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Honda VTR 1000 SP-2 SBK 2001

il 17/12/2001 in Moto & Scooter

Ha debuttato come SP-1, e ha subito vinto il titolo. Nel 2001, però, l’evoluzione della bicilindrica di Tokio ha deluso chi si aspettava una battaglia al top. Abbiamo scoperto perché

Honda VTR 1000 SP-2 SBK 2001


di Alan Cathcart
, foto Kel Edge




Quando Honda ha deciso di contrastare lo strapotere Ducati sul suo terreno (quello delle bicilindriche), non solo l’ha fatto con ben altra convinzione rispetto a Suzuki all’epoca della TL 1000 R, ma ha anche compiuto un’impresa storica, vincendo il titolo mondiale l’anno del debutto con una moto appena progettata! Anche Ducati ha vinto con la 916 il primo anno, ma aveva ben altra esperienza sulle bicilindriche…




Se non altro, comunque, la Honda ha dimostrato che le critiche alla formula del campionato Superbike (troppo divario di cilindrata tra bicilindriche e quattro cilindri) sono fondarte, e che il rischio è di vederlo diventare una sorta di Battle of Twins.
Ma la stagione 2001 non ha riservato le stesse soddisfazioni all’HRC, che ha dovuto lottare contro avversari notevolmente cresciuti e ha faticato non poco a cercare di mantenere la competitività. Compito non semplice, visto che, contro i quindici podi dell’alfiere Ducati Bayliss, Edwards ha potuto opporne solo dodici, e soli tre Okada, suo compagno di squadra.




Insomma: o gli altri sono andati molto avanti, o forse la Honda ha sbagliato qualche passo. La sensazione è che la HRC abbia avuto molto da lavorare attorno alla nuova RC211, e che lo sviluppo della moto da Superbike sia stato limitato al minimo indispensabile. Non che la moto non abbia ricevuto un’evoluzione, ma dopo averla provata posso garantire che Colin Edwards non è semplicemente un bravo pilota, ma è un dannato fegataccio di pilota!






La SP-2 è sostanzialmente la stessa moto della SP-1, ma corretta in una lunga serie di dettagli più o meno importanti. È stata modificata la rigidità del telaio, che nella stagione 2000 si era rivelata eccessiva, realizzando in modo diverso le bretelle anteriori di supporto del motore. Anche il forcellone è stato riprogettato: “Può sembrare più grande e più robusto –dice Adrian Gorst, tecnico di Edwards-, ma in realtà è più cedevole di quello della SP-1, che era nato per fare tanti chilometri anche con il passeggero”. La geometria di sterzo è piuttosto conservativa (caster 24,5°, avancorsa da 96 a 99 mm) e la distribuzione dei pesi vale 53/47 – 55/45% a seconda dell’altezza della sella: è chiara la ricerca della stabilità prima della maneggevolezza.




Il motore è caratterizzato dalle inconsuete caratteristiche di avere i semicarter sovrapposti e i cilindri di pezzo con quello superiore (oltre a pistoni a tre segmenti), e ha sempre dato prova di grande affidabilità, a parte quando, a inizio stagione, si è verificata una imbarazzante moria di motori. Ufficialmente si tratta di “un lotto di particolari meccanici difettosi (quali? NdA)”, ma almeno è più significativo del solito “problema di accensione”. Che di solito è dovuto al fatto che il motore non gira più, e quindi che non può comandare scintille…




Lo sviluppo della meccanica ha portato a modifiche di forma alle camere di combustione e dei condotti che, insieme all’adozione di corpi farfallati da 62 mm (prima erano da 54) e alla modifica dell’air box, hanno garantito un guadagno di circa 8 CV. Tre di questi sono poi stati sacrificati alla guidabilità, quando motivi di erogazione hanno portato a definire un nuovo scarico due-in-uno.






La posizione di guida sulla Honda è più razionale di quella della Ducati: nonostante il motore giapponese sia più ingombrante dei suoi avversari bolognesi e veneti, e la protettività sia paragonabile a quella dell’Aprilia, la moto appare più stretta delle italiane. In movimento la cosa che colpisce subito è il contrasto tra alcune eccellenti caratteristiche della moto e altre decisamente non all’altezza del numero 1. Il motore, per esempio, con 186 CV dichiarati all’albero a 12.000 giri, appare arrivato a un livello di sviluppo considerevole, ma l'erogazione ai medi regimi e di reazione all’apri e chiudi è troppo brusco. Questo di certo contribuisce al nervosismo della ciclistica, che risponde con impennate e sbacchettamenti al “calcione” di coppia che arriva a 8000 giri di strumento, situazione difficile da controllare anche sollevandosi sulle pedane e spostando il peso in avanti.




Per fortuna che il feedback della Showa anteriore da 47 mm è fantastico, perché almeno aiuta a controllare la situazione quando si cerca di aprire il gas per uscire fuori dalla curva. Senza contare l’aiuto che dà in staccata: l’impianto Nissin è fenomenale per potenza, modulabilità e resistenza al fading, ma ogni volta il sollevamento del retrotreno è una certezza, e bisogna mettere in conto scodinzolamenti anche provando a precaricare la sospensione pinzando sul freno posteriore prima dell’anteriore.




Se non fosse per questi difetti (tutt’altro che trascurabili), la moto ha ottime caratteristiche come una guidabilità d’eccezione (grazie ad altezza e posizione del baricentro, concentrazione delle masse, assenza di sottosterzo) e un’affidabilità a tutta prova, che ne fanno un’arma efficace in mano ai privati (vedi team Rumi). Ma siamo sicuri che la Honda non stia già guardando al 2004, quando una eventuale CBR 1000 RR (oddìo, la 900 è già 954…) potrà combattere contro i bicilindrici?
Honda VTR 1000 SP-2 SBK 2001
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