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Quelli con la GSX-R

Lorenzo Cascioli il 15/05/2018 in Attualità

Una razza purissima di motociclisti che non ha mai tradito i mezzi manubri. Un popolo fiero cresciuto nel nome di Kevin Schwantz e dello SRAD. Un esercito di smanettoni che ha riempito il Suzuki Day…

Quelli con la GSX-R
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A inizio millennio le ipersportive andavano ancora via come il pane. I filonipponici vendevano l’anima al diavolo per mettersi in box una R1, una Fireblade, una Ninja, una GSX-R. Ognuno aveva la sua ed era convinto che fosse migliore delle altre. Poi c’erano i Ducatisti, certo, che però erano di un’altra risma. Nemici giurati delle quattro in linea: loro le mangiariso non le volevano vedere nemmeno negli specchi e rivendicavano la supremazia storica del pompone con i successi a ripetizione in quel campionato chiamato Superbike. Che si fosse di una parrocchia o di un’altra, comunque, erano anni di mezzi manubri. Tanto per dare un’idea, nel 2003 la Honda CBR600 era la seconda moto più venduta in Italia: 8.800 pezzi. La Yamaha R6 – ancora più cattiva – era la quarta: 4.500 moto targate! Le sportive culminavano un’espansione iniziata quasi vent’anni prima. I circuiti eran sempre pieni, le strade come il Muraglione pure. Chi faceva le tute in pelle si sfregava le mani.

Il naso nel contagiri

Ecco, oggi – nel consueto peregrinare per raccontare eventi a due ruote – mi sembra di essere tornato a quell’epoca felice in cui anch’io sudavo le mie domeniche dentro una tuta di pelle. Sono al Suzuki Day, a San Martino del Lago, vicino a Cremona. E l’occasione è ghiotta per studiare da vicino una razza – razza purissima – di motociclisti: il popolo delle GSX-R. Per loro una GSX-R è più di un mezzo meccanico. È una fede, è una religione. Ma queste son parole banali, perché ogni motociclista venera la sua amata. A questa particolare specie di motociclisti va però riconosciuto di avere la scorza dura, di aver passato indenni un trentennio – dalla prime GSX-R750 del 1985 - di totale fedeltà allo stesso modello di moto. Non si sono lasciati corrompere dall’immediatezza delle naked, dall’efficacia delle crossover. No, il popolo delle GSX-R non ha tradito per un manubrio alto. È rimasto con il naso nel contagiri, dentro il cupolino. Un qualcosa che solo i Ducatisti oggi possono ancora vantare.

L’ultima 750

Giro per il paddock di Cremona. Qui c’è gente che fa sul serio. Termocoperte, moto sul carrello, gomme in mescola, carene in vetroresina. Molti hanno il settemmezzo, cilindrata da intenditori. Né troppo, né poco. Meno impegnativo di un mille, molto più pieno di un seicento. Suzuki è stata l’ultima Casa, per lungo tempo, a produrre una 750 quattro cilindri sportiva. Cubatura storica e meravigliosa ammazzata dai regolamenti della Superbike, mannaggia a loro. E l’aver potuto comprare fino a soli pochi anni fa un GSX-R750 – rigorosamente bianco, blu, azzurro – per questo popolo è motivo di orgoglio. Orgoglio sacrosanto, vorrei sottolineare.

Lo SRAD

Tra una tuta Rizla e una Lucky Strike rimbalzano parole che arrivano da lontano: Yoshimura, storico preparatore dai tempi delle prime fascinose moto da Endurance. C’è un linguaggio quasi misterioso tra gli adepti di questa setta. K3, K7, K8: quelle che per gli altri sono incomprensibili combinazioni alfanumeriche, per questa gente sono chiari riferimenti. Identificano modelli precisi, con caratteristiche tecniche a loro ben note. Aleggia ancora la leggenda dello SRAD. Che per chi non lo sapesse - e se non sai cos’è uno SRAD tra i Suzukisti non sei nessuno – fu primo tra tutti il GSX-R750 del 1996. Quello con il codone tondo e gigante. Quello appunto con la scritta SRAD, che voleva dire Suzuki Ram Air Direct. Erano anche gli anni in cui stava arrivando Internet, che con i modem 56k portava nelle nostre case il mondo (oltre alle donne nude). E così gli amanti delle GSX-R scoprirono che i loro colleghi inglesi le chiamavano “Gixxer”. Da allora molti di loro si definiscono “Gixxeristi”.

Raggi Gamma

Se dobbiamo parlare di un popolo, dobbiamo parlare delle sue radici. Che affondano agli inizi degli Anni 80 delle prime GSX e della leggendaria Katana, per poi consolidarsi nel 1985 con l’avvento delle GSX-R. Che non è solo l’aggiunta di una R a una sigla, ma è un momento storico ben preciso: è il lancio delle prime “race replica” di grande serie. Moto a forma di moto da corsa, per dirla in parole povere. Vicino ai box mi imbatto nel primo 1100 del 1986. Sgraziato con la ruotona da 18” ma affascinante. Bombardone primordiale con il suo 4 in linea raffreddato ad aria/olio. SACS per chi mastica l’alfabeto di Hamamatsu. Bello e impossibile con i suoi 130 cavalli. Nel paddock del Cremona Circuit è affiancato da una RGV 250 Gamma e da una RG 500 Gamma. Le ultime due tempi sportive. Che non si chiamano GSX-R, ma che fan parte della stessa cultura motociclistica.

Nel nome di Kevin

Nei 3.000 suzukisti accorsi a Cremona Circuit ci sono anche quelli con le V-Strom e quelli con le SV, con i Burgman e le Intruder, con le Hayabusa. Ma il focus è in pista. I turni si susseguono uno dietro l’altro: 100 euro per 4 ingressi. Da metterci la firma. Vecchie volpi dei cordoli si sfregano le mani. Ma ci sono anche trentenni che forse strisciano per la prima volta in vita loro una saponetta sull’asfalto. C’è un perfetto “Iannone Replica” con la tuta Ecstar nuova di zecca e il numero 29 sulla carena.

Bellissima moto, faccia da bravo ragazzo, ha anche un certo stile di guida in pista. Gli manca solo la Belen. Come lui, qui al Suzuki Day ci sono ragazzi e ragazze che parlano di mappature, di controlli elettronici. Concetti ignoti ai padri cresciuti nel mito di Kevin Schwantz. Come avrebbe mai fatto il texano a entrare a ruote bloccate al Motodrom con l’ABS? Ecco, diciamolo, se c’è una generazione di ragazzi che si chiama Kevin, non è solo per colpa di Kevin Costner. E a un certo punto Schwantz arriva davvero a Cremona. Si infila la tuta, il suo inconfondibile casco. La terrazza sopra i box si riempie. E prima che lui accenda il motore del GSX-R1000 per entrare in pista, scende un religioso silenzio. Poi parte un applauso. Lungo, lunghissimo, sincero.
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