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Yamaha R1: il test approfondito

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Come promesso, dopo il primo test ecco un ricco approfondimento: vi raccontiamo nei dettagli com’è e come va la più attesa delle ipersportive giapponesi

Ovviamente la nuova R1 non si è fatta mancare le tanto celebrate pinze ad attacco radiale



La presentazione

Vai alla prima prova della Yamaha R1: troverai tutte le informazioni generali, i dati tecnici e una ricca gallery fotografica

Dicono gli uomini di Iwata che la R1 è nata per esaltare le performance di razza racer, che è realizzata con la tecnologia che attinge dall’esperienza MotoGP e che è caratterizzata da quell’inconfondibile design che accomuna la serie R, quindi R6 compresa; pensate che in Europa sono 175.000 le persone che hanno scelto moto Yamaha di questo particolare rango sportivo!
Il temperamento dunque, lo abbiamo inquadrato: è scaturito da un seme costruttivo che ne determina l’indole essenzialmente da corsa.


E bisogna essere preparati, perché la R1, benché omologata per andare su strada, è moto che richiede specifica esperienza di guida, essendo destinata sostanzialmente ai circuiti, alle gare, alla Superbike come al Tourist Trophy.
La forte personalità è enfatizzata dalla linea e dalla qualità dei componenti; è compatta, leggera e potente, risultando 1 dal rapporto peso/potenza, limite che non troppo tempo fa era proprio delle moto da competizione.



Sul mercato dal 1997, questa terza R1 arriva contemporaneamente alla Honda Fireblade di settima generazione, oltre che alla Kawasaki ZX10, tanto per citare le giapponesi: la Yamaha e la “verdona” sembrerebbero più estreme, mentre la CBR1000RR potrebbe essere di quelle che ti fanno andar forte ma senza accorgertene, data la scioltezza con cui si riesce a guidare.


La compattezza, l’aerodinamica, la bellezza come sintesi tecnica: sono questi gli highlights della Yamaha R1 del 2004. La prima è frutto di quel geniale lavoro d’inclinazione dei cilindri in avanti, lasciando libero lo spazio per i travi superiori del telaio. Si ottiene così, oltre ad un benvenuto restringimento delle dimensioni laterali, un abbassamento ed uno spostamento in avanti del centro di gravità. Migliora così l’agilità, che alla prova dei fatti pone la R1 a livello di una 600 per velocità negli inserimenti in curva come nei cambi direzione, ed in qualche modo la stabilità. A beneficiare della nuova configurazione strutturale è pure la posizione di guida: il manubrio è posto più in alto che in precedenza, il serbatoio è più stretto, mentre una diversa collocazione hanno subito le pedane.


Il nuovo telaio, oltre a contenere una parte di air-box, guadagnerebbe il 200% in rigidità verticale, 50% in quella laterale e il 30% di resistenza torsionale.
I cilindri della R1 hanno ora un nuovo layout: il blocco, che non essendo più parte stressata è separato dal carter, ha i singoli elementi distanti soli 5 millimetri tra uno e l’altro, nonostante l’aumento dell’alesaggio (leggasi come allargamento delle dimensioni), che aiuta la R1 a girare più in alto, guadagnando addirittura 2000 giri al minuto.

La particolare configurazione strutturale, denominata Closed Deck, ha permesso di contenere le dimensioni del motore, qualità specifica data anche dalla trasmissione a tre assi sovrapposti, che è stata confermata dalla precedente versione. Al contenimento delle dimensioni gioca a favore anche la testata, ridisegnata per contenere gli angoli tra le valvole, quindi migliorando la dinamica dei flussi di aspirazione e scarico, ottenendo una camera di combustione capace di “tenere” un rapporto di compressione pari a 12,3:1.


Della R1 colpiscono la compattezza… l’aerodinamica… la bellezza, in fondo. Era settembre quando la vedemmo per la prima volta, al Paul Ricard. E da fermo il contatto è già esemplare, ponendo il pilota all’interno delle forme della R1, integrando ad essa le membra, perfettamente. Già, questo è un valore assoluto, permettendo al pilota gli spostamenti del caso, pur senza venir meno quel legame che è comunicazione tra l’uomo e la macchina. Il concetto è di fondamentale importanza per riconoscere i voleri della moto, momento dopo momento, ed impartendo comandi per manovrare, attimo per attimo, anche se si è in piega e con le zone di contatto limitate; la cosa torna particolarmente utile, per esempio, quando (qui a Phillip Island) uscendo in accelerazione dal veloce curvone dopo il rettilineo, a circa 200 chilometri orari, l’avantreno inizia a sbacchettare; la causa é che ci attacchiamo ai due manubri nell’impossibilità di ancorare il sedere alla sella, dietro, dove la spazio è esagerato: questo è un piccolo neo della R1.



La soluzione, però, è a portata di mano, cioè di “cosce”: stringendole agli incavi del serbatoio ci permettono di far scorrere agili le manopole nei palmi delle mani, mollando la presa e lasciando all’ammortizzatore di sterzo la possibilità di operare… a proposito: la sella è così snella che … è una vera libidine!
La R1 si indirizza in traiettoria con qualsiasi cosa si abbia a contatto di moto: con le gambe, l’abbiamo detto, con le pedane, con l’interno dei gomiti e, in ultimo, con le mani, giacché l’avantreno è particolarmente generoso di reattività: meglio fidarsi e lasciarlo tranquillo di fare.


I trasferimenti di carico lungo l’asse longitudinale, in buona sostanza quelli che causano il beccheggio, sono lungi dal manifestarsi, almeno non infastidiscono la stabilità in accelerazione come in staccata. La frenata, già: non che ad Eastern Creek ci siano staccate da paura, ma la sincerità d’intervento dell’accoppiata radiale pompa-pinze anteriori fa si che la frenata possa concludersi abbondantemente dentro ogni curva, senza pericolo di bloccaggio. La Fireblade non dà lo stesso feedback alla leva destra, mentre sembrerebbe più stabile che agile, in qualche misura più facile da condurre della R1, sebbene appena più dura da inserire in curva. La differenza tra le due la fanno i motori: nella R1 l’erogazione è moderatamente piatta, nella CBR1000RR è estremamente piatta.

La Honda, infatti, è disorientante per chi ricerca la cattiveria dei 172 CV dichiarati, come è scioccante il rumore di scarico da motore elettrico. La R1, invece, ha una tonalità di scarico che urla come quella della prima MV Agusta 750 F4, entrando nel cuore e nella mente di chi è impegnato a domare i voleri di una purosangue; la R1 scalcia già dai 5-6.000 giri al minuto, inarcandosi intorno ai 9.000, imbizzarrendosi fino ai 13.500; il limitatore stoppa tutto dopo i 14.500, ma è eccitante cambiare le marce tra i 13 e i 13.500, quando il motore cala di soli 1.000 giri e velocemente inserisci marce in successione! Ad ogni cambio rapporto si riceve un corroborante colpo sulla schiena, un’iniezione di potenza che è una sorta di massaggio tonificante!

A proposito di iniezione: il nuovo impianto è fluido negli apri-chiudi, come preciso e docile è il cambio, che si rivela anche rapido negli innesti (e qusto è un gran miglioramento rispetto al passato). La frizione? Negli inserimenti non serve, ma usandola a dovere si possono scalare marce in ripetizione, fino alla prima, che, tanto, è molto lunga; quando siamo stati equipaggiati delle Michelin Race al posto delle pur performanti Pilot Power di serie, ci permettiamo di percorrere ben tre curve di prima, tanto in trazione non andiamo in crisi: il grip non manca. Piuttosto in un paio di queste uscite di curva si può addirittura dare una manata al gas: la carcassa laterale si schiaccia, il battistrada sgomma e virgolina nera è lasciata sull’asfalto!
Rigido ma leggerissimo, il forcellone con capriata di rinforzo è un elemento caratterizzante della hypersport di Iwata

La nuova R1 nelle tre livree disponibili

Ovviamente la nuova R1 non si è fatta mancare le tanto celebrate pinze ad attacco radiale

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