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I viaggi dei lettori

Siamo andati in Turchia

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In moto nella penisola anatolica, lontani dal turismo di massa e a contatto con popolazioni strordinariamente ospitali. L'esperienza di un lettore e la gallery fotografica.

Bigjohn Partecipare ad un viaggio organizzato può sembrare, per i “puristi” del turismo in moto, una forma di sacrilegio, forse perché trovare già pronto il posto negli alberghi, farsi trasportare il bagaglio dal furgone appoggio, avere un programma già quasi completamente definito, toglie qualcosa allo spirito di avventura, alla libertà di scegliere l’itinerario, alla possibilità di pensare al viaggio come ad una propria creatura.
Per me non è stato così, anzi, il mio viaggio in Turchia mi ha regalato non solo nuove amicizie, ma anche emozioni e sensazioni di cui mi ricorderò per sempre e che spero di poter trasmettere in questo breve racconto.
Il programma prevedeva di raggiungere la Turchia passando attraverso la Grecia e partendo dal porto di Igoumeniza, dopo una nottata trascorsa in traghetto. Come ci aspettavamo, abbiamo percorso strade dall’asfalto spesso scivoloso, ma in Grecia la situazione è molto migliore rispetto a quella di pochi anni fa ed è in continuo progresso. Quando abbiamo passato il confine, abbiamo subito avuto la prima occasione di “farci le ossa” in dogana, non tanto per la severità dei controlli (in pratica nulla anche all’uscita dal paese), quanto per le lungaggini burocratiche. Una volta entrati in Turchia, ci siamo diretti subito verso Sud, seguendo la costa fino all’imbarco del traghetto per l’attraversamento dello stretto dei Dardanelli, che rappresenta il confine fra Europa ed Asia.
La Turchia occidentale è molto frequentata dal turismo di massa, la gente è abituata agli stranieri e le località di mare più gettonate ricordano quelle italiane. Lo stile di vita è apparentemente molto simile a quello europeo, non si vedono donne con il volto nascosto dal velo e quelle con il capo coperto o che fanno il bagno in mare vestite sono veramente poche. L’ombelico scoperto fra le donne è di moda anche qui, in particolare fra le adolescenti, segno di una progressiva emancipazione. Ci ricordavamo di essere in un paese islamico quando sentivamo il muezzin dagli altoparlanti dei minareti (il primo richiamo alla preghiera era alle cinque del mattino circa, qualche volta è stato la nostra sveglia ed è inutile raccontare i nostri pensieri quando venivamo svegliati in quel modo e a quell’ora!). La nostra presenza sarebbe passata quasi inosservata, se non fosse stato per le nostre splendide moto, che attiravano l’attenzione di tutti, perché in Turchia è molto raro vedere grosse e moderne enduro, sport tourer o addirittura supersportive come la mia. Quelle poche che si vedono hanno targa dell’Europa occidentale, con targa turca mi ricordo di aver visto due Ninja e una R1 in quindici giorni. I turchi guidano prevalentemente moto con motore due tempi, piuttosto malconce, con fumosità da ciminiera e sonorità scoppiettante. Spesso sono dotate di sidecar, sul quale vengono sistemate indifferentemente persone e cose. L’uso del casco, come del resto accade in Grecia, è apparentemente un optional e il concetto di abbigliamento protettivo è inesistente. Sul traghetto dello stretto dei Dardanelli mi hanno chiesto il prezzo, in lire turche, della mia moto. Mi ha fatto impressione rispondere che il valore era di circa 21 miliardi di lire! E ha fatto impressione anche a loro! Da Canakkale, prima tappa in Turchia, ci siamo recati a Kusadasi, piacevole località balneare, seguendo una strada costiera con asfalto per lunghi tratti molto dissestato, sfruttando l’occasione di visitare due siti archeologici molto interessanti, Pergamo (a destra) e il più importante Efeso. La tappa successiva è stata Pamukkale, centro dell’entroterra rinomato per le acque termali (si può fare il bagno nelle antiche terme romane, ne vale la pena) e per le colline calcaree, tanto bianche che da lontano sembrano ricoperte di neve e ghiaccio. Si possono visitare, ma, una volta arrivati alle rocce bianche, si può camminare solo a piedi nudi. In avvicinamento a Pamukkale siamo stati fermati dalla polizia (gli appostamenti sono numerosi), ufficialmente per un semplice controllo dei documenti, in realtà ci siamo accorti che gli agenti, peraltro molto cordiali, volevano solo guardare meglio le nostre moto.

Il nostro viaggio è proseguito verso est, lontano dalle rotte del turismo di massa, per arrivare a conoscere e a toccare con mano la Turchia che più ci ha colpiti e affascinati. Sto parlando della Cappadocia. Qui il turismo è ancora molto sviluppato, ma chiaramente non è quello delle località di mare, avendo una radice prevalentemente storico/culturale. In prossimità dei siti le guide ci avvicinavano non appena parcheggiavamo le moto e ci conducevano nella visita fornendo spiegazioni e informazioni sempre interessanti, parlando un italiano a volte stentato ma comprensibile. Non è sempre indispensabile prendere una guida, ma a volte è una scelta quasi obbligata, come nel caso del sito delle case e delle chiese scavate nella roccia a Goreme, uno dei luoghi più affascinanti che abbiamo avuto occasione di visitare. Murat, la nostra guida, ci ha raccontato che, in epoche remote, le comunità cristiane in fuga dalla minaccia araba trovarono rifugio in queste zone, scavando nella pietra tenera (si tratta prevalentemente di tufo) abitazioni e chiese, queste ultime splendidamente affrescate.
Tutte le guide, di solito, sono “convenzionate” con varie attività commerciali locali, quindi, dopo la visita in un sito, è normale che propongano, per fare un esempio, di pranzare in un particolare ristorante. A noi non è stato proposto di recarci in un ristorante, bensì in una cooperativa, dove vengono prodotti tappeti secondo le più antiche tradizioni. A tal proposito, ci è stato spiegato che la cooperativa riceve sovvenzioni da un’università, di cui purtroppo non ricordo il nome, per far sì che le antiche tradizioni nella lavorazione dei tappeti vengano scrupolosamente conservate. Hakan, simpatico personaggio che parlava un ottimo italiano, con i suoi insegnamenti ci ha permesso di conoscere da vicino una realtà per noi insolita e molto suggestiva. Siamo stati accolti con molta cordialità, ci hanno portato un’ottima pizza turca e acqua fresca (chiedendoci due milioni di lire, poco più di un euro), poi, come ci aspettavamo, hanno fatto di tutto, ma con molta discrezione, per venderci i tappeti, fra l’altro tutti bellissimi.
Le classiche tradizioni e le usanze islamiche, andando verso est, sono ancora molto sentite (per esempio, è facile trovare locali dove non servono alcolici o dove le donne non sono ammesse) ed il tenore di vita è mediamente più basso. Nei grandi centri urbani di questa zona, come Isparta e Nevsehir, l’influenza dello stile di vita europeo è molto ridimensionata ma è ancora presente, nei piccoli centri o nelle campagne invece si respira un’atmosfera completamente diversa e nelle città dell’Est, come Kahraman Maras o Sanli Urfa, si fa sentire la vicinanza con la Siria. Non siamo rimasti colpiti solo dal paesaggio, unico nel suo genere, dalle montagne a forma quasi perfettamente conica, dalle case scavate nella roccia, alcune delle quali tuttora abitate da gente molto povera, o dalle città sotterranee. L’impatto più forte è stato quello con le persone, incredibilmente ospitali, genuine, cordiali, semplici. Ci vedevano passare e ci salutavano, dai lati della strada o dai campi, dai carrettini trainati da muli o cavalli, dalle auto o dai camion (guidano tutti come dei pazzi, però ci salutano!). Non ho mai dovuto rispondere a così tanti saluti da quando viaggio in moto. Dovunque andassimo trovavamo sempre un sorriso ad accoglierci, ad ogni sosta si formavano spontaneamente i “comitati di benvenuto”. Spesso, nei distributori di benzina, dopo il rifornimento ci veniva offerto il çai, il buonissimo tè turco, e una volta un benzinaio, in segno di amicizia, mi ha salutato seguendo l’usanza locale, cioè con due baci sulle guance.
Inutile dire che sono stato oggetto di ogni forma di presa in giro fino alla fine della vacanza, anche perché, in Turchia, sembra che sia assolutamente normale il rapporto fra uomini, che vanno in giro tranquillamente mano nella mano e in pubblico non hanno alcun problema a mostrare tenerezza l’uno per l’altro. Provate ad immaginare l’ilarità causata da un fattorino di un albergo, il quale, dopo avermi dato informazioni su dove fosse la mia stanza, mi ha strizzato l’occhiolino di fronte ai miei compagni e con un sorriso mi ha detto: “Italiano? Ciao bella!”. No, non ho sbagliato a scrivere, ha usato proprio il femminile! E tutti quanti si chiedevano, per rincarare la dose, perché certe cose succedessero solamente a me…

Abbiamo vissuto un’esperienza unica in occasione della visita in una moschea di epoca medievale, a Beysehir, poco prima di visitare il caravanserraglio di Sultanani, nel quale, secondo la leggenda, si sarebbe fermato Marco Polo. La moschea è citata sulle guide, si trova a metà strada fra Isparta e Nevsehir, ma i turisti sono molto rari, forse perché è un po’ fuori mano ed è difficilissimo trovarla per la totale mancanza di indicazioni. Noi ci siamo riusciti grazie all’aiuto di due agenti di polizia, i quali prima ci hanno fatto strada, poi hanno interceduto per noi con l’Imam, il quale inizialmente non voleva farci entrare. Le donne del gruppo hanno dovuto coprirsi il capo, poi siamo entrati, chiaramente a piedi scalzi. Le donne, di solito, non entrano nelle moschee per pregare e, se proprio vogliono farlo, sono letteralmente relegate in una balconata. L’Imam è stato gentilissimo, ci ha fatto da cicerone e, prima che terminasse la nostra visita, ha recitato una preghiera per noi, creando un’atmosfera di raccoglimento molto toccante.
Proseguendo verso est, siamo giunti fino a Harran, dove abbiamo visitato le case di sterco e fango essiccati, che nella forma e nella struttura interna ricordano i trulli di Alberobello in Puglia. Prima della visita, ci siamo recati fino al confine con la Siria, ad Akcakale, distante circa 15 chilometri. Siamo rimasti molto delusi, perché la frontiera è un semplice passaggio attraverso i binari della ferrovia, non ci è stato permesso di scattare foto, anche se i militari ci hanno accolto con l’usuale cordialità, poi la polizia, con molta discrezione e mantenendosi a distanza, ci ha seguiti fino all’uscita dalla cittadina.
La povertà a Harran è impressionante, molte persone vivono veramente in case di fango, che non sono così ben tenute come quelle trasformate in museo per i pochi turisti che vengono a visitarle. Anche la steppa, brulla, quasi priva di vegetazione, contribuisce a trasmettere una sensazione di povertà. Hamet, il ragazzo che si è proposto come guida, parlava un ottimo inglese, imparato lavorando con i turisti, ed era originario dell’Iraq, come tanti altri abitanti di quella zona. Ci ha fatto parcheggiare le moto a casa sua, in modo che rimanessero sorvegliate (non per il pericolo di furto, ma per evitare che, in nostra assenza, i curiosi le toccassero o ci si sedessero sopra). La sua casa non era di fango, ma era ugualmente umile. Le sorelle di Hamet si sono rivelate molto ospitali, ci hanno accolto in casa e hanno fatto provare i loro splendidi vestiti ad alcune delle donne del gruppo, mentre i bambini, ovviamente, erano attratti dalle moto e le guardavano con tanta intensità da rischiare di consumarle con gli occhi.
Da Harran abbiamo cominciato l’avvicinamento verso Istanbul. Prima di attraversare l’Eufrate, siamo stati a visitare l’imponente diga di Ataturk, che, secondo le nostre informazioni, sarebbe la seconda diga al mondo, non ho ben capito se per la larghezza dello sbarramento, circa due chilometri, o per la capienza del bacino. E’ un’opera maestosa, la cui costruzione, cominciata nel 1973 e terminata nel 1992, creò non pochi problemi nei rapporti diplomatici con altri due stati attraversati dall’Eufrate, la Siria e l’Iraq. All’ingresso ci è stato sbarrato il passo dai militari, che poi si sono fatti convincere a lasciarci entrare. Gli addetti alla sorveglianza della diga si definiscono “Ranger” e lo dicono con evidente orgoglio. Non mi spiego il fatto che altri nostri compagni, giunti alla diga quando noi eravamo già andati via, non hanno ricevuto il permesso di entrare.
Un pomeriggio è stato dedicato alla gita sul Nemrut Dagi, sulla cui cima, come da tradizione, abbiamo assistito al tramonto, seduti in prossimità delle enormi teste dell’imperatore di Commagene e investiti da un vento teso e gelido, che quasi ci faceva rimpiangere i 47 gradi patiti a Harran (ho detto quasi). Per i meno allenati, o, se preferite, per i più sfaticati, è previsto un “comodissimo” servizio di trasporto in sella ai muli, ma la camminata non è particolarmente impegnativa e dura circa trenta minuti, sforzo minimo in rapporto allo splendido panorama di cui si gode da questo balcone naturale. Secondo la leggenda, il Re Antioco I scelse la cima di questo monte per far erigere il suo tempio funerario, ma la sua tomba non sarebbe stata mai ritrovata.
Dopo aver raggiunto e visitato Hattusas, la capitale degli Ittiti, la culla della nostra civiltà, siamo partiti il giorno dopo molto presto per Istanbul, per poter arrivare in città di buon’ora.
Istanbul è una metropoli enorme e caotica, alla quale abbiamo dedicato un pomeriggio e tutta la giornata successiva, rendendoci conto, però, che avrebbe meritato maggiori attenzioni. E’ una città dalle mille sfaccettature, perché si coglie il benessere e anche la povertà, la modernità e l’arretratezza, si trova il rispetto ferreo delle tradizioni islamiche e anche usanze più europee, si incontrano donne dall’abbigliamento emancipato e donne di cui si vedono solo gli occhi, nelle moschee i turisti entrano liberamente ma l’ingresso degli “infedeli” è separato da quello dei “fedeli”. Insomma, è il degno anello di congiunzione fra Europa ed Asia. Dovunque andassimo, ma soprattutto all’interno dello splendido e gigantesco Gran Bazar o di fronte alle moschee, venivamo immediatamente “inquadrati” come turisti italiani con un’abilità che ci ha impressionati, ma non abbiamo riscontrato la stessa genuinità della popolazione della Turchia dell’Est, molto meno appiccicosa e insistente.
L’imponente Moschea Blu (forse seconda in grandezza solo alla moschea di Maometto), la Moschea del Sultano, Santa Sofia, le cisterne sotterranee e il Palazzo di Topkapi meritano un’attenta visita, ma non andrebbero trascurati il quartiere più famoso di Istanbul, il Galatasaray, e il Bosforo, magari con un’escursione in battello.
Lasciata Istanbul, siamo rientrati in Grecia. Alla frontiera ho visto qualcosa che mi ha meravigliato e contrariato. Il percorso che porta dalla zona turca a quella greca prevede un passaggio obbligato sotto una costruzione in cemento, dotata di spruzzatori d’acqua, come un grande autolavaggio. Ora gli spruzzatori sono disattivati e si passa normalmente, ma in passato i veicoli provenienti dalla Turchia dovevano sottoporsi al lavaggio, come se si portassero dietro chissà quale sporcizia!
In Grecia siamo stati a visitare i monasteri ortodossi delle Meteore, costruiti sulla sommità di rilievi rocciosi dalla forma molto particolare. Alcuni dei monasteri sono abbandonati e in rovina, altri sono tuttora abitati da monaci, i quali, in quanto eremiti, non incontrano mai i visitatori. Anche in questa occasione siamo riusciti a stupirci non solo per il caratteristico paesaggio o per la posizione dei monasteri, ma anche perché le donne in pantaloni o in abiti succinti non possono entrare. All’ingresso di ogni monastero, il bigliettaio consegna alle donne non in regola una specie di “sottanone”, che viene indossato sopra i pantaloni e viene riconsegnato prima di uscire, però chi indossa una gonna che termina sopra il ginocchio entra liberamente!
Il rientro in Italia è stato quasi triste, un po’ perché la vacanza stava terminando, un po’ perché era ancora vivo dentro di noi l’entusiasmo nato da una splendida esperienza, vissuta a contatto con un paese meraviglioso e con una popolazione che ci ha accolti come mai avremmo potuto immaginare e alla quale ci sentiamo ancora adesso molto vicini. Abbiamo trascorso insieme diciannove giorni, ma ci sarebbe piaciuto avere avuto la possibilità di prolungare il nostro viaggio, che, oltre alle testimonianze storiche, alle emozioni e alle sensazioni di cui ho ampiamente parlato, ci ha lasciato un tesoro immenso, cioè la nascita di nuove amicizie e il consolidamento di quelle vecchie, il tutto condito da una passione comune: viaggiare in moto.
 
Le moto alla fine del viaggio
Le colline coniche della Cappadocia
La moschea di Beysehir
Harran
Al confine turco
Il monastero della Grande Meteora
Nemrut Dagi
Siamo andati in Turchia
Siamo andati in Turchia
Siamo andati in Turchia
Siamo andati in Turchia
Siamo andati in Turchia
Siamo andati in Turchia
Siamo andati in Turchia
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Siamo andati in Turchia
Siamo andati in Turchia
Siamo andati in Turchia

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