Moto & Scooter
Maremoto a Rimini
Grande successo di pubblico e di spettacolo in occasione del 2° Pasolini Day e della rievocazione del circuito cittadino. Proposto un gemellaggio col Tourist Trophy
di Luigi Rivola
12 titoli mondiali in due: 9 per Ubbiali, che sta rientrando, stranamente in sella a una Benelli 4 cilindri, 3 per Lazzarini, impegnato in curva con la Piovaticci
Il circuito di Rimini è rinato per la seconda volta in occasione del “Pasolini Day”, svoltosi nella celebre località balneare romagnola venerdì 6 e sabato 7 maggio a cura del locale Club “Il Velocifero” e della sua guida storica Augusto Farneti, nonché dell’Amministrazione Comunale della Città e in primis dell’assessore allo sport, Donatella Turci, che ha accolto a Rimini due amministratori dell’Isola di Man, venuti in Italia a proporre un gemellaggio fra il Tourist Trophy e gli organizzatori del Pasolini Day.
Un successo quindi la rievocazione storica del Circuito di Rimini, che ci riporta indietro nel tempo e che si basa sullo stesso segreto che decretò la fama mondiale dei circuiti della “Mototemporada Romagnola”. Quale segreto? Tanto per cominciare la passione degli organizzatori e la spontanea disponibilità dei soci del Moto Club; una buona dose di spirito imprenditoriale, che non mancava in quel grande mercato del turismo internazionale che era ed è Rimini con la sua costa, infine la semplicità.
Che cosa ci vuole per fare un circuito? Nella riviera romagnola bastava il largo viale del lungomare, magari diviso in due con le balle di paglia, qualche rotonda (pensate quanti circuiti si farebbero adesso, con tutte le rotonde che hanno sistemato un po’ ovunque) e qualche strada di raccordo fra due rettilinei: due o tre chilometri in tutto e il tracciato era a posto.
Poi ci volevano i corridori, e anche questo non era un problema: bastava invitarli e venivano da tutto il mondo: Hailwood e Read dall’Inghilterra, Redman dalla Rodesia, Taveri dalla Svizzera, Anscheidt dalla Germania, Anderson dalla Nuova Zelanda, Findlay e Carruthers dall’Australia, Stastny dalla Cecoslovacchia, Nieto dalla Spagna, per non parlare degli Italiani, che si precipitavano in massa. E come piloti erano il meglio del meglio, anche se pochi erano quelli che dormivano al Grand Hotel e godevano delle delizie della cucina romagnola: la maggior parte infatti si accampava in centro con la tenda che per l’occasione diventava abitazione, officina, garage e luogo di ricevimento.
Il fatto è che sulla riviera adriatica si stava bene e si guadagnava più che in qualsiasi altra corsa, titolata o no. E anche il pubblico era garantito: 30-40.000 spettatori erano la norma, con l’unico inconveniente che questo pubblico, straripante in relazione alla lunghezza del circuito, cervava ogni buco per assicurarsi una fetta di spettacolo, fino a salire sugli alberi dei viali, oppure – ed era quasi la norma – sedersi sulle balle di paglia coi piedi in pista.
Le moto della “Mototemporada” erano, per i piloti ufficiali, le massime espressioni della sofisticatissima tecnica giapponese e di quella italiana in rimonta, con qualche intromissione delle due tempi d’oltre cortina e delle migliori due tempi spagnole.
I privati dovevano accontentarsi, e in quel periodo in effetti si accontentavano: scontato che le ufficiali – le sole moto vincenti salvo casi eccezionali – erano “occupate”, facevano un campionato a parte con moto che, nella massima classe, erano in molti casi dei ferrivecchi inglesi rabberciati alla meno peggio, nella 350 erano inizialmente gli stessi ferrivecchi monocilindrici inglesi monoalbero e bialbero contrapposti alle Aermacchi monocilindriche ad aste e bilancieri (che vincevano largamente il confronto), nella 250 erano quasi tutte Aermacchi e Bultaco, con qualche Ducati e Motobi, mentre nella 125 c’era più spazio per proposte moderne, naturalmente tutte a due tempi: dalle Villa, alle Bultaco, alle Aermacchi.
Col nuovo regolamento tecnico del Motomondiale, varato nel 1969, arrivarono le Yamaha 125-250 e 350 per i piloti privati: moto competitive anche per la vittoria e offerte ad un prezzo accessibile, magari grazie al generoso contributo dei nuovi personaggi apparsi sulla scena del motociclismo: gli sponsor.
Tutte queste moto in qualche modo erano rappresentate a Rimini in occasione del secondo Pasolini Day, durante il quale hanno anche avuto modo di sgranchirsi le... ruote sul lungomare chiuso con le balle di paglia, ma anche e soprattutto di farsi osservare da un pubblico di anziani estasiati e di giovani curiosi: i primi inebriati dal rombo delle grosse monocilindriche, dal sibilo delle quattro cilindri e dagli strilli delle due tempi, i secondi increduli del fatto che fosse tollerato allora un rumore così pazzesco.
E ancora: gli anziani ammaliati dalle potentissime MV e Benelli 500 4 cilindri, che negli Anni ’60 e all’inizio dei ’70 rappresentavano il limite estremo delle possibilità tecniche e umane; i giovani perplessi al pensiero che questi bolidi stratosferici avessero non più di 90 CV, ossia 30 CV in meno di una qualsiasi 600 sportiva stradale dell’ultima generazione e circa la metà di una odierna 1000 in libera vendita a tutti.
di Alberto Dell’Orto
La Ducati 450 di Luigi Bianchi, direttore di Motonline. In sella, Alberto Dell'Orto
Avete mai cavalcato uno di questi ordigni? Io no, o per lo meno, non prima di sabato scorso. Sapete, essere nati nel ’72 significa essere saliti sul motorino nell’86, un po’ troppo tardi per avere avuto a che fare con un mono Ducati. Il direttore, proprietario orgoglioso del bolide in questione, sembra tenerci: a me l’onore di portare al secondo turno della parata “il bombardino”, come lo chiama affettuosamente, e di evitargli le contorsioni necessarie a reinfilarsi la tuta, per di più mentre il sole comincia a farsi vedere e, soprattutto, sentire.
Mi cambio per strada dietro alla monovolume aziendale e infilo la mia tuta, una bellissima Spyke realizzata su misura, che in qualsiasi autodromo verrebbe guardata con rispetto e invece qui, dove saponette e paraschiena sono parole sconosciute, viene sopportata con qualche spiritosa punzecchiata. Sto agli scherzi da buon novizio, intanto sudo nel tentativo di vincere la resistenza di una compressione di 11:1 e avviare il motore, il tutto possibilmente senza travolgere nessuno dei numerosi spettatori che, stanati dal primo caldo sole della stagione, affollano la piazza destinata a paddock.
L’avviamento in sé sarebbe anche pronto, se non bisognasse scansare famigliole con carrozzine al seguito… Alla fine ce la faccio, accendo il motore senza morti né feriti, e attendo sgasando il mio turno per entrare il pista: il mono vibra tanto da far presagire una imminente prostatite nonostante l’intervento di uno dei migliori specialisti nella bilanciatura degli alberi, e mi fa immaginare cosa doveva essere il motore di serie; intanto lo tengo in moto sopra i 2500 giri, che costituiscono un limite invalicabile sotto il quale il carburatore, un grosso Dell’Orto-Malossi da 42,5 mm, pare non avere alcuna possibilità di fare il suo dovere. L’attesa mi fa riflettere su quanto sia compatta ‘sta moto: ma dove mi avete messo? Su una Vespa? Su una 125 per nani? Sembra impossibile che una 500 possa essere tanto piccola, e guardo con invidia i compagni di classe su una Matchless o una Norton, decisamente più abitabili.
Mi salva da una sauna completa l’apertura delle transenne: parto baldanzoso tra gli strappi della frizione (progettata per funzionare in bagno d’olio e qui sadicamente costretta a stare all’asciutto) e il cambio invertito, ma proprio invertito: leva a destra e prima in alto. L’asfalto nuovo della rotonda su cui si affaccia l’ingresso è promettente, ma devo immediatamente fare i conti con le gomme: le sportivissime Avon simil-competizione non sono solo fredde, ma anche stagionate da cinque anni di esposizione a ozono e raggi UV, ragion per cui in nessuno dei sette giri effettuati avrò il gusto di assaporarne il grip originario.
Il motore è una sorpresa: la mancanza di contralbero si fa sentire su pedane, manubrio, serbatoio, ma non mi aspettavo una spinta del genere da un “ferro” di quasi quarant’anni fa. Sale sicuro e pieno; giudicato con gli standard odierni non è una scheggia ma nemmeno un chiodo, e il peso al di sotto dei 108 kg rende questa motina decisamente brillante in accelerazione.
Il problema è in frenata: se i nostri babbi avrebbero fatto follie pur di avere i tamburi in magnesio a mia disposizione (un 210 a quattro ganasce e quattro camme davanti, un 180 due camme e due ganasce dietro, entrambi di Fontana), io preferirei un bel disco, anche di quelli che frenano poco. Capisco immediatamente gli inviti alla delicatezza del direttore: il padellone anteriore sembra azionato da un interruttore e inchioda di colpo appena “prende”, poi anche aumentando la pressione sulla leva la potenza non cambia molto. Di certo non il massimo per entrare in un gomito a sinistra con l’asfalto levigato dalla salsedine…
In più ci si mettono i fenomeni, quelli che non sanno guidare ma vengono presi dal demone della competizione: ti devono superare in staccata per forza, anche se in realtà sei tu che lasci strada, intuendo che i figuri in questione stiano per cacciare se stessi e gli sventurati intorno a loro in un incidente rovinoso. Poi li ripassi in uscita di curva, dove tu segui la traiettoria, mentre loro si sono impiccati in una manovra inutile…
Alla fine è molto meglio lasciarli fare e godersi queste sensazioni d’altri tempi, compreso la forcella che affonda in frenata e gli ammortizzatori morbidi, figli di un’epoca in cui tutto fletteva e sospensioni rigide sarebbero state più un problema che una soluzione. L’anno prossimo, però, gomme nuove, vero direttore…?
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