia bisogno: con la Bianchi, infatti, è possibile lasciare la leva dell'acceleratore "aperta", con il motore che prende giri, e azionare il cambio con la mano destra mentre con la sinistra si tira la leva della frizione. Certo è, però, che su un mezzo di questo tipo è sempre meglio cercare di salvaguardare il più possibile la parte meccanica, evitando di sottoporre gli ingranaggi interni a stress eccessivi.
Bastano tre marce
La prima e la seconda marcia risultano piuttosto corte, mentre la terza presenta un "salto" maggiore. Ciò significa che su un circuito come Misano si rimane quasi sempre nel rapporto più alto, inserendo la seconda solo nelle chicane. Del resto, il motore della Bianchi dimostra un'ottima elasticità e poi, non bisogna dimenticarsi che il cambio estraibile permetterebbe di adattare la rapportatura interna in poco tempo, come avviene con le odierne moto da corsa! Nonostante gli anni, infatti, il monocilindrico della Freccia Celeste ha ancora il temperamento di un'unità da competizione, dimostrando di voler rimanere sempre nella migliore fascia di utilizzo. Naturalmente, non è presente alcun contagiri ma, a "orecchio", quest'ultima dovrebbe iniziare all'incirca verso i 2000 giri. Ad ogni modo, in accelerazione, sia la spinta che la timbrica del motore sono simili a quelle di una moto più moderna e il merito è anche del fatto che i vari organi della distribuzione non sono "a vista", come usava all'epoca, ma protetti da un coperchio. Inoltre, la Freccia Celeste impiega molle valvola di tipo elicoidale, anziché a spillo (come quello che le Norton, ad esempio, hanno mantenuto fino al 1962), e pertanto è tecnicamente più vicina agli standard degli anni Cinquanta che degli anni Venti, come confermano anche i suoi contenuti trafilaggi di lubrificante.
Come detto, a partire dal 1927 il piccolo serbatoio dell'olio posto sopra a quello del carburante è stato destinato alla lubrificazione della catena primaria, così che, ogni tanto, bisogna ricordarsi di azionare con il pollice la pompa alla sua sinistra.
La catena che aziona il generatore, invece, non prevede alcun tipo di lubrificazione ed è pertanto necessario ingrassarla prima di ogni uscita. Protetta da una paratia in lega leggera, quest'ultima comanda anche l'accensione Marelli che veniva montata sugli ultimi esemplari della Freccia Celeste.
La frenata si è dimostrata accettabile in relazione alle moderate velocità mantenute durante il test, anche se all'epoca non doveva essere particolarmente soddisfacente, considerati i 140 Km/h di cui era capace la Freccia Celeste, come dimostrato a suo tempo da un tentativo di record effettuato sul circuito di Monza. Le piccole piste frenanti da 180 mm di diametro, infatti, non assicurano ai rispettivi materiali di attrito una superficie particolarmente ampia. Se non altro, però, è possibile fare affidamento sul freno motore, come di sicuro erano soliti fare anche Nuvolari e i suoi colleghi, compensando in parte questa carenza. Del resto, con un rapporto di compressione pari a 6:1 (tale era sull'ultima versione della Freccia Celeste) e un diametro valvole relativamente piccolo, non si correva certo il rischio di rompere il motore scalando le marce in modo un po' più aggressivo. Un'operazione, tra l'altro, abbastanza laboriosa e poco pratica, visto il gran numero di comandi da azionare e, al tempo stesso, la necessità di tenere il manubrio ben stretto tra le mani, soprattutto se si pensa alle buche che caratterizzavano le strade negli anni Venti e al fatto che stiamo parlando di una moto priva della sospensione posteriore e dotata di una forcella particolarmente dura anche in rapporto a un asfalto abbastanza liscio come quello di Misano.
Nella fase di inserimento in curva, infatti, la moto trasmette una sensazione di relativa sicurezza, ma sempre a patto di non incappare in qualche dosso o avvallamento. Evidentemente, i tecnici della Bianchi dovevano essere ben consapevoli di questo aspetto, come testimonia, ad esempio, il serbatoio del carburante diviso in due metà (da cui deriva il doppio tappo per il rifornimento), in modo da impedire al carburante di muoversi al suo interno, influendo negativamente sul bilanciamento della moto. Ad ogni modo, l'esemplare di Carlo Montevecchi può essere considerato come un autentico pezzo di storia, simbolo di un marchio importante, oltre che di un pilota senza eguali. La Freccia Celeste rappresenta infatti un significativo passo in avanti nel percorso evolutivo della tecnica motociclistica, che ha fatto da esempio per tanti altri modelli realizzati successivamente, italiani e non.
Come detto, a partire dal 1927 il piccolo serbatoio dell'olio posto sopra a quello del carburante è stato destinato alla lubrificazione della catena primaria, così che, ogni tanto, bisogna ricordarsi di azionare con il pollice la pompa alla sua sinistra.
La catena che aziona il generatore, invece, non prevede alcun tipo di lubrificazione ed è pertanto necessario ingrassarla prima di ogni uscita. Protetta da una paratia in lega leggera, quest'ultima comanda anche l'accensione Marelli che veniva montata sugli ultimi esemplari della Freccia Celeste.
La frenata si è dimostrata accettabile in relazione alle moderate velocità mantenute durante il test, anche se all'epoca non doveva essere particolarmente soddisfacente, considerati i 140 Km/h di cui era capace la Freccia Celeste, come dimostrato a suo tempo da un tentativo di record effettuato sul circuito di Monza. Le piccole piste frenanti da 180 mm di diametro, infatti, non assicurano ai rispettivi materiali di attrito una superficie particolarmente ampia. Se non altro, però, è possibile fare affidamento sul freno motore, come di sicuro erano soliti fare anche Nuvolari e i suoi colleghi, compensando in parte questa carenza. Del resto, con un rapporto di compressione pari a 6:1 (tale era sull'ultima versione della Freccia Celeste) e un diametro valvole relativamente piccolo, non si correva certo il rischio di rompere il motore scalando le marce in modo un po' più aggressivo. Un'operazione, tra l'altro, abbastanza laboriosa e poco pratica, visto il gran numero di comandi da azionare e, al tempo stesso, la necessità di tenere il manubrio ben stretto tra le mani, soprattutto se si pensa alle buche che caratterizzavano le strade negli anni Venti e al fatto che stiamo parlando di una moto priva della sospensione posteriore e dotata di una forcella particolarmente dura anche in rapporto a un asfalto abbastanza liscio come quello di Misano.
Nella fase di inserimento in curva, infatti, la moto trasmette una sensazione di relativa sicurezza, ma sempre a patto di non incappare in qualche dosso o avvallamento. Evidentemente, i tecnici della Bianchi dovevano essere ben consapevoli di questo aspetto, come testimonia, ad esempio, il serbatoio del carburante diviso in due metà (da cui deriva il doppio tappo per il rifornimento), in modo da impedire al carburante di muoversi al suo interno, influendo negativamente sul bilanciamento della moto. Ad ogni modo, l'esemplare di Carlo Montevecchi può essere considerato come un autentico pezzo di storia, simbolo di un marchio importante, oltre che di un pilota senza eguali. La Freccia Celeste rappresenta infatti un significativo passo in avanti nel percorso evolutivo della tecnica motociclistica, che ha fatto da esempio per tanti altri modelli realizzati successivamente, italiani e non.
Gallery