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Attualità

Marelli: un euro per un pezzo di storia

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Marelli: un euro per un pezzo di storia
La Ducati 851 i.e.
La Moto Guzzi Daytona 1000 i.e.
La Moto Guzzi Daytona 1000 i.e.
La Moto Guzzi Daytona 1000 i.e.
La Bimota YB4 i.e.
La Bimota YB6 i.e.
La Aprilia SL 750 Shiver
La Aprilia SL 750 Shiver
Il motore Aprilia SL 750 Shiver
Marelli: un euro per un pezzo di storia
Marelli: un euro per un pezzo di storia

Lo stabilimento Weber Marelli di Crevalcore venduto per un euro: breve storia dell'industria dei motori italiana in dismissione

C’era una volta un’Italia che aveva magari perso un po’ di prestigio internazionale, ma più giovane e ambiziosa di adesso. Un’Italia tanto piena di entusiasmo quanto di piccole aziende disseminate per lo Stivale, che producevano motori di piccola cilindrata, telai, sospensioni, freni e naturalmente moto complete. Un po’ di tutto. Era l’Italia in cui si parlava soltanto italiano – spesso anzi dialettale – e non c’era la Motor Valley, ma la Terra del Mutòr: l’Emilia-Romagna, con le sue eccellenze piccole e grandi, la Ferrari e la Malaguti, la Franco Morini e la Ducati, la Italjet e la Bimota. Attorno a queste aziende era fiorito tutto un contorno di fornitori piccoli e grandi: se parliamo di moto, Marzocchi per le sospensioni, Grimeca per freni e ruote, Franco Morini e Minarelli per i motori, Verlicchi per i telai, poi i fornitori di impianti elettrici, di plastiche, i verniciatori e via dicendo.

Dalla Terra del Mutòr alla Motor Valley

Il successo internazionale di Ducati, Ferrari, Lamborghini ci ha fatto dimenticare i costi del processo di internazionalizzazione. La trasformazione della Terra del Mutòr in Motor Valley, non è stata indolore: Malaguti, come tutti sanno, ha chiuso e ne rimane solo il marchio; di Moto Morini poco di più, dopo aver traslocato nel pavese ed essere passata in mano cinese; Italjet è rimasta a lungo in coma prima di ripartire un paio di anni fa, Malanca e altre decine di marchi minori sono scomparsi del tutto. Sul campo sono rimasti anche tanti terzisti, non solo piccoli. Motori Franco Morini ha chiuso i battenti, Motori Minarelli è stata assorbita da Yamaha e poi comprata dalla rediviva Fantic Motor, Marzocchi è passata di mano più volte, prima agli americani di Tenneco e poi agli italiani di VRM che l'hanno finalmente rilanciata; Verlicchi è scomparsa, Grimeca è ridotta al lumicino.
La Ducati 851 i.e. del 1987, la prima moto italiana a iniezione, usa componenti Weber Marelli

Il cielo sopra Bologna

Le ultime nubi sul cielo di Bologna si sono addensate dalle parti della Weber, glorioso carburatorista auto che ha però accompagnato Ducati nel suo precoce percorso di passaggio all’iniezione elettronica. Praticamente da sempre parte del gruppo Fiat, nel 1986 è stata integrata all'interno di Magneti Marelli, il “braccio armato” di Fiat nelle forniture tecnologiche. Famosa per i suoi carburatori sportivi, ancora nel 1992 la Weber era la più grande fabbrica di carburatori del mondo, e ha poi saputo convertirsi all’avvento dell’iniezione elettronica e del catalizzatore. Grazie alla relativamente precoce esperienza nel campo dell’iniezione, come dicevamo Weber-Marelli ha poi accompagnato le Case italiane che hanno sperimentato per prime in questo senso: oltre a Ducati anche Bimota (YB4, YB6, Furano…), Moto Guzzi (Daytona 1000 e più tardi California 1100) e Aprilia (su tutte, il primo Ride-By-Wire su una moto con la Shiver 750). Marelli è un’eccellenza anche nel mondo racing: Formula1, Rally ma anche Superbike e MotoGP, dove tuttora fornisce la centralina unica. Un colosso, che nel 2017 fattura di 8,2 miliardi di euro e dà lavoro nei suoi stabilimenti a 43.000 persone, oltre 10.000 solo in Italia.

La globalizzazione e la crisi

Negli ultimi anni, però, il mondo dell’automotive subisce un’accelerazione senza precedenti: la globalizzazione dei mercati e delle forniture, l’arrivo delle motorizzazioni elettriche, le mega-fusioni aziendali. Fiat sta per fallire, si salva per il rotto della cuffia, acquisisce il controllo di Chrysler, ma per fare cassa inizia anche a dismettere pezzi. Fra questi la Marelli, che nel 2018 viene ceduta al gruppo giapponese Kalsonic Kansei, controllata dal fondo di investimento statunitense KKR. Sembra l’inizio di un promettente asse tecnologico Italia-Giappone, invece KKR riversa su Marelli i costi dell’investimento per acquisirla, innescando una grave crisi che, in assenza di investimenti per seguire i colossali cambiamenti tecnologici in atto, porta alla chiusura di attività e stabilimenti ex Marelli in tutto il mondo. L'ultimo della serie è quello di Crevalcore, della galassia Weber, aperto nel 1973. Poche ore fa si è trovato l’accordo per evitare la chiusura: la piemontese Tecnomeccanica acquisterà lo stabilimento alla cifra simbolica di 1 euro. Il piano prevede l’assunzione di 152 dei 299 dipendenti e investimenti (con il supporto statale di Invitalia) per 22 milioni di euro con l'obiettivo di continuare a produrre componenti auto, aggiungendo prodotti nel settore delle luci e delle batterie elettriche.

Un mondo che cambia

Bene che la proprietà resti in Italia, ma lo stabilimento avrà ancora a che fare con le moto? È poco probabile. Il mondo delle moto è troppo piccolo. Già quello dell’auto è troppo piccolo, se guardiamo al mercato italiano. Non basta più nemmeno quello europeo, e quello mondiale è affollato di colossi famelici. È un mondo in cui le regole della finanza contano più di quelle della meccanica, ed è un mondo in cui per le aziende italiane, specializzate nell’essere piccole e brillanti, è difficile sopravvivere. Possono riuscirci se sono all’interno di grandi gruppi, come Ducati e Bimota; in teoria lo stesso discorso doveva valere per Marelli, di cui però non è più così chiara la direzione strategica. Bisogna tenerci strette le nostre aziende, perché è improbabile che oggi una storia come quella di Ducati e Weber possa ripetersi partendo dall’inizio, con pochi soldi e molte idee, e crescere fino ad assumere rilievo internazionale. Le nostre aziende sono animate da tecnici e maestranze spesso geniali, mentre non pare lo stesso si possa dire del management. Se un pezzo di storia industriale italiana vale un euro, c’è poco da stare allegri.

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