Attualità
Perché le aziende italiane della moto finiscono in mani straniere?
Le ragioni per cui siamo diventati terra di conquista vanno cercate indietro nel tempo. La nostra inchiesta
Italia fa rima con lusso, alto di gamma, artigianalità. Ma al di là dello storytelling dietro al quale molti si trincerano, si nasconde una realtà meno poetica. Ovvero che, salvo rare eccezioni (pensiamo al Gruppo Piaggio, oppure a Brembo) le aziende italiane riescono a stare sul mercato solo grazie a capitali esteri. È evidente che le aziende più note del made in Italy motociclistico (o almeno, le loro casseforti) abbiano varcato da tempo i nostri confini. Ma non necessariamente è un male, anzi.
GLOBALIZZAZIONE
Ma quando l’Italia è diventata terra di conquista per i colossi stranieri? Dagli Anni 90 in poi, sebbene la maggior parte delle operazioni di peso siano piuttosto recenti. Ma si tratta di un fenomeno che ha origini piuttosto antiche: qualcuno forse ricorda come già nel biennio 1972-73 il gruppo De Tomaso mise radici nel nostro Paese rilevando Benelli e Moto Guzzi (con operazioni finanziariamente spregiudicate, usando il debito come leva per rilevare brand importanti). L’ombrello delle “partecipazioni statali” per lunghi periodi ha protetto la nostra industria delle due ruote, che per sua costituzione ha sempre avuto dimensioni medio-piccole, dagli appetiti stranieri. È anche ovvio che, con l’ingresso dell’Italia nella Unione europea pienamente compiuta, il nostro Paese (e con esso la sua industria) è entrato in modo forzato nel mercato della concorrenza internazionale. Ed è negli ultimi 15 anni che questo processo ha preso una china inarrestabile, portando il meglio della nostra industria in mani estere.C’È SEMPRE UN RILANCIO
Il caso di Ducati è emblematico: dal 1996 a oggi ha cambiato tre padroni, passando dal fondo di private equity Texas Pacific Group a Investindustrial, fino al gruppo Volkswagen. Anni nei quali la produzione motociclistica e l’offerta sono cresciute. Un esempio che ha fatto scuola nella rinascita di altri marchi storici del motorismo italiano. Basti pensare a Benelli, rilevata dalla cinese Qianjiang (a sua volta controllata dal colosso dell’automotive Geely, la stessa che ha comprato Volvo): in pochi anni una gestione industriale accorta e una gamma prodotto ben studiata hanno proiettato Benelli nella top 3 dei modelli più venduti in Italia. Sempre sulla via della Seta ha trovato una nuova giovinezza Moto Morini, acquisita alla fine del 2018 dalla cinese Zhongneng Vehicle Group. Ma gli esempi possono continuare, passando da Black Ocean, il veicolo attraverso cui Timur Sardarov sta rilanciando a suon di quattrini e investimenti MV Agusta, fino a Yamaha Motor Europe (società di diritto olandese, che però risponde al quartier generale giapponese di Iwata) che ha creduto in una Motori Minarelli alla canna del gas per trasformarla in un hub internazionale per la produzione di motori, prima di cederla a Fantic Motor. Altri marchi storici, rimasti ormai scatole vuote, hanno preso la via del Brennero per approdare in Austria: là l’ambiziosa KSR ha rilevato Malaguti e Lambretta, brand sui quali stanno facendo un lento ma strutturato lavoro di rilancio. Non tutto il male però viene per nuocere, insomma: laddove non riesce la nostra industria, suppliscono quelle straniere.LA DOPPIA FACCIA DEI FONDI
Rilancio che viene portato avanti, addirittura con maggiore convinzione, dai fondi di investimento o di private equity che hanno fatto shopping di aziende nostrane. I quali adottano un modus operandi di medio termine che si potrebbe riassumere così: acquisto un’azienda promettente, la rilancio e dopo qualche anno la rivendo in modo da guadagnarci ancora di più rispetto all’investimento iniziale. Questi fondi hanno una liquidità e un portafoglio tale che possono permettersi di acquisire gioielli in ottima salute. Come nel caso di Dainese (che all’80% è controllata dal fondo sovrano del Bahrein Investcorp) e Nolan (comprata dal fondo francese 2R Holding, lo stesso che possiede il concorrente Shark). Ma se in quest’ultimo caso il deal è recente (risale infatti al 2019), nel caso dell’azienda vicentina è datato 2014. E sei anni sono un tempo maturo per far pensare a un’eventuale cessione. Non a caso nell’ultimo anno si sono fatte sempre più insistenti le voci in tal senso. Insomma, se da un lato i fondi garantiscono prosperità, dall’altro sono anche fonte di fibrillazioni societarie.lA nostra industria nazionale non è vocata alle grandi dimensioni. e, in anni di globalizzazione, è facile preda di capitali stranieri