Moto & Scooter
I motori a tre cilindri
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Un frazionamento non molto diffuso nonostante le molte doti, tra cui compattezza, possibilità di “girare” in alto, personalità. Cenni storici, analisi delle soluzioni impiegate e possibilità di sviluppo
Un frazionamento non molto diffuso nonostante le molte doti, tra cui compattezza, possibilità di "girare" in alto, personalità. Cenni storici, analisi delle soluzioni impiegate e possibilità di sviluppo
di Alberto Dell'Orto
I motori a tre cilindri non sono mai stati particolarmente rappresentati nel settore motociclistico (e, a dire la verità, anche negli altri), benché abbiano una serie di caratteristiche interessanti che l'hanno sempre reso adatto all'impiego sulle motociclette.
di Alberto Dell'Orto
I motori a tre cilindri non sono mai stati particolarmente rappresentati nel settore motociclistico (e, a dire la verità, anche negli altri), benché abbiano una serie di caratteristiche interessanti che l'hanno sempre reso adatto all'impiego sulle motociclette.
Si può affermare che di motori a tre cilindri ne siano apparsi circa uno per decennio (a parte gli anni '70, davvero prolifici sotto questo aspetto), e dunque gli esempi a cui fare riferimento non sono moltissimi, ma non mancano di interesse storico e tecnico.
A parte il primo esempio di cui si abbia memoria, un motore a doppia V di 90° (in pratica un boxer con un cilindro al centro) di fabbricazione inglese degli anni Dieci, i primi due prototipi a tre cilindri in linea sono degli anni Trenta. Si tratta di un motore 750 a due tempi della Scott (già famosa da tempo per i suoi raffinati ed efficienti bicilindrici, addirittura raffreddati a liquido) e di un Guzzi 500 a cilindri orizzontali, che equipaggiava una lussuosa moto da turismo: in entrambi i casi le proposte non entreranno in produzione. Sempre la Guzzi proporrà, appena prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, un altro tricilindrico in linea 500 da competizione, dotato di distribuzione bialbero e compressore per 65 CV a 8000 giri. Dopo la guerra però i regolamenti sportivi cambiano e vietano la sovralimentazione, per cui il progetto viene accantonato.
Ma è proprio nel dopoguerra che il tre cilindri riacquista attualità grazie alla DKW, che propone nella classe iridata 350 un'inedita configurazione a V (cilindro centrale orizzontale, i laterali sono invece inclinati di 15° dalla verticale) e un ciclo a due tempi reso finalmente competitivo grazie al lavaggio a correnti incrociate e alla definitiva consacrazione delle espansioni allo scarico, al posto degli onnipresenti megafoni: i 45 CV facevano segnare una potenza specifica all'epoca praticamente irraggiungibile.
Sempre nelle competizioni, ma solo nel decennio successivo (1965), faranno apparizione le tre cilindri MV 350 e, successivamente, 500. Si tratta di unità già figlie di un'altra epoca, dove le quattro valvole (e uno come Giacomo Agostini) riescono a riportare lo scettro ai 4T.
Poco dopo, e sempre per motivi sportivi, il gruppo Triumph-BSA propone il 750 Trident-Roket 3 derivato dai bicilindrici Triumph 500 con l'aggiunta di un cilindro ma, nonostante le brillanti affermazioni sportive nelle gare per le derivate dalla serie, le ristrettezze economiche e il conservatorismo tecnico della Casa inglese (distribuzione aste e bilancieri, cambio separato a quattro marce -cinque solo nel 1974, penultimo anno di produzione-, affidabilità complessiva mediocre) ne impediranno uno sviluppo completo e una reale imposizione sul mercato.
A parte il primo esempio di cui si abbia memoria, un motore a doppia V di 90° (in pratica un boxer con un cilindro al centro) di fabbricazione inglese degli anni Dieci, i primi due prototipi a tre cilindri in linea sono degli anni Trenta. Si tratta di un motore 750 a due tempi della Scott (già famosa da tempo per i suoi raffinati ed efficienti bicilindrici, addirittura raffreddati a liquido) e di un Guzzi 500 a cilindri orizzontali, che equipaggiava una lussuosa moto da turismo: in entrambi i casi le proposte non entreranno in produzione. Sempre la Guzzi proporrà, appena prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, un altro tricilindrico in linea 500 da competizione, dotato di distribuzione bialbero e compressore per 65 CV a 8000 giri. Dopo la guerra però i regolamenti sportivi cambiano e vietano la sovralimentazione, per cui il progetto viene accantonato.
Ma è proprio nel dopoguerra che il tre cilindri riacquista attualità grazie alla DKW, che propone nella classe iridata 350 un'inedita configurazione a V (cilindro centrale orizzontale, i laterali sono invece inclinati di 15° dalla verticale) e un ciclo a due tempi reso finalmente competitivo grazie al lavaggio a correnti incrociate e alla definitiva consacrazione delle espansioni allo scarico, al posto degli onnipresenti megafoni: i 45 CV facevano segnare una potenza specifica all'epoca praticamente irraggiungibile.
Sempre nelle competizioni, ma solo nel decennio successivo (1965), faranno apparizione le tre cilindri MV 350 e, successivamente, 500. Si tratta di unità già figlie di un'altra epoca, dove le quattro valvole (e uno come Giacomo Agostini) riescono a riportare lo scettro ai 4T.
Poco dopo, e sempre per motivi sportivi, il gruppo Triumph-BSA propone il 750 Trident-Roket 3 derivato dai bicilindrici Triumph 500 con l'aggiunta di un cilindro ma, nonostante le brillanti affermazioni sportive nelle gare per le derivate dalla serie, le ristrettezze economiche e il conservatorismo tecnico della Casa inglese (distribuzione aste e bilancieri, cambio separato a quattro marce -cinque solo nel 1974, penultimo anno di produzione-, affidabilità complessiva mediocre) ne impediranno uno sviluppo completo e una reale imposizione sul mercato.
Dagli anni ’70 in poi
Non ha miglior fortuna il motore commissionato dalla Ducati alla Ricardo nel 1971 per cercare di controbattere lo strapotere MV nella classe 500 a partire dalla stagione '73: nonostante scelte tecniche innovative, le prime prove fanno emergere fragilità preoccupanti e il progetto viene immediatamente accantonato.
Frattanto il mercato motociclistico internazionale, già aperto ai plurifrazionati dal tentativo inglese e dalla rivoluzione della Honda 750 del 1969, è finalmente pronto per accogliere e apprezzare (= comprare) delle stradali a più di due cilindri: è il caso delle Kawasaki a due tempi (cilindrate di 400, 500, 750 cc), seguite dalla mastodontica Laverda 1000 (poi 1200) con albero composito montato su cuscinetti a rotolamento, dalle Suzuki 380, 550 e 750 (quest'ultima raffreddata a liquido).
Sono gli anni delle maxi, ma il quattro cilindri avanza, e soprattutto l'interesse per i motori a due tempi dirada, in particolare a causa delle restrittive norme sulle emissioni adottate da un mercato importante come gli USA. Il tre cilindri quindi perde di rappresentatività, e a cavallo tra gli anni '70 e '80 solo Laverda mantiene un frazionamento che diventa un simbolo del Marchio, mentre la Yamaha ha in listino l'unico tricilindrico a quattro tempi prodotto da una Casa giapponese, il turistico XS (prima 750, poi 850) con trasmissione ad albero.
Con le difficoltà della Laverda e la conseguente chiusura dell'azienda nel 1987, per alcuni anni il tricilindrico rimane rappresentato dal BMW K75, presentato nel 1985 e derivato dal K100 e perciò disposto longitudinalmente con i cilindri orizzontali; sarà compito della Triumph, nel 1991, fare una nuova proposta con questo frazionamento: tra i "tre" è il primo primo quattro valvole per uso stradale.
Alla fine degli anni '90 le nuove proprietà di Laverda e Benelli annunciano la realizzazione di due prototipi di 900 cc (nati con bene in mente le competizioni Superbike) dalle caratteristiche affini (l'evoluzione tecnica ha ormai da tempo definito canoni ristretti entro cui far spaziare la fantasia dei progettisti). Purtroppo, solo l'unità pesarese vede effettivamente la catena di montaggio, con la messa in produzione della Tornado.
Frattanto il mercato motociclistico internazionale, già aperto ai plurifrazionati dal tentativo inglese e dalla rivoluzione della Honda 750 del 1969, è finalmente pronto per accogliere e apprezzare (= comprare) delle stradali a più di due cilindri: è il caso delle Kawasaki a due tempi (cilindrate di 400, 500, 750 cc), seguite dalla mastodontica Laverda 1000 (poi 1200) con albero composito montato su cuscinetti a rotolamento, dalle Suzuki 380, 550 e 750 (quest'ultima raffreddata a liquido).
Sono gli anni delle maxi, ma il quattro cilindri avanza, e soprattutto l'interesse per i motori a due tempi dirada, in particolare a causa delle restrittive norme sulle emissioni adottate da un mercato importante come gli USA. Il tre cilindri quindi perde di rappresentatività, e a cavallo tra gli anni '70 e '80 solo Laverda mantiene un frazionamento che diventa un simbolo del Marchio, mentre la Yamaha ha in listino l'unico tricilindrico a quattro tempi prodotto da una Casa giapponese, il turistico XS (prima 750, poi 850) con trasmissione ad albero.
Con le difficoltà della Laverda e la conseguente chiusura dell'azienda nel 1987, per alcuni anni il tricilindrico rimane rappresentato dal BMW K75, presentato nel 1985 e derivato dal K100 e perciò disposto longitudinalmente con i cilindri orizzontali; sarà compito della Triumph, nel 1991, fare una nuova proposta con questo frazionamento: tra i "tre" è il primo primo quattro valvole per uso stradale.
Alla fine degli anni '90 le nuove proprietà di Laverda e Benelli annunciano la realizzazione di due prototipi di 900 cc (nati con bene in mente le competizioni Superbike) dalle caratteristiche affini (l'evoluzione tecnica ha ormai da tempo definito canoni ristretti entro cui far spaziare la fantasia dei progettisti). Purtroppo, solo l'unità pesarese vede effettivamente la catena di montaggio, con la messa in produzione della Tornado.
Vantaggi e svantaggi
Il tre cilindri ha caratteristiche intrinseche che lo posizionano, come prestazioni e personalità, esattamente in mezzo ai motori a due e quattro cilindri. Grazie alle masse alterne (pistoni, bielle, valvole) più ridotte ha la possibilità di girare più in alto di un bicilindrico di pari sviluppo (in pratica, che abbia caratteristiche di progetto confrontabili, prime tra tutte la cilindrata e il rapporto corsa/alesaggio, buon indice di quanto sia "tirato" un motore), mentre il maggior numero di combustioni in rapporto ai giri dell'albero motore lo rende anche più "fluido" ai bassi regimi, dove difficilmente evidenzia gli "strappi" che alcuni bicilindrici manifestano in modo anche fastidioso.
Chiaramente l'ingombro complessivo, a parità di cilindrata, ne è invece svantaggiato, anche perché in un bicilindrico a V le bielle possono lavorare su un unico perno di manovella, mentre in un "tre" (a meno di immaginarlo "a ventaglio", come fu realizzato dalla Guzzi per un suo prototipo negli anni Ottanta) necessita di tre perni di manovella e almeno quattro perni di banco.
A confronto con un quattro cilindri, è chiaro che il tricilindrico vince per costi di produzione e può avere un leggero vantaggio in termini di dimensioni in larghezza, ma paga in termini di regime raggiungibile, che per forza di cosa aumenta con il frazionamento, e in altezza, dove la disposizione in linea non può che penalizzarlo con corse, bielle e valvole più lunghe.
Diverso è il discorso per i motori a V, che possono essere complessivamente più compatti, ma va detto che (soprattutto a causa dei costi) nella produzione di serie non se n'è praticamente mai visti: solo la Honda ha prodotto la sua NS 400 (replica della 500 campione del mondo), mentre la Laverda aveva, all'inizio degli anni Ottanta, proposto un interessante prototipo a due tempi per la classe 350, purtroppo mai entrato in produzione.
Alla fine, dunque, la motivazione principe per la scelta di questo frazionamento da parte del progettista appare il "carattere" del motore, oppure i regolamenti sportivi (la Superbike prevede per il "tre" un cilindrata limite di 900 cc, che fa corrispondere la cilindrata unitaria con quella degli attuali motori da Formula Uno).
Chiaramente l'ingombro complessivo, a parità di cilindrata, ne è invece svantaggiato, anche perché in un bicilindrico a V le bielle possono lavorare su un unico perno di manovella, mentre in un "tre" (a meno di immaginarlo "a ventaglio", come fu realizzato dalla Guzzi per un suo prototipo negli anni Ottanta) necessita di tre perni di manovella e almeno quattro perni di banco.
A confronto con un quattro cilindri, è chiaro che il tricilindrico vince per costi di produzione e può avere un leggero vantaggio in termini di dimensioni in larghezza, ma paga in termini di regime raggiungibile, che per forza di cosa aumenta con il frazionamento, e in altezza, dove la disposizione in linea non può che penalizzarlo con corse, bielle e valvole più lunghe.
Diverso è il discorso per i motori a V, che possono essere complessivamente più compatti, ma va detto che (soprattutto a causa dei costi) nella produzione di serie non se n'è praticamente mai visti: solo la Honda ha prodotto la sua NS 400 (replica della 500 campione del mondo), mentre la Laverda aveva, all'inizio degli anni Ottanta, proposto un interessante prototipo a due tempi per la classe 350, purtroppo mai entrato in produzione.
Alla fine, dunque, la motivazione principe per la scelta di questo frazionamento da parte del progettista appare il "carattere" del motore, oppure i regolamenti sportivi (la Superbike prevede per il "tre" un cilindrata limite di 900 cc, che fa corrispondere la cilindrata unitaria con quella degli attuali motori da Formula Uno).
Equilibratura e vibrazioni
Quando i cilindri sono in linea, il problema non si pone: le manovelle a 120° sono l'unica disposizione sensata, che soddisfa le esigenze di regolarità di rotazione (una combustione ogni 120° nei 2T e ogni 240° nei 4T) e di bilanciamento delle forze di inerzia (che, lo ricordiamo, sono quelle create dei pistoni e di una porzione della biella durante il movimento alternato che è loro proprio).
In realtà, a causa della distanza sempre non trascurabile tra i cilindri, agiscono sui supporti di banco delle coppie che spesso vengono neutralizzate da appositi contralberi, ma va detto che anche senza questi artifici il tricilindrico in linea è un motore intrinsecamente piuttosto ben bilanciato. Per dovere di completezza, bisogna segnalare che la prima serie dei motori Laverda 1000 aveva le manovelle a 180° (la prima e la terza giacevano sullo stesso asse), ma la scelta era probabilmente dovuta alla disponibilità di attrezzature predisposte per le bicilindriche, delle quali veniva conservato il valore della corsa.
Nei motori a V, invece, le cose sono un poco più complesse: è curioso notare che l'equilibratura con questa configurazione è decisamente difficile da ottenere, con ogni valore di angolo tra la V. Infatti tutti gli esempi di questo schema tecnico hanno le manovelle sfalsate in modo da ottenere la regolarità ciclica delle combustioni, mentre per l'equilibratura è stato sempre scelto di equilibrare ogni gruppo pistone-biella-manovella in modo a sé stante, come un monocilindrico.
Va anche sottolineato che questa configurazione è stata usata solo per motori a due tempi, dove risulta vantaggiosa per riuscire a contenere la larghezza totale, che è vincolata, prima che dall'albero motore e dalle tenute necessarie a rendere stagno ogni carter pompa, dalla larghezza dei travasi, che per essere efficienti devono avere un andamento curvilineo. E' curioso notare come la DKW, che ha utilizzato per prima lo schema, abbia progettato il motore con il cilindro centrale orizzontale e quelli laterali quasi verticali, mentre Laverda e Honda abbiano utilizzato uno schema inverso, che permette di abbassare il baricentro
In realtà, a causa della distanza sempre non trascurabile tra i cilindri, agiscono sui supporti di banco delle coppie che spesso vengono neutralizzate da appositi contralberi, ma va detto che anche senza questi artifici il tricilindrico in linea è un motore intrinsecamente piuttosto ben bilanciato. Per dovere di completezza, bisogna segnalare che la prima serie dei motori Laverda 1000 aveva le manovelle a 180° (la prima e la terza giacevano sullo stesso asse), ma la scelta era probabilmente dovuta alla disponibilità di attrezzature predisposte per le bicilindriche, delle quali veniva conservato il valore della corsa.
Nei motori a V, invece, le cose sono un poco più complesse: è curioso notare che l'equilibratura con questa configurazione è decisamente difficile da ottenere, con ogni valore di angolo tra la V. Infatti tutti gli esempi di questo schema tecnico hanno le manovelle sfalsate in modo da ottenere la regolarità ciclica delle combustioni, mentre per l'equilibratura è stato sempre scelto di equilibrare ogni gruppo pistone-biella-manovella in modo a sé stante, come un monocilindrico.
Va anche sottolineato che questa configurazione è stata usata solo per motori a due tempi, dove risulta vantaggiosa per riuscire a contenere la larghezza totale, che è vincolata, prima che dall'albero motore e dalle tenute necessarie a rendere stagno ogni carter pompa, dalla larghezza dei travasi, che per essere efficienti devono avere un andamento curvilineo. E' curioso notare come la DKW, che ha utilizzato per prima lo schema, abbia progettato il motore con il cilindro centrale orizzontale e quelli laterali quasi verticali, mentre Laverda e Honda abbiano utilizzato uno schema inverso, che permette di abbassare il baricentro
Lo stato attuale
Attualmente, anche in virtù dei regolamenti sportivi adottati dei campionati Superbike e MotoGP, il frazionamento a tre cilindri ha riacceso un po' di interesse tra i progettisti. I motori di serie con questa configurazione attualmente sono solo due: si tratta del Triumph e del Benelli, entrambi con i cilindri in linea frontemarcia e un contralbero antivibrazioni.
Il Triumph, di progettazione meno recente, è nato con cilindrata 750-900 e nelle successive evoluzioni ha raggiunto la cilindrata di 955 cc. La termodinamica risente dell'età del progetto (angolo tra le valvole non ridottissimo, condotti di aspirazione poco inclinati), ma convince ancora per prestazioni (oltre 140 CV dichiarati per la versione adottata sulla Daytona) e presenta la particolarità di avere le canne cilindro in alluminio con riporto al nickel-silicio sfilabili e "umide", cioè bagnate direttamente dal liquido di raffreddamento, mentre il blocco che le contiene è integrato con il semicarter superiore.
Il Benelli denuncia immediatamente una progettazione più recente e volta ad un impiego più sportivo: la compattezza generale, il rapporto alesaggio/corsa più superquadro, l'angolo tra le valvole molto contenuto, i condotti di alimentazione quasi verticali, il cambio estraibile. Questo motore è stato anche l'unico tre cilindri a partecipare alle competizioni Superbike: le posizioni di media classifica (comunque sempre a punti) dimostravano contemporaneamente la bontà del progetto originale e la necessità di un intenso lavoro di sviluppo. Purtroppo l'avventura è finita quando l'azienda ha deciso di concentrare i propri sforzi sulla produzione di serie.
Un altro motore ha invece imboccato la strada delle competizioni MotoGP: si tratta del motore della Aprilia, che ha scelto i tre cilindri (in linea) per avere un vantaggio di peso rispetto ai frazionamenti maggiori e per poter usufruire della somiglianza tra cilindrate unitarie con i motori da Formula (330 e 300 cc rispettivamente), in modo da sfruttare il know-how della massima formula. Infatti la progettazione e lo sviluppo del propulsore sono stati portati avanti dall’ing. Lombardi (ex Ferrari) e dalla Cosworth, azienda che si occupa da decenni della progettazione e della realizzazione di motori sportivi ed è legata indissolubilmente alla Formula Uno. Come nel motore Petronas (nato per il GP, è stato riprogettato e destinato alle competizioni Superbike, quando verrà prodotta una moto di serie), è probabile che l’albero motore utilizzi manovelle a 120° tra loro, ma non va dimenticato che questa disposizione permetterebbe, se le circostanze (= usura dei pneumatici) lo richiedessero, anche una sequenza di combustioni tipo “big bang”, cioè con tutti gli scoppi raggruppati in solo 360° dell’albero motore, mentre nei successivi 360° non avverrebbe nessuna erogazione di potenza.
Il Triumph, di progettazione meno recente, è nato con cilindrata 750-900 e nelle successive evoluzioni ha raggiunto la cilindrata di 955 cc. La termodinamica risente dell'età del progetto (angolo tra le valvole non ridottissimo, condotti di aspirazione poco inclinati), ma convince ancora per prestazioni (oltre 140 CV dichiarati per la versione adottata sulla Daytona) e presenta la particolarità di avere le canne cilindro in alluminio con riporto al nickel-silicio sfilabili e "umide", cioè bagnate direttamente dal liquido di raffreddamento, mentre il blocco che le contiene è integrato con il semicarter superiore.
Il Benelli denuncia immediatamente una progettazione più recente e volta ad un impiego più sportivo: la compattezza generale, il rapporto alesaggio/corsa più superquadro, l'angolo tra le valvole molto contenuto, i condotti di alimentazione quasi verticali, il cambio estraibile. Questo motore è stato anche l'unico tre cilindri a partecipare alle competizioni Superbike: le posizioni di media classifica (comunque sempre a punti) dimostravano contemporaneamente la bontà del progetto originale e la necessità di un intenso lavoro di sviluppo. Purtroppo l'avventura è finita quando l'azienda ha deciso di concentrare i propri sforzi sulla produzione di serie.
Un altro motore ha invece imboccato la strada delle competizioni MotoGP: si tratta del motore della Aprilia, che ha scelto i tre cilindri (in linea) per avere un vantaggio di peso rispetto ai frazionamenti maggiori e per poter usufruire della somiglianza tra cilindrate unitarie con i motori da Formula (330 e 300 cc rispettivamente), in modo da sfruttare il know-how della massima formula. Infatti la progettazione e lo sviluppo del propulsore sono stati portati avanti dall’ing. Lombardi (ex Ferrari) e dalla Cosworth, azienda che si occupa da decenni della progettazione e della realizzazione di motori sportivi ed è legata indissolubilmente alla Formula Uno. Come nel motore Petronas (nato per il GP, è stato riprogettato e destinato alle competizioni Superbike, quando verrà prodotta una moto di serie), è probabile che l’albero motore utilizzi manovelle a 120° tra loro, ma non va dimenticato che questa disposizione permetterebbe, se le circostanze (= usura dei pneumatici) lo richiedessero, anche una sequenza di combustioni tipo “big bang”, cioè con tutti gli scoppi raggruppati in solo 360° dell’albero motore, mentre nei successivi 360° non avverrebbe nessuna erogazione di potenza.
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