ADV
Moto & Scooter
La prima MV Superbike
di Alan Cathcart, foto Kel Edge
il 28/11/2007 in Moto & Scooter
Tra le migliaia di moto provate nella sua carriera, Cathcart ha potuto guidare la 750 4 cilindri con cui Agostini corse la 200 Miglia di Imola del 1972
La MV Agusta ha vinto ben 275 Gran Premi e 75 titoli mondiali conquistati nelle cilindrate 125-250-350 e 500, per un totale di 3028 corse conquistate nell'arco di un quarto di secolo a partire dal 1950, fino a quando, nell'ottobre del 1976, una MV ufficiale fu portata in gara per l'ultima volta.
Nonostante che il Conte Domenico Agusta avesse sempre privilegiato le competizioni, piuttosto che la produzione di serie, dopo la sua morte, avvenuta nel 1971, suo fratello Corrado mise in produzione la 750 Sport con trasmissione finale ad albero, vale a dire la prima sportiva europea a quattro cilindri della "nuova generazione".
Nonostante che il Conte Domenico Agusta avesse sempre privilegiato le competizioni, piuttosto che la produzione di serie, dopo la sua morte, avvenuta nel 1971, suo fratello Corrado mise in produzione la 750 Sport con trasmissione finale ad albero, vale a dire la prima sportiva europea a quattro cilindri della "nuova generazione".
Tutto ciò accadeva nel 1972, quando un'unica MV 750 ufficiale fu portata in gara dal plurititolato Giacomo Agostini nella prima 200 Miglia di Imola, manifestazione che portò alla ribalta il nome della Ducati grazie alla doppietta messa a segno da Smart e Spaggiari in sella ai loro bicilindrici desmodromici.
In realtà erano due le MV iscritte alla gara, ma l'altra, affidata al compagno di squadra di Agostini, Alberto Pagani, percorse appena nove giri in prova, dopo di che fu costretta al ritiro per un guasto. Dopo cinque anni di autentico dominio nei Gran Premi con la MV, dunque, Ago si ritrovò in difficoltà, tanto che nelle qualifiche non riuscì ad andare oltre il quarto posto, dietro alle Ducati di Smart e Spaggiari e alla Kawasaki di Dave Simmonds, che però non prese il via per problemi a un pistone.
Il fatto che Agostini e la sua MV fossero comunque schierati rappresentava già di per sé un mezzo miracolo, visto che la decisione di allestire le due moto era stata presa solo venticinque giorni prima della gara. Infatti, tutte le ventisette persone impegnate nel reparto corse di Cascina Costa furono costrette a lavorare senza sosta per far sì che le MV rosse e bianche arrivassero a Imola in tempo per le prove cronometrate. Inevitabilmente, però, non vi fu tempo per nessuna opera di collaudo, se non un brevissimo test sul rettilineo dell'aeroporto di Modena.
Fu così che, all'inizio delle prove della 200 Miglia, Agostini risultò più lento di Smart di ben tre secondi al giro, con Pagani che pativa addirittura un ritardo di sei secondi nei confronti del pilota inglese. A quel punto, il Team MV preferì concentrarsi su Ago, trascurando Pagani, tant'è che alla fine Agostini riuscì a guadagnare la prima fila sullo schieramento.
In realtà erano due le MV iscritte alla gara, ma l'altra, affidata al compagno di squadra di Agostini, Alberto Pagani, percorse appena nove giri in prova, dopo di che fu costretta al ritiro per un guasto. Dopo cinque anni di autentico dominio nei Gran Premi con la MV, dunque, Ago si ritrovò in difficoltà, tanto che nelle qualifiche non riuscì ad andare oltre il quarto posto, dietro alle Ducati di Smart e Spaggiari e alla Kawasaki di Dave Simmonds, che però non prese il via per problemi a un pistone.
Il fatto che Agostini e la sua MV fossero comunque schierati rappresentava già di per sé un mezzo miracolo, visto che la decisione di allestire le due moto era stata presa solo venticinque giorni prima della gara. Infatti, tutte le ventisette persone impegnate nel reparto corse di Cascina Costa furono costrette a lavorare senza sosta per far sì che le MV rosse e bianche arrivassero a Imola in tempo per le prove cronometrate. Inevitabilmente, però, non vi fu tempo per nessuna opera di collaudo, se non un brevissimo test sul rettilineo dell'aeroporto di Modena.
Fu così che, all'inizio delle prove della 200 Miglia, Agostini risultò più lento di Smart di ben tre secondi al giro, con Pagani che pativa addirittura un ritardo di sei secondi nei confronti del pilota inglese. A quel punto, il Team MV preferì concentrarsi su Ago, trascurando Pagani, tant'è che alla fine Agostini riuscì a guadagnare la prima fila sullo schieramento.
Quando la gara prese il via, però, la situazione cambiò radicalmente. Tutti si aspettavano che la MV quattro cilindri fosse talmente poco competitiva da perdere subito il contatto con il gruppo di testa, ma Agostini dimostrò ancora una volta tutta la sua classe, come testimonia lo stesso Paul Smart: “Giacomo stava guidando una MV ufficiale con trasmissione finale ad albero. Qualcuno lo derise per questo, ma lui affrontò quella gara con la solita determinazione di sempre. Inoltre, non bisogna dimenticare che eravamo in Italia, dunque correva in casa e ci teneva a ben figurare. Non appena fu dato il via, infatti, Ago scattò come un fulmine e rimase in testa per i primi cinque giri. La MV era veloce, ma fumava molto, tant’è che dopo 42 dei 62 giri previsti finì per rompersi definitivamente. Devo comunque riconoscere che Agostini era davvero coraggioso nel guidarla, visto che la sua moto si muoveva molto, anche in rettilineo, ma insisteva col gas spalancato”.
Prima che la MV di Agostini cominciasse a fumare più del dovuto da uno dei suoi quattro scarichi a megafono costringendolo al ritiro, il pilota più titolato della storia del motociclismo aveva solo 8 secondi di ritardo dalle due Ducati argentate in testa alla corsa. Ufficialmente il ritiro di Ago fu imputato a un problema di valvole, ma poi si scoprì che la causa vera era l’allentamento di una delle viti che mantenevano in sede un albero a camme.
Non per questo la squadra MV sembrò abbattersi più di tanto: “Non siamo venuti a Imola per vincere – spiegò l’allora direttore del reparto corse, Pietro Bertola – ma semplicemente per mostrare la nostra sportività nel prendere parte a una competizione così importante e per fare esperienza. Questa categoria rappresenta una novità per noi, ma sono certo che entro poco tempo raggiungeremo la competitività necessaria”.
Naturalmente, quella previsione non si avverò mai, anche se la moto di Agostini fu oggetto di alcune modifiche nell’intento di renderla più performante nelle gare di Formula 750 in Europa e negli Stati Uniti, in modo da promuovere il modello stradale della 750 Sport.
Il problema principale era costituito dal regolamento del campionato AMA, che aveva permesso a un team americano di comprare la BSA ufficiale con la quale John Cooper aveva vinto la 200 Miglia di Ontario, in California, l’anno precedente.
La MV non intendeva correre negli Stati Uniti fino a quando fosse stato permesso di gareggiare a quella moto, ma allo stesso modo non vedeva grandi opportunità nemmeno in Europa. Alla fine, dunque, preferì concentrare gli sforzi sul mondiale 500 GP, dove la squadra italiana cominciava a soffrire la presenza della Yamaha di Jarno Saarinen, col risultato che la F750 non venne più impiegata in forma ufficiale.
Prima che la MV di Agostini cominciasse a fumare più del dovuto da uno dei suoi quattro scarichi a megafono costringendolo al ritiro, il pilota più titolato della storia del motociclismo aveva solo 8 secondi di ritardo dalle due Ducati argentate in testa alla corsa. Ufficialmente il ritiro di Ago fu imputato a un problema di valvole, ma poi si scoprì che la causa vera era l’allentamento di una delle viti che mantenevano in sede un albero a camme.
Non per questo la squadra MV sembrò abbattersi più di tanto: “Non siamo venuti a Imola per vincere – spiegò l’allora direttore del reparto corse, Pietro Bertola – ma semplicemente per mostrare la nostra sportività nel prendere parte a una competizione così importante e per fare esperienza. Questa categoria rappresenta una novità per noi, ma sono certo che entro poco tempo raggiungeremo la competitività necessaria”.
Naturalmente, quella previsione non si avverò mai, anche se la moto di Agostini fu oggetto di alcune modifiche nell’intento di renderla più performante nelle gare di Formula 750 in Europa e negli Stati Uniti, in modo da promuovere il modello stradale della 750 Sport.
Il problema principale era costituito dal regolamento del campionato AMA, che aveva permesso a un team americano di comprare la BSA ufficiale con la quale John Cooper aveva vinto la 200 Miglia di Ontario, in California, l’anno precedente.
La MV non intendeva correre negli Stati Uniti fino a quando fosse stato permesso di gareggiare a quella moto, ma allo stesso modo non vedeva grandi opportunità nemmeno in Europa. Alla fine, dunque, preferì concentrare gli sforzi sul mondiale 500 GP, dove la squadra italiana cominciava a soffrire la presenza della Yamaha di Jarno Saarinen, col risultato che la F750 non venne più impiegata in forma ufficiale.
La MV 750 4 cilindri fu di nuovo utilizzata in pista soltanto nel 1986. Nella collezione di MV Agusta ufficiali che furono vendute al Team Obsolete, con sede a New York, nell’autunno di quell’anno, c’era infatti anche la 750 guidata da Agostini, che fu amorevolmente restaurata da Roberto Gallina e dal suo staff su commissione dei proprietari americani.
L’intenzione, infatti, era quella di far gareggiare la moto a Daytona, nel Marzo del 1987, ma purtroppo non fu possibile allestirla in tempo. Fu dunque in vista di quell’appuntamento che mi venne chiesto di contribuire all’opera di messa a punto di un mezzo così prezioso da parte dello stesso Gallina, che tuttavia non poté partecipare al test, svoltosi in una fredda mattina di dicembre sul circuito di Misano, per via di un appuntamento con la dirigenza Honda in Giappone in merito alla disponibilità di una NSR 500 per Pierfrancesco Chili nella stagione successiva.
Ad ogni modo, dopo aver percorso circa 40 giri in sella alla MV 750, intervallati da frequenti soste ai box per gli interventi del caso ad opera dei meccanici del Team Gallina, non solo la moto andava come doveva, ma la mia ammirazione per la bravura e il coraggio di Agostini era, per quanto possibile, addirittura aumentata. Il fatto che, quattordici anni prima, Ago fosse riuscito a non farsi staccare dalle Ducati di Smart e Spaggiari con questa moto la dice lunga sulle sue doti. Certe volte, infatti, la bravura di un pilota consiste anche nel rendersi conto che non è possibile vincere. Per Agostini, la 200 Miglia di Imola del 1972 rappresentava una corsa persa in partenza.
Avendo a disposizione soltanto venticinque giorni per allestire le due moto da portare a Imola, il capotecnico della squadra MV, Arturo Magni, fu costretto a realizzare le 750 da gara su una base piuttosto vicina a quella del modello stradale da cui derivavano. Questo significa che la moto di Agostini era equipaggiata con la trasmissione ad albero e il cambio di serie, anche se per mitigare gli effetti del cardano sulla ciclistica fu realizzato un nuovo telaio e un nuovo forcellone.
Furono poi montati dei freni a tamburo davanti e dietro, con l’anteriore da 230 mm, un Ceriani 4LS, invero sottodimensionato rispetto alla destinazione d’uso del mezzo, e il posteriore da 200 mm prelevato dalla MV tre cilindri da GP. Il fatto è che la 750 a quattro cilindri pesava ben 190 Kg (e raggiungeva i 240 Km/h...), contro i 126 Kg della 500 a tre cilindri.
L’intenzione, infatti, era quella di far gareggiare la moto a Daytona, nel Marzo del 1987, ma purtroppo non fu possibile allestirla in tempo. Fu dunque in vista di quell’appuntamento che mi venne chiesto di contribuire all’opera di messa a punto di un mezzo così prezioso da parte dello stesso Gallina, che tuttavia non poté partecipare al test, svoltosi in una fredda mattina di dicembre sul circuito di Misano, per via di un appuntamento con la dirigenza Honda in Giappone in merito alla disponibilità di una NSR 500 per Pierfrancesco Chili nella stagione successiva.
Ad ogni modo, dopo aver percorso circa 40 giri in sella alla MV 750, intervallati da frequenti soste ai box per gli interventi del caso ad opera dei meccanici del Team Gallina, non solo la moto andava come doveva, ma la mia ammirazione per la bravura e il coraggio di Agostini era, per quanto possibile, addirittura aumentata. Il fatto che, quattordici anni prima, Ago fosse riuscito a non farsi staccare dalle Ducati di Smart e Spaggiari con questa moto la dice lunga sulle sue doti. Certe volte, infatti, la bravura di un pilota consiste anche nel rendersi conto che non è possibile vincere. Per Agostini, la 200 Miglia di Imola del 1972 rappresentava una corsa persa in partenza.
Avendo a disposizione soltanto venticinque giorni per allestire le due moto da portare a Imola, il capotecnico della squadra MV, Arturo Magni, fu costretto a realizzare le 750 da gara su una base piuttosto vicina a quella del modello stradale da cui derivavano. Questo significa che la moto di Agostini era equipaggiata con la trasmissione ad albero e il cambio di serie, anche se per mitigare gli effetti del cardano sulla ciclistica fu realizzato un nuovo telaio e un nuovo forcellone.
Furono poi montati dei freni a tamburo davanti e dietro, con l’anteriore da 230 mm, un Ceriani 4LS, invero sottodimensionato rispetto alla destinazione d’uso del mezzo, e il posteriore da 200 mm prelevato dalla MV tre cilindri da GP. Il fatto è che la 750 a quattro cilindri pesava ben 190 Kg (e raggiungeva i 240 Km/h...), contro i 126 Kg della 500 a tre cilindri.
Dopo la 200 Miglia, durante la quale i negativi effetti della trasmissione finale ad albero furono evidenti, Magni progettò un sistema di conversione della trasmissione dal cardano alla catena che, in seguito, diventò parte di un kit di trasformazione di grande successo tra i ricambi aftermarket che lui stesso ha commercializzato attraverso il proprio marchio a partire dalla definitiva chiusura del reparto corse MV, avvenuta nel 1976.
Questa evoluzione fu collaudata da Pagani a Misano insieme a una coppia di freni a disco Scarab da 280 mm che, grazie alla riduzione di peso, pari a 6 Kg, dovuta all’eliminazione dell’albero di trasmissione finale, gli permisero di abbassare di ben quattro secondi il suo tempo sul giro. Tuttavia, come già detto, la MV preferì concentrare le risorse del reparto corse sulla 500 da Gran Premio e la 750 fu messa in un angolo fino a quando l’intervento del Team Obsolete e di Roberto Gallina non la riportò alla luce.
Così come la moto da Gran Premio dalla quale deriva, la 750 di Agostini ha una catena centrale che comanda il doppio albero a camme in testa, ma si differenzia per il blocco dei cilindri realizzato in un solo pezzo, montato su un basamento pressofuso di serie e sormontato da teste simili a quelle di serie, eccezion fatta per gli alberi a camme, che erano di tipo racing. Nonostante che il modello di serie della 750 avesse i cilindri separati tra loro, i regolamenti dell’epoca permettevano quel tipo di modifiche.
L’angolo delle valvole era stato inoltre ridotto di due gradi, mentre il diametro di quest’ultime (due per cilindro) era passato da 30 a 34 mm per quelle di aspirazione e da 28 a 29 mm per quelle di scarico, con le alzate maggiorate da 8,5 a 9 mm. In questo modo, la potenza massima passava dai 69 CV a 8500 giri della moto stradale agli 85 CV a 10.400 giri della 750 da gara, che impiegava un impianto di scarico a megafono di tipo quattro in quattro ed era caratterizzata da un rapporto di compressione pari a 10,8:1, contro il 9:1 della moto di serie.
Questa evoluzione fu collaudata da Pagani a Misano insieme a una coppia di freni a disco Scarab da 280 mm che, grazie alla riduzione di peso, pari a 6 Kg, dovuta all’eliminazione dell’albero di trasmissione finale, gli permisero di abbassare di ben quattro secondi il suo tempo sul giro. Tuttavia, come già detto, la MV preferì concentrare le risorse del reparto corse sulla 500 da Gran Premio e la 750 fu messa in un angolo fino a quando l’intervento del Team Obsolete e di Roberto Gallina non la riportò alla luce.
Così come la moto da Gran Premio dalla quale deriva, la 750 di Agostini ha una catena centrale che comanda il doppio albero a camme in testa, ma si differenzia per il blocco dei cilindri realizzato in un solo pezzo, montato su un basamento pressofuso di serie e sormontato da teste simili a quelle di serie, eccezion fatta per gli alberi a camme, che erano di tipo racing. Nonostante che il modello di serie della 750 avesse i cilindri separati tra loro, i regolamenti dell’epoca permettevano quel tipo di modifiche.
L’angolo delle valvole era stato inoltre ridotto di due gradi, mentre il diametro di quest’ultime (due per cilindro) era passato da 30 a 34 mm per quelle di aspirazione e da 28 a 29 mm per quelle di scarico, con le alzate maggiorate da 8,5 a 9 mm. In questo modo, la potenza massima passava dai 69 CV a 8500 giri della moto stradale agli 85 CV a 10.400 giri della 750 da gara, che impiegava un impianto di scarico a megafono di tipo quattro in quattro ed era caratterizzata da un rapporto di compressione pari a 10,8:1, contro il 9:1 della moto di serie.
Veniva mantenuto il sistema di accensione della moto di serie, anche se ciò obbligava all’installazione di una batteria a bordo, cosa piuttosto insolita su una MV da gara. Così come il modello stradale, poi, la 750 di Agostini impiegava uno schema a carter umido che conteneva tre litri di lubrificante nella coppa dell’olio.
Tra le modifiche che furono apportate dopo la 200 Miglia c’era anche un cambio di tipo ravvicinato da abbinare alla trasmissione finale a catena, ma questa mossa non si rivelò azzeccata. Il comando risultava infatti piuttosto duro e, a differenza di tutte le altre MV a quattro cilindri che ho avuto la possibilità di provare quello stesso giorno a Misano, sulla 750 di Agostini non si poteva fare a meno di utilizzare la frizione per innestare le marce, altrimenti si rischiava incappare in rovinose sfollate. Tuttavia, anche utilizzando quest’ultima, la cambiata risultava lenta e macchinosa, a discapito dell’accelerazione fornita dal motore.
Inoltre, ad aggravare le cose ci pensava la spaziatura piuttosto ampia tra i rapporti, che faceva emergere il carattere appuntito del motore, dovuto principalmente alla presenza degli alberi a camme racing. La spinta, infatti, si faceva interessante solo a partire dai 6000 giri, ma a quota 10.000 era già evidenziata la zona rossa sul contagiri Veglia a fondo nero. Pertanto, se si andava sotto a quella soglia, l’erogazione si faceva irregolare e si era costretti a intervenire sulla frizione per tornare nella fascia utile dell’erogazione, ma con un calo di circa 2500 giri tra una marcia e l’altra questa operazione non era affatto facile. Bisognava guidare in modo molto preciso, facendo girare il motore costantemente in alto, altrimenti si correva il rischio di vanificare tutto con un cambio marcia sbagliato.
Come se non bastasse, la moto era piuttosto difficile da guidare al limite per un tempo prolungato. La stretta fascia di utilizzo era infatti abbinata a un regime di coppia massima molto vicino a quello in cui veniva erogato il massimo valore della potenza. Questo faceva sì che, per ottenere il meglio da questa moto si fosse costretti a mantenere il motore in prossimità dei 10.000 giri. Se per sbaglio si anticipava una cambiata o, per qualsiasi motivo, si chiudeva il gas e lo si riapriva di nuovo si perdeva inevitabilmente la potenza, la coppia e la velocità faticosamente guadagnate e bisognava aspettare un bel po’ prima di ottenerle di nuovo.
Inoltre, a giocare un ruolo fondamentale in tutto questo era la carburazione. Durante le molte soste tecniche nei box di Misano, infatti, ho avuto modo di constatare quanto sensibili fossero i carburatori Dell’Orto da 29 mm (che sull’esemplare guidato da Agostini erano stati alesati a 30 mm), tanto che anche la più piccola modifica in termini di getti e taratura produceva effetti tangibili.
Tra le modifiche che furono apportate dopo la 200 Miglia c’era anche un cambio di tipo ravvicinato da abbinare alla trasmissione finale a catena, ma questa mossa non si rivelò azzeccata. Il comando risultava infatti piuttosto duro e, a differenza di tutte le altre MV a quattro cilindri che ho avuto la possibilità di provare quello stesso giorno a Misano, sulla 750 di Agostini non si poteva fare a meno di utilizzare la frizione per innestare le marce, altrimenti si rischiava incappare in rovinose sfollate. Tuttavia, anche utilizzando quest’ultima, la cambiata risultava lenta e macchinosa, a discapito dell’accelerazione fornita dal motore.
Inoltre, ad aggravare le cose ci pensava la spaziatura piuttosto ampia tra i rapporti, che faceva emergere il carattere appuntito del motore, dovuto principalmente alla presenza degli alberi a camme racing. La spinta, infatti, si faceva interessante solo a partire dai 6000 giri, ma a quota 10.000 era già evidenziata la zona rossa sul contagiri Veglia a fondo nero. Pertanto, se si andava sotto a quella soglia, l’erogazione si faceva irregolare e si era costretti a intervenire sulla frizione per tornare nella fascia utile dell’erogazione, ma con un calo di circa 2500 giri tra una marcia e l’altra questa operazione non era affatto facile. Bisognava guidare in modo molto preciso, facendo girare il motore costantemente in alto, altrimenti si correva il rischio di vanificare tutto con un cambio marcia sbagliato.
Come se non bastasse, la moto era piuttosto difficile da guidare al limite per un tempo prolungato. La stretta fascia di utilizzo era infatti abbinata a un regime di coppia massima molto vicino a quello in cui veniva erogato il massimo valore della potenza. Questo faceva sì che, per ottenere il meglio da questa moto si fosse costretti a mantenere il motore in prossimità dei 10.000 giri. Se per sbaglio si anticipava una cambiata o, per qualsiasi motivo, si chiudeva il gas e lo si riapriva di nuovo si perdeva inevitabilmente la potenza, la coppia e la velocità faticosamente guadagnate e bisognava aspettare un bel po’ prima di ottenerle di nuovo.
Inoltre, a giocare un ruolo fondamentale in tutto questo era la carburazione. Durante le molte soste tecniche nei box di Misano, infatti, ho avuto modo di constatare quanto sensibili fossero i carburatori Dell’Orto da 29 mm (che sull’esemplare guidato da Agostini erano stati alesati a 30 mm), tanto che anche la più piccola modifica in termini di getti e taratura produceva effetti tangibili.
La MV somigliava nella stazza alla sua rivale di allora: la Honda 750. In effetti, aveva più o meno la stessa maneggevolezza, che non era certo un gran che. Si trattava dunque di una moto piena di contraddizioni. Ad esempio, nonostante che, come detto, la 750 risultasse piuttosto grossa, la posizione di guida era viceversa molto raccolta. Agostini aveva sì un fisico piuttosto minuto, ma l’impressione era che i manubri e le pedane si trovassero proprio in una posizione sbagliata rispetto a dove sarebbero dovuti essere, cosa che viceversa non succedeva sulla MV 500 a quattro cilindri da Gran Premio che ho avuto la possibilità di provare quello stesso giorno. Rispetto a quest’ultima, poi la 750 sembrava larga il doppio. Per contro, l’interasse era davvero contenuto per una moto di quella cilindrata: appena 1340 mm. La 750 era più corta di molte 250, dunque, e possedeva una geometria di sterzo improntata alla massima maneggevolezza. L’inserimento in curva, in effetti, era degno del marchio che la moto portava impresso sul serbatoio e lo sterzo rimaneva piuttosto neutro nei tornanti da seconda marcia che caratterizzavano il vecchio circuito di Misano. Tuttavia, non appena si affrontavano i tratti più veloci con il motore in tiro emergeva un tremendo sottosterzo che proiettava la moto diritta verso lo spazio di fuga all’esterno della curva. Un comportamento davvero atipico per una moto dotata di un interasse così corto. Non doveva perciò essere facile guidare la F750 nei veloci curvoni di Imola.
Il motore della 750 non consentiva dunque la minima distrazione ed era sempre lì a ricordare al pilota la sua derivazione stradale attraverso la tipica rumorosità, amplificata dalla carenatura integrale. Dal canto suo, il telaio in tubi numero 1402 (uno dei due fatti realizzare appositamente per la F750 da gara, caratterizzati da un punto di attacco supplementare del motore al telaio stesso), si comportava in modo onesto, così come le sospensioni, Ceriani davanti e Girling dietro, mentre decisamente superiore alle aspettative era l’efficacia dell’impianto frenante Scarab. Tuttavia, il livello ciclistico della 750 non aveva nulla a che vedere con l’eccellenza che la MV era riuscita a raggiungere nei GP.
Molti si domandano ancora se la 750 da gara avrebbe potuto, con i dovuti accorgimenti, rivelarsi competitiva contro le tre cilindri Triumph e BSA, oltre che nei confronti dei bicilindrici Ducati. Questa, però, è un’altra storia...
Il motore della 750 non consentiva dunque la minima distrazione ed era sempre lì a ricordare al pilota la sua derivazione stradale attraverso la tipica rumorosità, amplificata dalla carenatura integrale. Dal canto suo, il telaio in tubi numero 1402 (uno dei due fatti realizzare appositamente per la F750 da gara, caratterizzati da un punto di attacco supplementare del motore al telaio stesso), si comportava in modo onesto, così come le sospensioni, Ceriani davanti e Girling dietro, mentre decisamente superiore alle aspettative era l’efficacia dell’impianto frenante Scarab. Tuttavia, il livello ciclistico della 750 non aveva nulla a che vedere con l’eccellenza che la MV era riuscita a raggiungere nei GP.
Molti si domandano ancora se la 750 da gara avrebbe potuto, con i dovuti accorgimenti, rivelarsi competitiva contro le tre cilindri Triumph e BSA, oltre che nei confronti dei bicilindrici Ducati. Questa, però, è un’altra storia...
La prima MV Superbike
Per inserire un commento devi essere registrato ed effettuare il login.