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Attualità

Perché così tanti piloti vengono operati per sindrome compartimentale?

Giulia Girardelli
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Perché così tanti piloti vengono operati per sindrome compartimentale?
Perché così tanti piloti vengono operati per sindrome compartimentale?
Perché così tanti piloti vengono operati per sindrome compartimentale?

E' una domanda che ci siamo fatti alla luce del recente boom di operazioni tra i big del Motomondiale. Ma perché i piloti ne soffrono così tanto? Si può prevenire? E perché fino a 20 anni fa era sconosciuta? Noi ne abbiamo parlato con un esperto. Ecco cosa abbiamo scoperto

La sindrome compartimentale è la nuova epidemia del Motomondiale: mai come in questi anni sono stati così tanti i piloti che si sono dovuti sottopporre a un intervento chirurgico per risolvere questa malattia. Ma che cosa è e da cosa è causata? E perché questo picco di interventi? Ne abbiamo parlato con Giorgio Pivato, responsabile dell'unità operativa di chirurgia della mano e microchirurgia ricostruttiva dell'Humanitas. Iniziamo proprio dal termine “sindrome compartimentale”, che cos’è e che tipo di problemi dà? "La sindrome compartimentale è conosciuta tra gli sportivi come “la malattia dei piloti di moto”, perché colpisce soprattutto chi come loro sforza l’avambraccio, appoggiandosi sul manubrio e ci sono tanti top rider che ne hanno sofferto. È una condizione neuromuscolare abbastanza rara perché colpisce una popolazione selezionata di persone. È indotta proprio dallo sforzo fisico che viene impiegato per guidare la moto, che causa gonfiore, dolore e disabilità. In termini pratici questo avviene nel momento in cui il muscolo diventa ipertrofico, ovvero troppo grande per essere contenuto all’interno della fascia che lo circonda, l’apporto vascolare viene ridotto a causa della compressione della fascia che li avvolge. Si verifica quindi una sofferenza ischemica, cioè non arriva abbastanza sangue ai muscoli". Quali sono le cause scatenanti di questo problema? "Ci sono diversi fattori di rischio che possono portare a sviluppare questo problema, primo fra tutti un aumento della massa muscolare: ci sono atleti che, oltre all’esercizio fisico quotidiano, ritengono necessario avere un ulteriore rinforzo. Così facendo però ottengono un risultato controproducente perché i muscoli diventano più grossi e, di conseguenza, più soggetti a questo problema.L’aumento dell’allenamento in vista di competizioni importanti riguarda anche e soprattutto quegli atleti che devono affrontare percorsi difficili e accidentati, ad esempio i piloti di motocross. Non dimentichiamoci anche chi usa il quad a livello agonistico, costretto a guidare in piedi e quindi ad apportare una forte carico sugli avambracci". Le è capitato di trattare casi di questo tipo? Come si interviene? "Sì, ne abbiamo trattati diversi. Generalmente si inizia con trattamenti non chirurgici come massaggi, ultrasuoni, tecarterapia, stretching e laserterapia, si tratta però di attività volte a prolungare il tempo prima dei veri sintomi. In realtà è l’intervento chirurgico che porta alla vera risoluzione del problema. Il nome specifico dell’intervento è “fasciotomia”: consiste nell’aprire la borsa che avvolge il muscolo, in modo da farlo espandere e permettere anche al sangue di tornare a fluire in maniera corretta. Originariamente l’intervento veniva fatto con incisioni molto grandi, si apriva addirittura tutto l’avambraccio. Oggi invece, grazie a sistemi innovativi si può fare con la tecnica endoscopica, quindi con due piccoli taglietti sul dorso dell’avambraccio e, sotto il controllo di una telecamera, viene aperta la fascia attorno al muscolo. Con questa tecnica si può addirittura svolgere l’intervento contemporaneamente in tutte e due le braccia e i tempi di recupero si riducono: già dal giorno dopo il paziente le può usare senza limitazioni funzionali".  

"la fasciotomia oggi viene fatta in endoscopia ed è un intervento poco invasivo. una volta si era costretti a praticare incisioni esterne molto lunghe"

Alcuni piloti hanno dovuto sottoporsi, anche più volte, a questo tipo di intervento, significa quindi che non è del tutto risolutivo? "Ritengo di no. Diciamo che, assumendomi le responsabilità di quello che dico, se il problema si ripresenta vuol dire che l’intervento non è stato eseguito in maniera del tutto corretta. Vale a dire che non è stato aperto bene tutto il compartimento interessato dal problema". C’è la possibilità di prevenire questo disturbo? "A livello di prevenzione la risposta è negativa perché si tratta di un problema indotto dal tipo di attività fisica che questi atleti svolgono. Probabilmente c’è una predisposizione anatomica, si parla di un 14% di motociclisti interessati da questo tipo di patologia. A questo dato va chiaramente aggiunta l’attività di potenziamento dei muscoli di cui parlavamo prima". Se pensiamo però ai piloti della MotoGP degli Anni 80/90, non ricordiamo casi di sindrome compartimentale. Nel caso dei piloti della nuova generazione, invece, è diventata una problematica comune da dover affrontare nel corso della carriera sportiva. Come mai secondo lei questa differenza? "Io individuerei fondamentalmente due ragioni: la prima è che era una situazione che non si conosceva, di cui non si faceva diagnosi. Parliamo anche di piloti con carriere più brevi e quindi portati a sottostimare il problema. La seconda ragione è che il livello agonistico raggiunto oggi è differente, sia in termini di frequenza di prestazioni a cui sono sottoposti, sia per le modalità di allenamento che intraprendono e sicuramente anche le caratteristiche prestazionali delle moto che utilizzano oggi, molto più fisiche rispetto agli anni 80/90. Da una parte abbiamo quindi maggior consapevolezza e capacità di riconoscere il disturbo, dall’altra sono cambiate le modalità di svolgimento dell’attività fisica".  

"una volta la sindrome compartimentale era una situazione che non veniva diagnosticata. oggi le carriere motociclistiche sono più lunghe e il livello agonistico è decisamente superiore rispetto agli anni 80-90"

Ci sono altri sport in cui questo problema è diffuso ed emerge in maniera così incisiva? Assolutamente si, anche se se ne parla meno. Per esempio negli atleti in sedia a rotelle è molto comune, a causa dello sforzo che compiono per spingere la carrozzina. La ginnastica è un altro caso, pensiamo per esempio a Jury Chechi. Abbiamo poi anche il tennis e la bicicletta. In quest’ultimo caso, per quanto la posizione possa essere più ergonomica rispetto a quella delle moto, soprattutto chi fa cross sforza molto l’avambraccio. Infine ricordiamo chi utilizza il quad, come già detto precedentemente. In molte occasioni abbiamo visto i piloti presentare i primi sintomi proprio durante lo svolgimento di una gara. Nel caso in cui non venisse riconosciuta in maniera tempestiva, che tipo di rischi associati potrebbero verificarsi, anche a livello di prestazione del pilota? "Trattandosi di un problema funzionale, il sintomo viene percepito proprio durante lo sforzo fisico. Ci sono dei test che permettono di verificare se c’è il problema, ma la loro veridicità è poco attendibile. Non è quindi un problema che da rischi a lungo termine. Trattandosi di un dolore ischemico però è molto forte e determina formicolio, perdita di forza e della presa, perciò i piloti si vedono costretti a dover abbandonare il manubrio. Essendo abituati a questo disturbo hanno una percezione dell’inizio del sintomo molto forte e riescono a fermarsi in tempo. Ritengo più grave il fatto che se non riconosciuta e trattata può compromettere la performance futura, portando il pilota a dover abbandonare la propria attività". Ci sono novità recenti o ricerche sperimentali nell’ambito della sindrome compartimentale? "Sotto questo punto di vista lo sviluppo va fatto in termine tecnico, a livello di costruzione ingegneristica del mezzo che utilizzano. Sarà quindi il motociclista a dover  trovare sistemi di assetto o di ammortizzazione, nonchè schemi di  allenamento che non vadano a sovraccaricare questi muscoli. Da un punto di vista clinico non potrà mai esistere qualcosa che impedisca il verificarsi del problema. Il futuro è quindi legato al mondo ingegneristico che si occupa dello sviluppo dei mezzi utilizzati".  

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