La sfida: raccontare uno dei più grandi protagonisti del mondo della moto in Italia nei suoi lati più nascosti. "Il Franco" ci ha aperto il suo ufficio. E ha raccontato la più affascinante delle storie
L’ufficio di Franco Acerbis è un gran casino. Organizzato, a modo suo, ma terribilmente disorganico. Per terra cataste di giornali, libri, fogli. Sul ripiano dietro alla scrivania si affollano centinaia di ninnoli, frammenti di una vita. La prima coppa vinta in moto, una macchinina fatta a mano dai bambini del Niger riciclando con grande perizia lattine di Coca Cola usate, le rocce dei paesi visitati. Nessun cenno al suo tifo per l’Inter. Invece ci sono le mucche. Tante mucche.
LA MUCCA NELL’UFFICIO
A cosa si deve questa passione per le mucche?
“È un po’ il mio animale simbolo. La mucca rappresenta la tranquillità e la perseveranza. È per questo che per molte culture è un animale sacro”.
Di solito sei sempre così disordinato?
“In questo periodo un po’ più del solito (ride; ndr) perché sono appena tornato dalla Sei Giorni in Portogallo e devo ancora mettere a posto il materiale che ho raccolto. Per me è stato come fare il giro del mondo: in un solo luogo ho incontrato 31 mercati differenti. Capisci?”.
La mucca è il mio animale simbolo. La mucca rappresenta la tranquillità e la perseveranza
Riavvolgiamo il nastro. C’era una volta un ragazzo di Albino, nella Bergamasca, con pochissima voglia di studiare.
“Ero il quinto di nove figli, ero un lazzarone, mi sentivo un artista, in sostanza non avevo voglia di fare niente. Mi arrangiavo facendo le consegne in moto per il panettiere del paese e dando una mano a mio papà che aveva un mobilificio. A un certo punto i miei genitori mi portarono addirittura da uno psicologo, erano preoccupati perché non imparavo niente a scuola. Non ricordo quante volte ho ripetuto la terza media”.
E alla fine sei riuscito a prendere la licenza media?
“No. Però andai a Milano per iscrivermi a una scuola di formazione professionale, con l’idea di fare il fotografo. Peccato che i corsi fossero già pieni. Allora dissi che mi andava bene iscrivermi al corso per odontotecnico: tutto esaurito anche quello. L’unico in cui ci fossero ancora dei posti disponibili era quello per lo stampaggio di materiali plastici, a patto che convincessi altri quattro ragazzi ad iscriversi, così da raggiungere il numero minimo e far iniziare l’anno. In due ore raccolsi le persone necessarie”.
Se avessi trovato posto in quello da fotografo, il corso della storia sarebbe andato diversamente.
“Allora non pensavo certo che la plastica sarebbe diventata parte della mia storia. Io all’epoca pensavo solo a correre in moto”.
LA NASCITA DELL’AZIENDA
Da giovane hai fatto tanto Enduro, correndo per l’allora neonata SWM.
“Solo due anni: ho corso dai 24 ai 26 anni. Poi sono diventato un tuttofare sui campi di gara: a stare con i piloti capisci quello di cui hanno bisogno. Guarda questa (ci mostra un vecchio stampo per un parafango della SWM; ndr). È una delle mie prime creazioni, sarà stato il 1973. Pensai di fare un parafango in cui il fanalino era integrato, non attaccato, in modo che non si staccasse mentre si correva”.
Idea semplice ma brillante.
“Per non parlare del portafaro Elba, del 1981, di cui vado ancora oggi fierissimo. All’epoca esistevano solo fari tondi della Cev, avvitati a una staffa della moto. Io invece ho inventato lo stampo rettangolare. Sai da dove ho preso l’idea? Dalle Audi che correvano nel rally. La gente mi dava del matto. Alla fine ne ho venduto un milione di pezzi”.
Ero il quinto di nove figli, ero un lazzarone, mi sentivo un artista, in sostanza non avevo voglia di fare niente
La Acerbis nasce nel 1973.
“Importavo i componenti in plastica dell’americana Preston. Sai come facevo a dimostrare ai clienti che questo materiale era più resistente del metallo? Andavo al terzo piano dei palazzi con due serbatoi, uno in metallo e l’altro in plastica, li riempivo d’acqua e li buttavo di sotto. Quello di plastica rimbalzava ma non si rompeva. Quello in metallo si disintegrava”.
Una bella tecnica di vendita.
“Nel 1973, al mio primo stand al Salone del Motociclo di Milano, uno spazio di tre metri per tre, c’era una moto appesa per il parafango a un arco di metallo. È così che ha iniziato a vendere il Franco. In quegli anni la plastica, da materiale povero, è diventato il preferito dei costruttori, soprattutto nel fuoristrada. È leggero, non si rompe e non si arrugginisce mai”.
IL SALTO DI QUALITÀ
Quando hai fatto il salto di qualità?
“Nel 1983 Preston litiga alla morte con la moglie, che per ripicca prende tutti gli stampi in plastica e glieli taglia in due. Io a quel punto non avevo più nulla da importare, e mi sono messo a produrre serbatoi e parafanghi in proprio. Poi da lì è nato tutto: l’abbigliamento tecnico, le pettorine, le protezioni, i guanti, gli stivali, i caschi, fino all’abbigliamento sportivo”.
Nel 1973 hai partecipato alla spedizione italiana alla Sei Giorni nel Massachussets. Hai conquistato l’America delle moto e ne hai capito le potenzialità.
“Ho sempre avuto una vocazione internazionale, grazie a Preston che mi ha aperto un sacco di porte negli Stati Uniti, che da ormai molti anni sono il nostro mercato principale”.
negli anni 70 anni la plastica, da materiale povero, è diventato il preferito dei costruttori, soprattutto nel fuoristrada. È leggero, non si rompe e non si arrugginisce mai
Negli USA hai organizzato delle gare.
“Quattro Nevada Rally. E l’Incas Rally sul Machu Pichu: la carriera da rallysta di Fabrizio Meoni l’ho lanciata io, eh?”.
Per quale motivo ti è venuto in mente di organizzare una gara in Perù?
“Io volevo organizzare una specie di raid in Italia ma sai com’è qui... i permessi, la sicurezza, le autorità, la burocrazia. È stato più semplice spedire giù due moto in un container, raggiungerle sul posto e testare il percorso che l’anno dopo sarebbe diventato l’Incas Rally, fidati!”.
Franco, a 73 anni non ti sei ancora stancato di stare qui?
“Io ormai in azienda faccio solo il rompiscatole. La baracca la manda avanti mio figlio Guido (la figlia Michela invece è a capo della comunicazione; ndr). Lo sai anche che cosa ho imparato dagli americani?”
No, dimmi.
“Per far funzionare il cambio generazionale mettono i figli a gestire la parte finanziaria, la vera leva del comando. Guido ci ha messo qualche anno a imporsi, io l’ho lasciato fare, facendogli scegliere le persone di cui si fidava. E le cose sono andate bene”.
DA FRANCO A GUIDO: LA DINASTIA ACERBIS
Squilla il cellulare. “Scusa, ma devo rispondere”. Franco parla per pochi minuti con un tizio in Brasile. La lingua è un misto di bergamasco e spagnolo, ma il suo interlocutore capisce tutto.
“Perdonami ma la prossima settimana devo andare dai distributori locali. Bisogna stare aggiornati. Il mondo è grande: bisogna andare dove si vendono le moto, fuori dall’Europa. Io lo dico sempre in azienda: fate, fate, piuttosto sbagliate, ma non state immobili. L’immobilismo è la morte. Dai, adesso vai a parlare con Guido”.
Obbedisco. Guido Acerbis, senti ancora la presenza del “signor Franco”, come lo chiamano qui in azienda?
“All’inizio non è stato facile. Insomma, lui è il fondatore... sono entrato in azienda a 20 anni, ma da quando sono amministratore delegato (carica che ricopre dal 2006; ndr) mi sono dovuto guadagnare giorno dopo giorno credibilità e autorevolezza”.
Da uomo di numeri, cosa è oggi Acerbis?
“Un’azienda da 68 milioni di fatturato, con due stabilimenti (a Vall’Alta, frazione di Albino, e nella Repubblica Ceca), una filiale negli Stati Uniti e una in Inghilterra. In totale 320 dipendenti, di cui 180 in Italia. Poche aziende italiane sono presenti come noi nel mondo: distribuiamo in 92 nazioni. E cresciamo a ritmi costanti del 6-7% ogni anno”.
Ormai ha tutto in mano mio figlio guido. io sono solo l'ambasciatore dell'azienda
Riuscite a crescere con risorse vostre?
“Abbiamo emesso un minibond quotato alla Borsa Italiana. E in tempi ragionevoli, non essere più un’azienda familiare come siamo oggi può aiutare nella crescita. Quando i tempi saranno maturi, non diremo no a una quotazione in Borsa”.
Gli Stati Uniti rappresentano il vostro mercato principale.
“Certo. Ma uno dei temi che ci stanno più a cuore sono le aree dove oggi si vendono più moto, ossia l’estremo oriente. In Cina siamo presenti con un produttore in licenza, che sarà la nostra testa di ponte per crescere in quell’area. Resta da capire come si comporta il mercato indiano. Il mio sogno è riuscire a realizzare un prodotto economico, di grande qualità, per sfondare in un mercato che ogni anno vale 20 milioni di moto”.
Siete i primi fornitori di BMW e KTM.
“Il primo equipaggiamento resta una leva fondamentale per la crescita. Abbiamo anche Honda, MV Agusta e Ducati tra i nostri clienti. Ma c’è un numero che rende bene quello che è oggi Acerbis. Lo sai quante nuove tipologie di articoli produciamo ogni anno? 400 in materiale plastico e 1.600 tra accessori e abbigliamento. Una media di 3-4 prodotti al giorno, Natale e festivi compresi. Senza evoluzione continua non si va avanti”. Come dice il Franco.
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