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Attualità

Il ritorno del CORSA LUNGA

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Dopo decenni passati a inseguire la potenza ad alti regimi di rotazione con motori sempre più superquadri, da qualche tempo il buon vecchio corsa lunga sta tornando di moda. Ci sono per questo delle buone ragioni: ecco quali

Le misure dei motori sono un po’ come le gonne delle donne: si allungano e si accorciano. Agli albori della motorizzazione, sembrava logico avere la corsa lunga perché i primi motori erano poco efficienti e producevano poca spinta sui pistoni. Dato che la coppia è proporzionale sia alla spinta media sul pistone che al braccio di manovella, pari a metà della corsa, allungare la corsa permetteva di avere più coppia. Per descrivere la struttura del motore si è per semplicità iniziato a usare il rapporto tra alesaggio e corsa (A/C): se la corsa è uguale all’alesaggio i motori si dicono “quadri” (A/C=1); quei primi motori erano invece “sottoquadri” perché l’alesaggio era più piccolo della corsa (A/C<1) e i motori moderni, nella maggioranza dei casi, sono "superquadri" (A/C>1).

I limiti della corsa lunga...

Questo perché via via che la tecnologia si affinava, soprattutto sui motori più spinti si è iniziato a cercare più potenza. La potenza, a sua volta, è proporzionale sia alla coppia che al regime di rotazione: per cui di nuovo, se hai poca coppia a disposizione, puoi rimediare raggiungendo alti regimi di rotazione. A quel punto hai più potenza, e sfruttando il cambio puoi ritrovare la coppia che ti serve. Se la corsa lunga aiuta ad avere più coppia, è invece un ostacolo quando si tratta di girare alto. Questo perché a ogni giro il pistone deve raggiungere il PMI e il PMS, dove ogni volta si ferma e inverte il suo movimento; e più strada deve percorrere nello stesso tempo più intensamente dovrà accelerare quando riparte da fermo. Ma le accelerazioni si traducono in sollecitazioni sugli organi meccanici (le chiamiamo inerzie, e sono una proprietà fondamentale della materia immersa nel campo gravitazionale terrestre). Queste sollecitazioni si possono misurare indirettamente con la velocità lineare media del pistone al regime di potenza massima, che spesso si trova indicata nelle schede tecniche. Due motori di pari frazionamento e cilindrata allo stesso regime saranno soggetti a sollecitazioni interne diverse: quello con la corsa più corta avrà meno sollecitazioni, quello con la corsa più lunga sarà più sollecitato. Per resistere, i dimensionamenti saranno più generosi, il che aumenterà ulteriormente le inerzie limitando la reattività e il regime massimo raggiungibile: insomma, il cane si morde la coda e la situazione continua a peggiorare.

...e i vantaggi della corsa corta

Viceversa, i motori superquadri hanno non solo minori inerzie, ma anche larghi pistoni che possono alloggiare valvole sempre più grandi, necessarie per introdurre la miscela di aria e benzina nei tempi sempre più brevi disponibili quando si sale di regime. Nel corso degli Anni 80 il passaggio alle quattro valvole per cilindro è pressoché universale, Yamaha e poi Aprilia si fanno un vanto di aver raggiunto le cinque, Maserati sperimenta addirittura con sei. Tutto sembra volgere a favore della configurazione con grandi alesaggi e piccole corse: i motori superquadri. Ecco perché dal Dopoguerra ci si sposta verso i motori sempre più superquadri, con rapporto alesaggio/corsa sempre più grande. A estremizzare il concetto sulle moto ci pensano soprattutto i giapponesi, forti della loro maestria nei materiali e nelle lavorazioni: Honda con le sue RC raggiunge numeri incredibili per l’epoca: a metà degli Anni 60 la RC155, 50 bicilindrica, la RC149 125 a cinque cilindri e la RC166 250 a 4 cilindri superavano tutte i 20.000 giri/min con un rapporto A/C attorno a 1,4, elevatissimo per l’epoca.

Il caso Ducati

Lo stesso trend lo si è visto tra gli Anni 80 e 90, l’epoca d’oro delle supersportive stradali, quando la richiesta di configurazioni sempre più sportive portò a sviluppare motori 4 cilindri in linea di 1000 cc, ma soprattutto 600 cc, molto propensi a girare alto (la Yamaha R6 del 2006 arrivò ad avere il limitatore a 17.800 giri/min…) ma oggettivamente poveri di coppia ai regimi più utilizzati su strada. Negli stessi anni, anche Ducati applica la “lezione giapponese” al suo bicilindrico a L, nato moderatamente superquadro (92 x 68 mm = 1,35 il 900 SS) e diventato sempre più superquadro: 1,44 l’851, 1,47 l’888, 1,42 la 916 (piccola marcia indietro), 1,48 la 996, 1,57 la 998 col primo motore Testastretta, 1,61 la 1098, 1,56 la 1198 col Testastretta EVO, ben 1,84 la Panigale 1199 col Testastretta Superquadro e addirittura 1,91 la Panigale 1299. In meno di 20 anni si passa da 1,35 a 1,91: pazzesco.

Inizia la marcia indietro: Honda e Yamaha

Ducati tiene duro col suo bicilindrico ultraquadro fino al 2018 (Panigale V4), ma i giapponesi hanno iniziato il “reflusso” almeno 10 anni prima, resisi conto di essere arrivati a motori al limite dell’utilizzabilità su strada. Ad aprire la strada sono proprio quelle che si erano spinte più in là coi superquadri: Honda e Yamaha. Io voglio segnalare due episodi, in sé forse minori ma molto significativi. Nel 1999, appena due anni dopo la R1, Yamaha porta al Salone di Tokyo la MT-01, una concept che prova a mescolare una ciclistica moderna, con parti trapiantate di peso dalla R1, con un motore a corsa lunga nato per le cruiser americane. Gli americani, per inciso, non hanno mai ceduto alle sirene del superquadrismo: i loro motori sono sempre rimasti a corsa lunga, anche quelli da corsa. Ma torniamo a Yamaha, che con quella incredibile 1700 inaugura la sigla MT: Monster Torque. E se vuoi una coppia mostruosa, servono una cilindrata bella grande e una corsa bella lunga. Acclamata a furor di popolo, la MT-01 viene messa in produzione nel 2005, ma risulta un fiasco commerciale, anche perché è molto costosa. L’idea della coppia prima della potenza ricomincia però a circolare, tra i motociclisti e tra i tecnici. Yamaha cambierà poi in modo sostanziale la direzione tecnica con le sue MT, dotandole dei motori CP3, CP2 e CP4; ma il CP2, il motore forse più venduto in Italia degli ultimi anni sommando tutte le moto che equipaggia, ha rapporto alesaggio/corsa di 1,17: quasi quadro.

Honda: dallo Zoomer al PCX

L’altro episodio riguarda uno scooterino, l’Honda Zoomer 50 dei primi Anni 2000. Un 50 4T che per tenere il passo dei 2T in termini di prestazioni sfoggiava la prima iniezione elettronica mai vista su un cinquantino e (ma pochi lo notarono) una corsa lunghissima: rapporto A/C=0,86, un pistone stretto stretto che alloggia due sole valvole. Con (relativamente) tanta coppia ai bassi e una rapportatura più lunga rispetto ai concorrenti, lo Zoomer ha un ottimo spunto da fermo e consumi record. Sofisticato e costoso, non sfonda; ma Honda capisce di aver aperto una porta. Nel 2009 lancia un modello destinato a diventare un best-seller globale, il PCX 125. Fino ad allora gli scooter di piccola cilindrata, potendo contare sul variatore, per risultare brillanti giravano alti ed erano superquadri: il Piaggio Liberty 125, per dire, aveva un motore monoalbero 4 valvole con A/C = 1,17. Col PCX Honda introduce il motore eSP, che sta per “enhanced Smart Power”. Tutti si concentrano sullo Start&Stop, ma in realtà il motivo per cui quel motore è così pieno e gradevole in prima apertura del gas è che è sottoquadro: rapporto A/C=0,96. Anche il PCX stabilisce nuovi record di consumo, con medie che sfiorano i 50 km/l. E Piaggio, guarda un po’, nel 2015 lancia il motore i-get, un 125 a 3 valvole con rapporto A/C=0,89: ancora più sottoquadro del PCX.

Il trend si consolida

Restando tra le piccole, Minarelli – all’epoca controllata da Yamaha – lancia nel 2007 il suo 125 monoalbero e corsa lunga, che si oppone ai bialbero corsa corta di Piaggio e più tardi KTM. Sappiamo com’è andata: è tuttora il motore più pieno e gradevole della categoria, specie da quando è arrivata la fasatura variabile. Honda si spinge ancora oltre nel 2012, con la serie NC700 / Integra: forse fin troppo oltre, perché il suo twin parallelo, monoalbero, molto inclinato in avanti e abbinato al cambio DCT ha rapporto A/C=0,91 e un’erogazione estremamente lineare, ma ben poco emozionante. È quasi un motore automobilistico; non a caso con il 750 il rapporto risale a 0,96. Negli ultimi anni, il trend del corsa lunga sembra comunque consolidarsi. Non solo per chi ha propulsori piccoli e non particolarmente aggressivi, come i 350 monocilindrici da 20 CV di Royal Enfield (rapporto A/C=0,84) che grazie alla corsa lunga riescono ad erogare una bella coppia, girare regolari ai bassi. Lo fanno anche i giapponesi, per motori anche ambiziosi: il bicilindrico 800 di Suzuki, il primo motore nuovo da molti anni del costruttore forse più razionale sulla piazza, è solo moderatamente superquadro: rapporto 1,20, allineato alla Yamaha MT-07 e molto meno dell’1,37 della Honda CB750 Hornet. E non è un caso che la GSX-8S abbia vinto molte comparative di categoria…

Chi la vuole corta e chi la vuole lunga

Intanto Ducati, passata al V4, ha fatto debuttare sulla Panigale e poi sulle Streetfighter e Multistrada una versione non da 1.000, ma da oltre 1.100 cc per mantenere l’alesaggio 81 mm della MotoGP ma un rapporto alesaggio/corsa “umano”: 1,51 (la V4R da 998 cc ha 1,67). Poi certo: parliamo di un trend e non di una legge. Alcuni modelli fanno eccezione, e sempre Ducati ha appena presentato la Supermono 698 col motore Testastretta Superquadro Mono, derivato dal bicilindrico e comunque un po’ meno superquadro: rapporto A/C=1,86 anziché 1,91. Le portabandiera della classicità, BMW Moto Guzzi e Harley-Davidson, hanno presentato per motivi diversi motori più superquadri. Il Revolution 1250 di H-D volta completamente pagina rispetto ai tradizionali V 45° come il precedente Evolution 1200 (rapporto A/C=0,92, sottoquadro): è un V60° con rapporto A/C=1,45: già da qui si capisce che non può avere niente a che vedere con gli antenati della serie Sportster. Per non parlare della serie touring: il Milwaukee-Eight nasce con A/C=0,86. Anche Moto Guzzi ha rivoluzionato il suo 1200 ad aria passando al nuovo V100 che ha in comune soltanto l’architettura a V90 trasversale: ma se guardiamo al rapporto alesaggio/corsa, è salito da un moderato 1,17 a 1,33. Questo per avere un motore più sportivo, con più allungo e più potenza anche in presenza di una cilindrata minore; ma anche gli stessi ingombri trasversali, visto il focus degli ingegneri era in questo caso la riduzione di peso e inerzie del powertrain.

Una tendenza duratura

Finiamo con la recentissima BMW R 1300 GS che ha portato al debutto l’ultima incarnazione del boxer: più corto, raffreddato completamente a liquido e soprattutto più superquadro. In questo caso è una misura operata su un motore già ben dotato di coppia, ma che non poteva più permettersi di aumentare ulteriormente l’ingombro trasversale: i tecnici sono tornati alla corsa del vecchio boxer 1200, 73 mm, dai 76 mm del 1250 in modo da conservare il più possibile la sagoma nel quadro di un progetto che aveva al primo punto la centralizzazione delle masse – che è in effetti l’aspetto che più salta all’occhio quando si guida una R 1300 GS. Insomma, parliamo sempre più spesso di Ride-By-Wire, fasatura variabile e altre tecnologie esotiche, ma non bisogna perdere di vista i fondamentali del motore. I motoristi lo sanno benissimo, anche se oggi hanno davvero tantissimi strumenti a disposizione per “correggere” le inclinazioni naturali di un motore o di un altro. Siamo tutti attratti dalle alte prestazioni, che per decenni sono state sinonimo di alti regimi e motori superquadri. Oggi che le prestazioni sono persino sovrabbondanti, i motori a corsa lunga regalano coppia ai medi, una guida più semplice, minori consumi, minor stress delle parti meccaniche: e sempre più motociclisti apprezzano queste qualità. Inoltre aiutano a contenere le emissioni di incombusti, che si annidano nella zona dei segmenti, più piccoli se l'alesaggio è piccolo. Insomma, il trend dei corsa lunga sembra destinato a durare… a lungo.
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