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Ducati Apollo 1260

il 28/04/2001 in Moto & Scooter

Negli Anni ’60 era la moto più moderna del mondo. Troppo. Svanita nel nulla, è stata ritrovata in Giappone. Ora è tornata a casa, per stupire

Ducati Apollo 1260
Il tachimetro/contachilometri era l'unico strumento dell'Apollo


di Luigi Rivola




L’Apollo era il programma spaziale americano lanciato dal John Kennedy nel 1961 per conquistare la Luna. L’impresa riuscì il 21 luglio 1969.

L’Apollo era una moto Ducati a quattro cilindri di 1260 cc, progettata dall’ing. Fabio Taglioni per conquistare gli Stati Uniti. Costruita nel 1963, successivamente modificata fino al 1965, non riuscì mai nell’impresa, ma il suo motore, diviso in due su un piano verticale longitudinale, diede vita al bicilindrico ad “L”, che anziché la sola America, ha conquistato il mondo intero.





La Ducati, rilanciata dalle grandi vittorie sportive e dalle strategie commerciali e di immagine poste in atto dalla nuova proprietà, negli ultimi anni ha riscoperto la sua storia. Il Cucciolo, la Marianna, la Mach 1, la fortunata serie delle Scrambler, fino alle bicilindriche dell’ultima generazione, tutti i prodotti che hanno contraddistinto l’opera industriale della Casa di Borgo Panigale sono stati spolverati, restaurati idealmente e materialmente, valorizzati ed inseriti nel contesto in cui furono pensati e realizzati, infine riuniti in un museo.




In questo museo c’è un motore, solo un motore, non una moto completa, che la Ducati conserva da quasi quarant’anni, unico esempio di affezione per un progetto mai concretizzatosi, fra i tanti che certamente la Ducati, come tutte le industrie motociclistiche, ha scartato. È il motore dell’Apollo 1260, un poderoso propulsore per una moto che fino ad oggi il visitatore del museo Ducati poteva solo immaginare.

Questa moto, che c’era, ma nessuno sapeva dove, ora è ricomparsa ed è esposta nell’atrio della Ducati, assieme alle odierne supersportive. Forse rimarrà per sempre a Borgo Panigale, o forse tornerà da dove è venuta. Non si sa.






Per Livio Lodi, uno degli artefici del Museo Ducati di Borgo Panigale, il ritorno a casa della Ducati Apollo è stato come per Penelope il ritorno di Ulisse.

Racconta: “Il mio primo approccio con questa moto, della quale fino a quel momento ignoravo l’esistenza, risale al 1995, quando Giuliano Pedretti (un personaggio che della Ducati conosce ogni granello di polvere) mi mostrò, durante una pausa di lavoro, alcun oggetti polverosi in un magazzino interno allo stabilimento. Il mio sguardo fu attratto da un motore enorme a quattro cilindri a “V”, e Giuliano mi spiegò che si trattava del motore dell’Apollo 1200, senza aggiungere altro”.

Tre anni dopo, Livio Lodi, diventato assistente di Marco Montemaggi presso il neonato Museo Ducati, si ritrovò ad osservare quel grosso motore, ripulito e lucidato, dall’architettura così simile a quella dei Ducati bicilindrici attuali.




“La mia curiosità nei confronti di quel propulsore era sempre viva, perché avevo più volte sentito ripetere che l’ingegner Taglioni aveva scelto il bicilindrico ad “L” per non disperdere l’esperienza fatta progettando l’Apollo, e che quindi quella specie di monumento era in realtà il progenitore dei Ducati di oggi”.

La Ducati aveva sempre conservato quel motore, proprio come un monumento ad un progetto sfortunato. Due moto però erano state effettivamente costruite, ma se ne era persa ogni traccia. Francamente nessuno a Borgo Panigale sperava che un giorno una sarebbe riemersa dalla nebbia.

Invece, quel giorno di maggio del 2000...






Nel maggio del 2000, mentre fervevano i preparativi del World Ducati Weekend, Livio Lodi conobbe a Bologna un giornalista giapponese, Miyata Yoji, arrivato a Borgo Panigale per visitare il museo Ducati. Giunto al cospetto del grosso propulsore a quattro cilindri, il giornalista, invece di manifestare stupore come tanti altri, per lo strano e sconosciuto motore, dichiarò di sapere che un collezionista giapponese possedeva una Apollo completa.

Lodi forse era scettico, ma nessun ricercatore è mai disposto a lasciarsi sfuggire una traccia quando annusa l’odore di una preda eccezionale. Il giornalista giapponese infatti non era un fanfarone: l’11 giugno telefonò a Lodi e gli comunicò di essere entrato in contatto col collezionista Iroaki Iwashita, nella cui casa stava la moto del mistero: l’Apollo 1260 inutilmente cercata in tutto il mondo per tanti anni.




La Ducati si mise subito all’opera per cercare di recuperare il prezioso cimelio. Mirko Bordiga, general manager della Ducati-Japan, e il suo collaboratore Yuzuru Yamane, chiesero a Iwashita di vendere l’Apollo al museo Ducati, ma ricevettero un diniego piuttosto perentorio. Il collezionista giapponese si dichiarò però disposto a lasciare alla Ducati la moto per sei mesi, anche nella certezza che sarebbe stato compiuta nell’occasione un’opera certosina di restauro, di cui la moto necessitava, soprattutto per la mancanza di diverse parti originali.

A fine febbraio, con un volo speciale, l’enorme cassa contenente l’Apollo è atterrata a Bologna. Poco dopo era già nell’officina di Giuliano Pedretti e di Primo Forasassi. Attualmente, ritornata alla condizione in cui era quando fu esibita alla fiera di Daytona del 1965, è esposta nell’atrio della Ducati. A Bologna non disperano di poterla tenere per sempre, magari facendo partire per il Giappone un paio di gloriose 888 Racing.






La vicenda della Ducati Apollo è legata per gran parte del suo sviluppo al nome dell’americano Joe Berliner, che nel 1958 era diventato l’unico importatore di moto Ducati negli Stati Uniti.

All’inizio degli Anni ’60, quando pochi avevano intuito che il futuro della motocicletta non sarebbe stato nei veicoli onesti ed economici, ma in quelli ad alte prestazioni per il tempo libero, e quando molti miravano al Nord America, come ad un grande mercato motociclistico da conquistare, Berliner ebbe il merito di saper convincere la Ducati dell’opportunità di proporre una maximoto studiata sia per la Polizia americana, sia per i motociclisti USA abituati alle dimensioni e alle prestazioni delle Harley Davidson.




Così nacque l’Apollo 1260, una moto a quattro cilindri, quando due sembravano già un’esagerazione, una moto da 100 CV, quando le Harley non arrivavano a sessanta; una moto da 200 km/h, quando le Harley passavano di poco i 150 all’ora; una moto da 270 kg, quando le Harley superavano i 310!

Troppo potente per quel periodo, e anche troppo veloce. Nessun pneumatico del tempo era in grado di sopportare tutti quei cavalli e quella straordinaria coppia motrice. Nessun fornitore era in grado di garantire pezzi adeguati alle esigenze di una simile motocicletta, soprattutto in previsione di una produzione in numeri rilevanti.




La sua eccezionalità fu la sua condanna. Due moto complete furono realizzate e collaudate; si tentò di ridurre la potenza a 65 CV, ma a quel punto la moto risultò troppo pesante e poco competitiva, nonché troppo costosa in relazione a ciò che effettivamente era in grado di offrire.

Le due moto finite rimasero in America fino al 1984, quando la Berliner cedette il proprio magazzino alla Domiracing Ltd, che a sua volta vendette l’Apollo o le Apollo – non è ancora stato appurato – ad appassionati collezionisti. Una è riapparsa. L’altra, dov’è?






L’Apollo acquistata da Iroaki Iwashita per 17.000 dollari nel 1984 era stata modificata in diversi particolari: il serbatoio originale, lo stesso della Ducati Mach 1 250, risultava sostituito con una della 750 S; Il fanale non era il suo, i pneumatici non avevano la banda circolare bianca; tutta moto richiedeva un restauro accurato; la frizione in particolare (17 dischi) era bloccata.

Col generoso aiuto di un collezionista italiano di Ducati, Andrea Dell’Omo, l’Apollo è stata restaurata riportandola all’ultima versione del 1965.




Esteticamente l’aspetto è quello di una moto italiana americanizzata con la semplice applicazione di parafanghi più pronunciati ed avvolgenti del solito, con un manubrio a corna di bue, e soprattutto con un sellone molto yankee, delimitato posteriormente da un grande maniglione cromato. Completano il restyling due larghissimi (per l’epoca) pneumatici di tipo automobilistico arricchiti della banda bianca tanto cara alle berline USA Anni ’50 e ‘60.

Protagonista assoluto della tecnica, ma anche dell’estetica, è comunque il propulsore, davvero enorme non tanto per la presenza dei quattro cilindri a “L” longitudinale di 90°, quanto per l’immenso carter tagliato su un piano orizzontale inclinato e per la grande scatola del cambio in blocco a quattro rapporti.




L’alimentazione era fornita da quattro carburatori Dellorto TT con diffusore di 24 mm e due vaschette separate; gli scarichi erano 4 in 2 con i classici e affusolati silenziatori Silentium che equipaggiavano la quasi totalità delle moto italiane dell’epoca. L’accensione era a spointerogeno e l’avviamento elettrico era garantito dal motorino della Fiat 1100 collocato dietro i cilindri verticali.

Decisamente anticonvenzionale era la trasmissione finale a catena duplex, chiaramente scelta per il timore che una catena semplice non riuscisse a resistere a tanta potenza. Lo stesso scrupolo non si era avuto per i freni, due tamburi a camma singola, che oggi non basterebbero per un ciclomotore.






Motore: a 4 tempi, 4 cilindri a “L” longitudinale di 90°, raffreddamento ad aria, alesaggio e corsa 84,5 x 56 mm, cilindrata 1256 cc; distribuzione a due valvole per cilindro comandate da aste e bilancieri; rapporto di compressione 8:1; alimentazione con quattro carburatori Dellorto TT 24. Accensione a spinterogeno. Lubrificazione a carter umido. Avviamento elettrico con motorino ad innesto elettromagnetico.





Trasmissione: primaria a ingranaggi, finale a catena duplex. Frizione multidisco in bagno d’olio, cambio a quattro marce.

Ciclistica: telaio monoculla in tubi d’acciaio aperto inferiormente e integrato da elementi in lamiera stampata. Sospensione anteriore a forcella teleidraulica con steli superiori racchiusi; sospensione posteriore a forcellone oscillante con due ammortizzatori teleidraulici laterali simmetrici. Ruote: cerchi a raggi metallici con pneumatici 5.00x16” su entrambe le ruote. Freni: anteriore a tamburo centrale con comando meccanico mediante trasmissione flessibile; posteriore a tamburo centrale con comando meccanico a trasmissione flessibile.




Dimensioni (in mm) e peso: interasse 1537 mm. Peso a secco 270,5 kg.

Prestazioni dichiarate: potenza 80 CV (58,82 kW) a 6.000 giri (100 CV nella versione “Sport”). Coppia n.d.
Ducati Apollo 1260
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